Di CHRISTIAN MARAZZI

Gennaio 2023

Nuovo ordine energetico (e monetario) mondiale

È dal 1945 che l’alleanza geopolitica tra USA e Arabia Saudita ha garantito agli Stati Uniti sicurezza militare nel Medio oriente e, soprattutto, petrolio ancorato al dollaro. Quella alleanza diede inizio al regime del petrodollaro. Nel 1974, quando un gruppo di paesi arabi impose l’embargo sul petrolio come rappresaglia per il sostegno statunitense a Israele nella guerra del Kippur, Richard Nixon garantì di nuovo armi e un accesso preferenziale ai titoli del Tesoro americani, ottenendo in cambio che l’Arabia Saudita si impegnasse a indicizzare tutte le vendite di petrolio in dollari. Nel 2003, tra le accuse rivolte a Saddam Hussein, ci fu anche quella di aver cominciato a vendere petrolio in altre valute. Sappiamo come è andata a finire. In ogni caso, è qui che si incomincia a parlare di de-dollarizzazione. Dal 2018 la Russia ha iniziato ad affrancarsi dal dollaro, regolando le forniture di petrolio in euro. Per questo motivo la prima sanzione contro la Russia è stato il congelamento di una parte delle riserve valutarie della Banca centrale russa. Questo precedente di “militarizzazione” (weaponisation) delle riserve valutarie in dollari fa intravedere un cambio di direzione del sistema monetario e energetico internazionale. Il 2023 potrebbe essere ricordato come l’anno in cui prende forma un nuovo ordine energetico mondiale tra Cina e Medio Oriente, con la nascita del regime del petroyuan1.

Mentre già da tempo la Cina sta acquistando nella sua propria valuta sempre più petrolio e gas naturale liquefatto e altre materie prime (come peraltro l’India le paga in rupie o gli Emirati arabi in dirham) da Iran, Venezuela, Russia e parti dell’Africa, il meeting dello scorso dicembre tra Xi Jimping, sauditi e i leader del Gulf Co-operation Council (GCC, composto da Bahrain, Kuwait, Oman, Qatar, Saudi Arabia, e United Arab Emirates) segna, secondo l’analista Zoltan Pozsar di Credit Suisse, l’inizio di una fase in cui la Cina vuole riscrivere le regole del mercato energetico globale come parte di un più ampio disegno di de-dollarizzazione dei paesi del cosiddetto Bric (Brasile, Russia, India e Cina) e di altre parti del mondo. Non si tratta solo di un aumento delle importazioni di materie prime energetiche pagate in renminbi (peraltro a prezzi fortemente ribassati), ma di una cooperazione a tutto campo con i paesi del GCC (esplorazione e produzione congiunte, investimenti in raffinerie e infrastrutture, prodotti chimici e pastiche, il tutto pagato in renminbi sul Shangai Petroleum and Natural Gas Exchange). E questo entro il 2025.

Il mercato del petrolio è dominato da paesi che hanno più cose in comune con la Cina che con gli Stati Uniti (almeno in termini delle rispettive politiche economiche), ma questo non significa ancora che si assisterà, almeno nel breve periodo, ad una diminuzione significativa del peso del dollaro come valuta-chiave del sistema monetario e finanziario mondiale2. Storicamente, affinché una potenza economica possa imporre la sua moneta al resto del mondo come valuta di riserva (o divisa-chiave), è necessario che, oltre ad essere una potenza militare, sia strutturalmente indebitata, sia verso l’esterno che al suo interno. Pagando in dollari le importazioni dal resto del mondo, si costringe nel medesimo tempo i paesi esportatori a reinvestire gli stessi dollari sul debito pubblico statunitense o a usarli per pagare le importazioni di petrolio. Questo circuito determina forzatamente la “fiducia” nella valuta americana, di fatto la sua egemonia, il suo “privilegio esorbitante”, come lo chiamò Valéry Giscard d’Estaing negli anni ’60. “Il dollaro è la nostra valuta ma un vostro problema”: in questa esternazione del Segretario al Tesoro John Connally, pronunciata poco dopo la dichiarazione d’inconvertibilità in oro della moneta americana nell’agosto del 1971, è racchiusa l’intera storia del sistema monetario internazionale degli ultimi settant’anni.

