Di BRUNO MONTESANO

La pericolosità del governo Meloni è spesso risolta così: sarà quasi tutto uguale, in economia le mani sono legate – da energia, Ucraina, effetti del Covid, inflazione -, in politica estera ancora di più. In fin dei conti, il discorso di Meloni lo ha dimostrato, è una destra moderata. Lo ripete quotidianamente il Corriere della sera. A sinistra, una delle interpretazioni più frequenti tende a sminuire il rischio rappresentato da questo governo. La battaglia si concentrerà sul fronte dei diritti civili, si dice. L’immigrazione è un diversivo. Distrae dai problemi veri, materiali degli italiani. Appartiene alla sovrastruttura e all’ideologia, si azzardano a dire alcuni.

Così, la contrapposizione tra noi e loro che si vorrebbe abolire viene riaffermata. Il sociale, l’economico riguarda la nostra classe media in declino e i nostri operai in affanno. Roba di “italiani”. Ma il fenomeno migratorio ha un’importante dimensione economico-sociale. Le persone straniere in Italia sono un consistente pezzo di classe operaia (il 9%, che produce 144 miliardi, il 10% del PIL, dati F. Moressa del 2022). E, a differenza degli italiani, hanno un accesso limitato alle risorse del welfare e al riconoscimento sociale e politico. I tassi di povertà e disoccupazione, accesso a salute e abitazioni sono strutturalmente più bassi di quelli degli italiani. I tassi di carcerazione sono più alti. E non certo per la predisposizione al crimine di cui postfascisti e sociologi fintamente progressisti parlano. Chi ha la cittadinanza essendo nato altrove, a sua volta, non è considerato italiano al pari di chi discende da italiani bianchi. Non lo è dai media, né dalla politica, né dalle imprese, né nella cultura.

Sottovalutare l’estrema destra di governo tradisce un privilegio (“non se la prenderanno con me”) e una visione dei diritti e del rapporto tra ideologia e politica debole. Bisogna invece comprendere che accanirsi su migranti – dentro e fuori i confini – e sui diritti riproduttivi non ha nulla di astratto. Sono piuttosto operazioni che incidono sulla materialità dello sfruttamento. Regolano il prezzo della forza lavoro e delle condizioni in cui si possono o meno rivendicare diritti. Donne, comunità LGBTQ+, migranti non sono minoranze. Sono (anche) forza lavoro.

Da questo punto di vista, l’intervista rilasciata ieri da Roberto Speranza a Repubblica è significativa. Egli invita a non farsi rinchiudere nelle ridotte identitarie legate al rapporto con i migranti. Bisogna occuparsi “di italiani”, di quelli più svantaggiati in particolare. Come sembra fare, tanto retoricamente quanto efficacemente, Giuseppe Conte. Al contrario, Luigi Manconi, sullo stesso quotidiano, invitava a far ripartire il Pd dal molo di Catania. Enrico Letta ha accolto positivamente la richiesta. La sua scelta si colloca a metà tra le buone intenzioni a costo zero e un cattivo passato da riscattare.

La detenzione amministrativa nei centri di identificazione ed espulsione (oggi CPR) è stata introdotta dal centro-sinistra con la legge Turco-Napolitano nel 1998. Tuttavia, più recentemente, diversi europarlamentari del PD hanno tentato di modificare il regolamento di Dublino. Altri esponenti nazionali, a fasi alterne, si sono schierati contro la Bossi-Fini e con le ONG nel Mediterraneo centrale, dopo che il loro partito aveva contribuito a delegittimarle nella fase del governo Gentiloni. I decreti Minniti-Orlando hanno introdotto un “diritto etnico” per chi fa domanda di asilo. Non è chiaro se quell’eredità sia stata ripudiata o meno. La partecipazione di vari esponenti del PD al presidio a Roma contro gli accordi con la Libia fa sperare in tal senso. Lo ius scholae, che è una mediazione a destra dello ius soli, viene dopo che il Pd ha sprecato varie occasioni per introdurre forme di accesso alla cittadinanza meno escludenti.

Il PD non ha la coscienza sufficientemente pulita per essere credibile nella lotta al razzismo. E ancora meno lo ha il M5S di Conte che ha volutamente trascurato la questione delle migrazioni nel suo programma elettorale – che pure vale poco, come quello di tutti i partiti. Tuttavia, se è vero che il modello di Meloni è quello polacco (ossia appartenenza al blocco euroatlantico e repressione interna di donne, LGBTQ+ e migranti), chi pagherà maggiormente il prezzo del postfascismo sarà chi è considerato irrimediabilmente altro dal modello di cittadino che l’estrema destra vuole difendere.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 13 novembre 2022 con il titolo “Il modello Meloni non è un diversivo”.

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