Pubblichiamo una serie di editoriali che si propongono come pezzi di una discussione generale sulle “lotte in Europa ora”, sugli evidenti punti di difficoltà e sulle prospettive di superamento. Iniziamo con l’analisi della relazione tra lotte in Europa e regimi di guerra, e con l’urgenza di politicizzare l’opposizione tra autonomia europea ed euroatlantismo.


Del COLLETTIVO EURONOMADE

1. È nel segno delle lotte in Inghilterra e in Francia che vogliamo provare a interpretare il blocco, o almeno lo stallo del processo politico di convergenza e più in generale delle lotte sociali in Italia. Sono lotte radicali, che in Inghilterra scuotono il sistema delle relazioni sindacali riorganizzato in quattro decenni di neoliberalismo e fanno emergere il profilo di un lavoro sociale insubordinato, mentre in Francia pongono con forza le ragioni della vita contro le ragioni dello sfruttamento. Perché in Italia, nonostante le condizioni oggettive siano più che mature, queste lotte non trovano risonanze significative? Certo, rispondere a questa domanda richiederebbe una lunga analisi della peculiarità italiana, del quadro sindacale e politico, nonché dello stato dei movimenti, ma anche dell’inusitata violenza dell’attacco alle condizioni di lavoro e di vita di milioni di donne e uomini, che può ben aver determinato condizioni di spossatezza e di ripiegamento individuale o corporativo. Qualcuno potrebbe poi sostenere che la stessa domanda da noi posta è vana, considerato che le lotte inglesi e francesi non hanno in realtà avuto effetti di contagio in nessun Paese europeo. Proprio qui, tuttavia, sta per noi il punto. Siamo convinti che gli sviluppi dell’ultimo anno all’interno dell’Unione Europea concorrano a determinare il blocco delle lotte nei Paesi membri – e che il ruolo dell’Italia di Giorgia Meloni nel promuovere questi sviluppi abbia un riflesso di non poco conto nella situazione politica e sociale interna. Per questa ragione proponiamo una serie di elementi analitici sulla situazione europea come lenti per l’analisi delle dinamiche italiane.

Gli sviluppi dell’ultimo anno all’interno dell’Unione Europea, abbiamo scritto. Ci riferiamo evidentemente all’anno della guerra in Ucraina e alle trasformazioni profonde che la guerra ha determinato in Europa. C’è qui un primo punto da segnalare. Non sono mancate, in diversi Paesi europei, le lotte contro le conseguenze della guerra, contro l’aumento delle bollette in particolare. Le stesse lotte ecologiche, come si è visto in particolare a Lützerath, hanno spesso assunto come obiettivo la riorganizzazione delle fonti energetiche e il rilancio del fossile che la guerra ha determinato. Nonostante molte iniziative parziali, tuttavia, non vi è stato in Europa un grande movimento per fermare la guerra. E questa dovrebbe essere la priorità oggi per chiunque voglia riaprire in questa parte del mondo un orizzonte di lotta per la libertà e l’uguaglianza. Questa guerra, come ha scritto Raúl Sanchez Cedillo, non finisce in Ucraina. È piuttosto una guerra che si svolge in un modo già multipolare, in cui in questione è il controllo degli spazi al cui interno si distendono i processi globali da cui dipendono oggi la valorizzazione e l’accumulazione del capitale. Il comando statunitense sull’Unione Europea, riaffermato attraverso il primato della NATO su quest’ultima, nega la possibilità che la stessa Unione possa essere trasformata in uno spazio di mediazione e di pace. Di più: arruola l’Europa in operazioni di contenimento della Cina nell’indo-pacifico che esasperano la competizione bi-polare tra quest’ultima e gli USA. Un esito possibile di questa esasperazione è la semplificazione degli attuali assetti mondiali, fino a giungere a uno scontro militare tra le due potenze che avrebbe esiti catastrofici. A questi esiti, in qualche modo, allude la minaccia russa di uso di armi nucleare nella guerra in Ucraina.

La guerra in Ucraina deve dunque essere fermata al più presto, mentre i rifornimenti di armi all’Ucraina da parte dell’Occidente (con i Paesi europei ormai in prima fila) non fanno che prolungarla, prolungando così lo strazio di corpi, città e territori. Ma devono essere fermati al tempo stesso i regimi di guerra che, ben al di là di Russia e Ucraina, stanno proliferando in molte parti del mondo, e in particolare in Europa. Va da sé che per regimi di guerra non intendiamo una forma di organizzazione politica interamente (totalmente) definita dalla guerra. Ci riferiamo piuttosto a una penetrazione flessibile della logica della guerra (dell’“interesse nazionale”) nella vita politica e nell’economia al di là del diretto impegno bellico di un Paese. L’aumento delle spese militari, la militarizzazione di settori “civili” dell’economia, l’inclusione nel calcolo “geopolitico” di questioni come il governo delle migrazioni, la politica energetica e le infrastrutture digitali sono tre esempi delle molteplici manifestazioni del regime di guerra. Altri se ne potrebbero facilmente aggiungere. È in ogni caso evidente che il regime di guerra, al pari della guerra combattuta sul terreno, esercita una potente funzione di blocco rispetto alle lotte sociali. E se le immagini che provengono dal fronte ucraino riportano alla mente le trincee e le “tempeste d’acciaio” della grande guerra, quando la pace sociale e l’unità patriottica vennero imposte in tutti i Paesi coinvolti, risuonano per noi da quegli anni le parole di Rosa Luxemburg: “è la guerra come tale, e quale ne sia l’esito militare, a significare la maggiore sconfitta per il proletariato europeo; farla finita con la guerra e forzare al più presto la pace con l’azione combattiva del proletariato, ecco ciò che può rappresentare l’unica vittoria per la causa proletaria” (Juniusbroschüre, aprile 1915).

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