La Cina, che si trova strutturalmente in una situazione diversa da quella americana (basti pensare alla bilancia commerciale in forte attivo), ha offerto una sorta di rete di sicurezza finanziaria a coloro che utilizzano il renminbi, rendendolo convertibile in oro sul mercato di Shanghai e di Hong Kong. L’aumento delle riserve nazionali cinesi in oro dello scorso anno si spiega infatti come fuga dalla ‘tirannia del dollaro’ e come strategia per bypassare le sanzioni americane e europee contro la Russia3. Ironia della storia: gli Stati Uniti riuscirono a imporsi a Bretton Woods contro il piano di Keynes (1944) agganciando il dollaro all’oro (fissando la parità a 35 dollari l’oncia), e lo poterono fare perché tra le due guerre mondiali avevano accumulato due terzi di tutto l’oro monetato mondiale. Non che l’oro sia mai stato veramente la base materiale per l’emissione di dollari, anzi!, ma è così che il nascente sistema monetario internazionale permise ad una valuta nazionale di funzionare contemporaneamente da moneta internazionale, una asimmetria che Keynes voleva assolutamente evitare con il Bancor, vera e propria moneta sovranazionale. Vedremo se l’oro permetterà al renminbi di diventare a sua volta una divisa-chiave internazionale.

Sarà però lo sviluppo delle monete digitali delle banche centrali (CBDC, central bank digital currencies) che permetterà la vera e propria internazionalizzazione del renminbi.  Attualmente, il sistema monetario basato sul dollaro poggia sui bilanci delle banche commerciali occidentali. Usare il medesimo network è dunque rischioso per la Cina (specie dopo il precedente delle sanzioni contro la Russia), quindi è necessario costruire un altro circuito disancorato da quello della valuta americana. È per questo che vi è la corsa a digitalizzare le monete della banche centrali (secondo il Fmi, oltre la metà delle banche centrali del mondo è impegnata nella ricerca/sviluppo/implementazione delle monete digitali), appunto per connettere tra di loro le banche centrali esterne all’area di influenza geopolitica e geoeconomica americana.

Comunque, per il momento ci sono anche altre le implicazioni economiche e finanziarie di questa strategia energetica. La Cina vuole adescare imprese occidentali con la prospettiva del petrolio a basso prezzo. La tedesca BASF, ad esempio, ha infatti ridotto le sue operazioni chimiche a Ludwigshafen per spostarle a Zhanjiang. Un processo analogo, ma di segno opposto, riguarda imprese europee che hanno aumentato i loro posti di lavoro negli USA a causa dei più bassi costi energetici. La guerra militare-energetica in corso sta indubbiamente ridefinendo la divisione internazionale del lavoro, nel senso di una accentuazione dei processi di regionalizzazione e localizzazione della produzione di merci.

