di GIROLAMO DE MICHELE.

a proposito di: Gianni Biondillo, L’incanto delle sirene. Un’indagine dell’ispettore Ferraro, Guanda, Milano 2015, € 18.00, pp. 330

È trascorso un decennio da Per cosa si uccide, da quel cane sgozzato col quale tutto cominciò, quando sulla scena del giallo italiano giunse l’ultimo arrivato: l’ispettore Ferraro.
In quel 2004 era, quella scena, tumultuosa: il romanzo poliziesco era ancora nella fase ascendente della parabola messa in moto da American Tabloid, ferveva di ambizioni che rompevano le storiche barriere del genere, duellava con i fieri custodi laureati di quelle frontiere che alzavano sopraccigli denunciando restaurazioni, ambiva a riscrivere, se possibile dalla parte dei vinti, le pagine più oscure e illeggibili della storia patria. Pochi anni dopo, e sarebbe iniziata la fase calante, un Termidoro senza Restaurazione, sotto i colpi delle serialità e dei serial killer, dei venti gelati e della concessione alle rapine in villa – “quello che vuole sentirsi raccontare il lettore” (quale lettore, poi?) – e alle mafia connection de noantri da parte di scrittori cui sembravano pochi 25 lettori, e alzare la voce sui vecchi e nuovi media sembrava preferibile alla fatica di descrivere. E soprattutto, sarebbe cambiato il clima del paese, col suo vuoto di progettualità politica e letteraria nel quale si riapriva la forbice fra il molto che si sarebbe potuto cambiare, e il poco che era stato possibile cambiare.

In questo spazio – che è quello che intercorre fra il Pete Bondurant di Ellroy e la Lisbeth Salander di Stieg Larsson – arrivava dunque in punta di piedi Ferraro, un ispettore senza qualità: ed è ancora qui, con una figlia che nel frattempo è diventata grande, una vita sentimentale complicata come lo sono tutte – lo dice lo stesso Biondillo, sussurrando alle spalle del suo personaggio, che «non si smette mai d’essere fumatori, alcolisti e innamorati. In fondo non siamo ridicoli, siamo solo fragili. Bisogna aver pazienza». Come quella che aveva Ferraro nel 2004, quasi avesse saputo che sarebbe durato a lungo: e che gli è necessaria per orientarsi nella Milano del 2015, ora che sembra passata un’era geologica, nella quale neanche Quarto Oggiaro offre più una bussola per orientarsi. Merito di Biondillo aver sfuggito la tentazione di mitizzare Quarto Oggiaro in un fortino da difendere, senza per questo rinnegarne la variegata umanità, e averne registrato le trasformazioni, il degrado, la nuova malavita senza codici, il progressivo abbandono a se stesso in un inesorabile avvicinarsi alla soglia d’impazzimento sociale: mentre «la città dei belli e dei ricchi» diventa sempre più bella e sempre più ricca, popolata da uomini e donne col salvadanaio al posto del cuore che si portano sotto la doccia i soldi da esibire, i quartieri popolari affondano fra gli scarti della produzione urbana, in attesa di essere comprati e gentrificati.
salaUna Milano neanche più da bere, ma da ruttare, con la quale Ferraro dovrà convivere per trovare il cecchino che fa fuoco sulla sfilata d’alta moda, lontana ben più che alcune centinaia di kilometri dall’inferno sceso in terra dall’altra parte del Mediterraneo. Dal quale proviene Aisha, la bambina sbarcata dopo aver attraversato il mare, costretta a vagare in un paese che non è suo cercando di evitare le guardie – «che strano, siamo scappati dal nostro paese perché avevamo paura delle guardie: e qui è lo stesso» – protetta dallo spirito di ‘Amm Khaled, annegato nella traversata, e da un barbone intenzionato a rivedere per l’ultima volta la Milano in cui è nato, prima di morire: un clandestino anche lui, in fondo, il cui unico reato è quello di esistere. Una Milano nella quale sembrano tutti essere clandestini di qualcosa: clandestini di una vita degna di essere vissuta, alla ricerca di una casa da occupare in una città che di case vuote ne ha diecimila; clandestini della decenza con abiti da ventitremila euro «accessori esclusi»; clandestini del genere umano, alla ricerca di un capro espiatorio – «avevano mesi di affitto inevaso, la corrente elettrica tagliata, un conto in rosso in banca, un assegno di disoccupazione, un lavoro in nero, una pratica di divorzio in corso, un fido negato, una causa col condominio, una macchina da cambiare, lo scaldabagno rotto, le vacanze a Sharm el Sheikh saltate,e sapevano, sapevano all’unisono che la causa di tutto ciò era quel fottuto musulmano del cazzo che faceva panini nel cuore della notte». In questa commedia umana, Ferraro cercherà di mettere a posto le poche cose riparabili – non è detto che la sua vita sia fra queste – grazie a quello spirito meridiano che Quarto Oggiaro gli ha donato, e che nessuno può portargli via.

Uomo senza qualità, Ferraro: e proprio per non essere assoggettato ad una sola, ne ha molte in potenza – ingenuità, pazienza, ironia, spirito meridiano. Tanti possibili che si stipano nel baule di una sola parola: umano. Ma non diceva forse Calvino che ciò che si chiede allo scrittore è garantire la sopravvivenza di quel che si chiama umano in un mondo dove tutto si presenta inumano?

questa recensione è stata pubblicata su L’indice dei libri del mese del febbraio 2016 col titolo “L’ispettore senza qualità”

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