Le politiche petrolifere comportano sempre rischi finanziari. A partire dalla fine degli anni ’70 in poi, il riciclo dei petrodollari da parte dei paesi produttori/esportatori in paesi emergenti come il Messico, il Brasile, l’Argentina, lo Zaire, la Turchia e altri ancora, attraverso le banche commerciali americane (attraverso il mercato degli eurodollari), pose le basi per una serie di crisi del debito sovrano in questi paesi; diede impulso alla finanziarizzazione con la creazione di “innovazioni” speculative come la cartolarizzazione dei titoli; incrementò l’economia del debito interno degli Stati Uniti con l’afflusso di capitali nelle banche commerciali statunitensi. Ci si chiede se questi processi possano oggi ripresentarsi, ma rovesciati. Già adesso, gli enormi surplus delle bilance correnti di Cina, Russia e Arabia saudita non sono utilizzati, come da tradizione, per acquistare Buoni del Tesoro statunitensi, che agli attuali tassi d’inflazione offrono rendimenti negativi. Sono invece usati per acquistare oro (come ha fatto recentemente la Cina), materie prime (come l’Arabia saudita, che li investe in nuove industrie estrattive) o per interessi geopolitici (aiuti a paesi alleati, come la Turchia, l’Egitto o il Pakistan, come nel caso della Russia). Per gli Stati Uniti, col debito pubblico che si ritrovano, oltretutto un debito che in gennaio ha raggiunto il suo tetto e necessita quindi dell’approvazione del Congresso per essere aumentato, le cose si complicano non poco.  C’è da chiedersi, ad esempio, come gli Stati Uniti possano continuare a finanziare ai ritmi attuali la spesa per armamenti da destinare all’Ucraina.

Non è tanto l’entità del debito federale che preoccupa (si veda Paul Krugman, “Does America Have Too Much Debt”, in New York Times, 24 gennaio, 2023; vedi anche La soutenabilité des dettes publiques, Revue d’économie financière, nr. 146, 2022), ma la sua sostenibilità politico-strategica. Per evitare il default federale, occorre un accordo bipartisan per spostare il tetto del debito verso l’alto (o, idealmente, per eliminarlo), il che comporta un periodo di negoziazione di qualche mese (fino a giugno, sembrerebbe), periodo durante il quale tra politiche anti-inflazionistiche e carenza di liquidità sul mercato dei Buoni del Tesoro americani, il costo del debito pubblico rischia di  schizzare pericolosamente verso l’alto. In uno scenario di questo tipo, particolarmente destabilizzante per i mercati finaziari, la Banca centrale americana sarebbe (inevitabilmente) costretta ad intervenire acquistando i Treasury bonds, contraddicendo così platealmente la politica monetaria restrittiva che ha perseguito durante tutto il 2022 nel nome della lotta all’inflazione. Insomma, dal quantitative tightening si ritornerebbe al quantitative easing, riproducendo le condizioni per quella spirale debitoria che ha caratterizzato tutto il periodo che ha fatto seguito alla grande finanziaria del 2007-08 e alla crisi pandemica. Tra il 2008 e il 2019, il debito federale statunitense detenuto dal pubblico è aumentato del 500%, il debito privato non-finanziario del 90% e il debito dei consumatori, escluso quello ipotecario, è aumentato del 30%; in seguito, dal 2020 in poi, cioè durante la crisi pandemica, queste categorie di debito sono aumentate rispettivamente di un altro 30, 15 e 10%. (Gillian Tett, “The Fed finds itself in a nasty hole”, in Financial Times, 27 gennaio 2023).

Se il petroyuan dovesse decollare, la tanto ventilata de-dollarizzazione potrebbe davvero materializzarsi. Di fatto, il processo è già avviato. Come ha scritto l’economista Dominique Plihon, “stiamo assistendo a un doppio movimento di regionalizzazione e di multipolarizzazione del sistema monetario internazionale che potrebbe portare a una ‘guerra delle valute’”4.

Verso una nuova politica industriale?

È in questo contesto di ridefinizione delle nuove strategie energetiche e monetarie che va interpretato il progetto Inflation reduction act (Ira), approvato dai due rami del Congresso e firmato da Biden lo scorso 16 agosto. Si tratta di misure programmate soprattutto nel campo delle sovvenzioni green. Su un budget totale di 738 miliardi di dollari, ben 391 sono destinati ai settori dell’energia e all’ambiente. Più precisamente: 128 miliardi per l’energia rinnovabile e stoccaggio di energia di rete; 37 per la produzione tecnologicamente avanzata di energia; 32 per lo sviluppo delle economie rurali; 30 per l’energia nucleare; 22 per l’approvvigionamento di energia per consumi domestici; 14 per l’efficienza energetica domestica; 13 ad incentivi per i veicoli elettrici. E poi ancora: soldi per la decarbonizzazione di scuolabus, camion della spazzatura, flotte di pubbliche amministrazioni e acquisti a debito di energia elettrica da parte di cooperative rurali. “Un aspetto che irrita gli europei – scrive Alessandro De Nicola su la Repubblica A&F (16 gennaio 2023) – è lo strisciante protezionismo insito nella disposizione. Infatti, per ottenere le agevolazioni per le auto elettriche la batteria del motore deve essere fabbricata con minerali e componenti prevalentemente estratti o prodotti negli USA o in un Paese con il quale c’è un accordo di libero scambio (come il Canada o il Messico). Naturalmente ciò rischia di tagliar fuori molti modelli europei o di alzarne i prezzi in modo irragionevole”. Se l’Europa volesse contrastare l’iniziativa dell’amministrazione Biden con un “vaste programme” di politica industriale per rafforzare le imprese europee e accelerare la transizione energetica, dovrebbe derogare alla normativa dei divieti di aiuti di Stato, “da sempre architrave del mercato unico continentale e delle politiche di concorrenza”.

Resistenze liberiste a parte (in particolare quelle del ministro delle finanze tedesco, il liberale Lindner), è un fatto però che nel 2020 la Commissione europea decise di adottare un approccio meno rigido per salvare i settori colpiti dalla recessione causata dal Covid. Il problema è che questi sussidi europei approfondiscono, invece di attenuare, le disparità tra paesi-membri. Ad esempio, dei 540 miliardi di euro autorizzati da Bruxelles nel 2022, il 50% sono tedeschi e il 30% francesi. L’Italia, schiacciata sotto il peso del debito, rappresenta solo il 4,7% delle erogazioni. Recentemente, la Spd ha proposto un maggior indebitamento della Ue per sostenere l’industria autoctona, di cui i tedeschi e i francesi beneficerebbero in misura molto superiore agli altri paesi-membri. Come scrive Andrea Bonanni sulla stessa pagina de la Repubblica, “Mentre Bruxelles era riuscita, con il Recovery fund, a dare una risposta coesa all’emergenza economica provocata dalla pandemia di Covid, l’emergenza energetica innescata dalla guerra ha visto ogni Paese correre ai ripari per conto proprio (…). Il rischio che la disparità tra gli aiuti di Stato forniti dalle capitali finisca per distruggere il mercato unico è reale”.

In questa “guerra dei sussidi”, che va oltre il campo energetico per estendersi ai semiconduttori5, l’Europa rischia di essere schiacciata, oltre che dalle sue contraddizioni interne, in una competizione tra sistemi-paese con maggiori propensioni dirigiste. Fabrizio Onida, su Il Sole 24 Ore (15 gennaio 2023), ricorda la storia della Silicon Valley, in cui il ruolo del governo federale non è stato tanto l’acquisto di chips e dispositivi a spese dello Stato, quanto l’incentivo concreto ai protagonisti del mercato a esplorare nuove strade, spingere avanti la frontiera scientifica e tecnologica, “operando in un certo senso come il primo potente venture capitalist della Silicon Valley divenuta il centro di una vasta supply chain che attraversa i cinque continenti”. È sulla ridefinizione materiale delle coordinate geopolitiche che la politica industriale sta riacquistando legittimità e pertinenza, un segno della crisi del modello economico liberista alla base della globalizzazione degli ultimi trent’anni.

Attorno a queste questioni, guardando alla fine del Next Generation EU di 750 miliardi di euro e alla necessità di accompagnarlo con maggiori investimenti (“non solo da parte del settore privato, ma anche da parte dei governi nazionali”, ha detto la Lagarde), all’interno della BCE vi sono due posizioni: quella di Fabio Panetta, membro dell’esecutivo, secondo cui “il nuovo ordine mondiale significa che le economie europee non possono più fare affidamento sulla domanda estera come ‘aggiustatore di ultima istanza’”, per cui è necessario un modello più equilibrato, con un ruolo maggiore della domanda interna e degli investimenti pubblici per rafforzare la base di capitale nazionale. L’altra posizione è quella di François Villeroy de Galhau e Joachim Nagel, presidenti della Banca di Francia e della Bundesbank, che in un articolo comune hanno scritto: “La trasformazione digitale e verde delle nostre economie, l’invecchiamento delle nostre società (…) richiederanno investimenti massicci, che comportano principalmente finanziamenti privati”. L”autonomia strategica dell’Europa, secondo loro, dipende dalla capacità concorrenziale del mercato dei capitali privati. “…l’approvazione da parte della Corte costituzionale tedesca del MES, il paracadute condizionale dell’Unione, mette a punto un pezzo della struttura europea necessaria alla creazione dell’Unione dei mercati dei capitali. Ora la parola passa a Roma, l’unica capitale a non averlo ancora approvato”6.

Grounding

Durante le festività natalizie, tra il 21 e il 31 dicembre, la Southwest Airlines, la più grande compagnia low-cost statunitense, ha bloccato a terra migliaia di passeggeri con la cancellazione di quasi tutti i voli. La stessa cosa è accaduta all’aeroporto di Tijuana, con la cancellazione dei voli della Volaris, la compagnia low-cost messicana7. Il caos infernale vissuto dai passengeri a causa del meltdown delle compagnie aeree è stato attribuito al cattivo tempo e a sistemi informatici di programmazione del personale datati e del tutto inadeguati a far fronte a situazioni emergenziali. Secondo il Financial Times8, i problemi delle due compagnie aeree riflettono l’industria aeronautica in generale, e possono essere estesi all’intero modello aziendale liberista (efficiency model corporate management) che ha dominato negli ultimi 40 anni. In crisi è infatti il modello dello shareholder value, la priorità data agli azionisti con la distribuzione di dividendi crescenti realizzati con il riacquisto delle azioni proprie (share buyback) a scapito degli investimenti in sistemi tecnologici aggiornati e di miglioramenti delle condizioni di lavoro. Normalmente, Wall Street premia le società che riducono il personale (downsizing) e distribuiscono profitti agli investitori, piuttosto che investirli in capitale strumentale, che rende solo nel lungo periodo. Durante la pandemia, i sussidii alle compagnie sono stati vincolati alla proibizione del buyback e della distribuzione dei dividendi, come pure al licenziamento del personale. Non appena, in settembre, gli aiuti sono stati sospesi, ci si è affrettati a ritornare al modello pre-pandemico (di fatto, alla logica della finanziarizzazione aziendale, come nel caso della General Electric, che da tempo ha trasformato l’industria manifatturiera in una istituzione finanziaria too-big-to-fail), e questo malgrado i sindacati avessero chiesto aumenti salariali e migliori condizioni di lavoro.

Certo, questo modello ha permesso di abbassare i prezzi dopo che le compagnie aeree sono state deregolamentate a partire dagli anni ’70. Ma questo tipo di gestione aziendale è stato all’origine dell’aumento della concentrazione del capitale (4 airlines posseggono l’80% del settore aeronautico americano), dell’esportazione di posti di lavoro verso paesi meno regolamentati come il Messico, El Salvador, la Cina, della compressione dei salari e dell’aumento del carico di lavoro.

La Grande dimissione si spiega alla luce del fallimento dell’“efficiency model”, il modello della produzione snella focalizzato sulla contabilità finanziaria dei centri costo e la svalorizzazione del lavoro. È un esodo dal Grande logoramento.

D’altra parte, i colossi statunitensi del digitale hanno annunciato tagli di decine di migliaia di posti di lavoro. Secondo i dati raccolti da Layoffs.fyi, oltre 214 mila persone sono state licenziate dall’inizio del 2022 nel settore tecnologico. Ha iniziato Twitter con il taglio più grosso voluto da Musk: 50% dei dipendenti, 3.700 persone (di cui una parte significativa si è dimessa volontariamente). Poi Meta, la società madre di Facebook, Instagram e WhatsApp, ha annunciato lo scorso novembre la perdita di 11.000 posti di lavoro (13% del totale della forza-lavoro). Salesforce, il primo gruppo di computing cloud, ha avviato una procedura di licenziamento per 8.000 dipendenti. Microsoft ne ha tagliati 10.000 (il 5% dei 221.000 dipendenti), Snap 1.200 (20%), Stripe 1.100 (14%). Amazon “solo” 18.000, che rappresentano l’1% del milione e mezzo dei suoi dipendenti.

Questo nel 2022. A inizio 2023, Spotify ha annunciato il taglio del 6% dei suoi circa 9.800 dipendenti. Poco dopo, Alphabeth, la holding di Google ha annunciato il taglio di 12 mila dipendenti (ca. Il 6%). E poi ancora Spotify, il colosso dello streaming musicale, taglierà il 6% della forza lavoro. IBM taglierà 3.900 posti di lavoro (1%). SAP, la società tedesca di software, prevede di cancellare 3.000 impieghi (2,5% della forza lavoro).

Secondo gli analisti, se durante la crisi pandemica le assunzioni (… e i valori borsistici) sono cresciute enormemente (+ 53% per Microsoft, + 57% per Alphabet, +100% per Amazon e 94% per Meta) per rispondere alla domanda di “consumo digitale”, il calo delle entrate pubblicitarie, la guerra in Ucraina e l’inflazione hanno destabilizzato il settore. Solo Apple, che durante la pandemia aveva aumentato il personale del 20%, non sembra per ora intenzionata a licenziare, perlomeno a questi livelli.

Anche nel settore digitale, come in quello aeronautico e in altri settori (commercio, ristorazione, sanità), è in gioco la tenuta di un modello di gestione aziendale basato sulla produzione snella, il just in time, la flessibilizzazione della forza lavoro e l’outsourcing.  Nel settore tecnologico, alla crisi del modello di management aziendale, si aggiungono due altri fattori: le misure anti-trust (bipartisan), come quella appena annunciata dal dipartimento di giustizia federale contro Google e, forse soprattutto, “una crescente indifferenza sociale alle pratiche del capitalismo della sorveglianza”9. A metà gennaio, il distretto di Seattle ha presentato una querela contro TikTok, Facebook, Instagram, Snapchat e Youtube perché questi social “ledono la salute mentale dei ragazzi (…) L’assalto coordinato alle menti vulnerabili dei giovani ha prodotto un’emergenza di salute mentale”, caratterizzata da tassi esplosivi di “depressione, ansia, ed ideazione suicide” a cui si trovano a dover far fronte amministratori ed insegnanti.Tutti gli ingredienti del paradigma postfordista degli ultimi decenni sembrano collassare, sia sul piano della produzione che su quello della riproduzione di valore sociale.

Questo articolo è stato pubblicato su EuroNomade ed Effimera.


1            Vedi Rana Foroohar, “A new world energy order is taking shape”, in Financial Times, 4 gennaio 2023. Di de-dollarizzazione si è parlato anche durante il periodo del quantitative easing in risposta alla crisi finanziaria del 2007-2008. I paesi con surplus della bilancia corrente furono non poco infastiditi dai rendimenti negativi sui loro risparmi (in dollari) investiti in buona parte in Buoni del Tesoro statunitensi, il che li portò a cercare nuove destinazioni per i dollari accumulati grazie ai loro avanzi commerciali. Vedi Zoltan Pozsar, “Great power conflict puts the dollar’s exorbitant privilege under threat”, in Financial Times, 20 gennaio 2023.

2         Dal 1999 al 2021, la quota di riserve valutarie in dollari è passata dal 71% al 59%, il che rappresenta comunque sempre circa il triplo dell’euro, che segue col 20%. Della relativa perdita di peso del dollaro, il renminbi ha beneficiato solo per un quarto, attestandosi a un mero 3% delle riserve mondiali, mentre a beneficiare della uscita dal dollaro quale riserva valutaria sono state valute di economie più piccole, come l’Australia, il Canada, Singapore, la Corea del Sud e la Svezia, tutti paesi che hanno aderito alle sanzioni contro la Russia e quindi non rappresentano un’alternativa al dollaro. Vedi Fabrizio Maronta, “Il primato del dollaro non finirà domani”, in Limes, n. 7/2022. Il senso dell’analisi di Maronta è più o meno il seguente: La de-dollarizzazione intercetta lo spirito del nostro tempo. Sia Mosca sia Pechino vogliono sviluppare alternative al biglietto verde, anche se la Russia non ha una massa economica sufficiente, e la Cina non vuole cedere alla liberalizzazione economica e finanziaria che minerebbe il suo sistema politico. Ciò non impedisce alla Cina di perseguire la sua lenta ma costante erosione del dollaro, in particolare creando una divisa digitale, un “bitcoin di Stato”, con l’obiettivo dichiarato di aggirare il sistema dollarocentrico. Si veda, per un approfondimento più completo, Michel Aglietta, Guo Bai e Camille Macaire, La Course à la suprématie monétaire mondiale. À l’épreuve de la rivalité sino-américaine, Odile Jacob, Parigi 2022. Brasile e Argentina hanno appena annunciato (23 gennaio 2023) di voler creare il Sur (Sud), la moneta unica dei Paesi sudamericani, con l’obiettivo esplicito di ridurre la dipendenza dal dollaro.  

3            Jonathan Gutrie, “Gold is beconomig the bright stuff for would-be sanctions busters”, in Financial Times, 10 gennaio 2023.

4            Vedi Renaud Lambert, “I Calimero dell’euro”, in Le Monde diplomatique/il Manifesto, gennaio 2032.

5            Sul fronte dei semiconduttori (chips) alla base di tecnologie come l’intelligenza artificiale, comunicazioni 5G, internet delle cose, realtà aumentata, cloud, big data, quantum computing e altro, col suo Chips Act l’Europa, seppur in scala minore e che entrerà in vigore a metà 2023, ha anticipato di qualche mese l’americano Chips and Science Act.

6            Vedi Nicola Capelluto, “Fine del denaro facile”, in Lotta comunista, dicembre 2022. «Finchè io conto qualcosa – ha dichiarato Giorgia Meloni – l’Italia non accederà al Mes, lo posso firmare col sangue». Chissà se il MES farà la fine delle accise sulla benzina. Da un’intervista a Charles Michel, presidente di Consiglio europeo, apparsa su la Repubblica il 23 gennaio (“Nessuno vince da solo. Nuovi fondi comuni per l’Ue”), sembra di capire che per l’immediato futuro è piuttosto il Fondo Sure (Support to mitigate Unemployment Risks in an Emergency, strumento europeo di sostegno temporaneo per attenuare i rischi di disoccupazione in un’emergenza, di 100 mld di euro, quota per l’Italia pari a 27,4 miliardi… già spesi) che si vuole (ri)attivare.

7            Vedi “How to avoid flight chaos”, in The Economist, 7 gennaio 2023, p 51.

8            Rana Foroohar, “Hyper-efficient model is bad business”, in Financial Times, 9 gennaio 2023.

9            Vedi Luca Celada, “Assalto bipartisan al dominio della Silicon Valley”, in il manifesto, 26 gennaio 2023.

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