di ALBERTO DE NICOLA e BIAGIO QUATTROCCHI

Il libro che avete tra le mani è una raccolta di interventi con a tema la nuova natura delle lotte sociali che si sono presentate sulla scena della più grande e devastante crisi economica e istituzionale degli ultimi decenni. Nonostante comincino ad essere numerose le iniziative editoriali sui movimenti contro le politiche di austerity, ciò che qui ci apprestiamo a presentareha una caratteristica piuttosto singolare: si tratta del tentativo di leggere come espressioni di una tendenza comune la variegata costellazione di pratiche sociali che in Europa e non solo hanno tentato di resistere allo smantellamento del Welfare State, alla compressione dei salari, all’aumento della precarizzazione del lavoro e dell’impoverimentosociale. Più precisamente, abbiamo provato ad intendere le pratiche di riappropriazione del reddito e di autogestione dei servizi, gli esperimenti di mutualismo così come le nuove forme di conflitti sul lavoro e per il salario, come indicatori di un nuovo fenomeno sindacale. Con l’utilizzo della definizione di“sindacalismo sociale” si è dunque puntata l’attenzione su quanto questi conflitti, apparentemente scollegati, stessero riproponendo ed al contempo radicalmente riconfigurando, gli assi fondamentali che hanno caratterizzato l’esperienza storica del sindacalismo: le forme organizzative della forza lavoro, la pratiche negoziali e i conflitti sulla distribuzione del reddito e della ricchezza.

Gli interventi che qui proponiamo sono il frutto di un percorso di ricerca avviato dal collettivo Euronomade proprio attorno a questa ipotesi preliminare, la quale ha dato vita ad un primo insieme di contributi inizialmente raccolti attraverso il web tra aprile e luglio 2015 e la “Scuola estiva”svoltasi a Passignano nel settembre del 2014[1]. Occorre da subito segnalare che, fin dalla sua prima formulazione e dal dibattito che ne è scaturito, la proposta analitica del sindacalismo sociale ha presentato uno statuto alquanto particolare.Nel mentre si mostrava essere un attrezzo piuttosto utile per interpretare i nuovi prototipi organizzativi e rivendicativi che emergevano dalle lotte, mettendone in risalto il loro intimo legame con il cambio di paradigma del capitalismo contemporaneo e dei suoi assetti istituzionali, dall’altra,quello“sindacale”,si rivelava essere uncontenitorefin troppo stretto per rendere conto dell’elemento senz’ombra di dubbio più dirompente di queste stesse esperienze: il fatto che solo a partire da esse noi abbiamo potuto ripensare il “Politico”. Lo statuto aperto e ambivalente del termine “sindacalismo sociale”, con il suo sporgersi senza sosta verso ciò che non gli appartiene, è un tratto che si ritroverà in ognuno dei contributi qui proposti. Più cheun limiteo una debolezza analitica, esso ci pare casomai il segnolampante che alla destabilizzazione degli assetti sociali ed istituzionali resa evidente dalla crisi, corrisponda una destrutturazione non meno radicale delle categorie con cui abbiamo suddiviso – e tenuto a distanza di sicurezza – l’economico, il sociale e il politico[2].Parole apparentemente familiari come “crisi”, “lavoro”, “povertà”, “riforme” non solo ci appaiono oggi trasfigurate dal presente passaggio storico, ma sembrano entrare in risonanza in un modo del tutto inedito.

In questa introduzione – più che limitarci a ripercorrere le argomentazioni degli articoli contenuti nel libro, come la buona prassi solitamente prescrive –punteremodunque l’attenzione su questa trasfigurazione e sugli effetti di queste risonanze, provando a collocare l’ipotesi del sindacalismo sociale in un quadro più ampio a partire da due elementi: il consolidamento temporale e strutturale della crisi e la crescente politicizzazione delle esperienze di conflittualità sociale. Per coloro che volessero essere introdotti al concetto di “sindacalismo sociale” rimandiamoalla lettura dei primi due testi di questa raccolta[3]. Al primo è toccata la difficile sorte di essere stato il contributo di apertura di questo dibattito. Il secondo, invece, mostra con maggiore chiarezza il processo di politicizzazione della società svolto dalle esperienze di “sindacalismo sociale”.

La crisi come modo di regolazione del Capitale

Siamo oramai entrati nell’ottavo anno di crisi, da quando nel luglio 2007 nella borsa di Wall Street la turbolenza dei mercati finanziari si è trasformata apertamente in crisi dei mutuisubprime, per poi trasferirsi all’economia reale.Dopo qualche anno, nel 2009, la crisi si è allargata all’Europa, seppur in modo differenziatonei vari paesi. Attualmente assistiamo ad un ulteriore allargamento ai paesi emergenti (Russia, Corea del Sud ed in modo particolare Cina). Siamo quindi dinanzi ad un duplice processo: la cronicizzazione della crisi va legandosiad una sostanziale mondializzazionedell’instabilità. Apriamo questa introduzione soffermandoci soprattutto sulprimo problema della durata della crisi nello spazio europeo, provando a chiarire alcuni nodi. La prima cosa che osserviamo è che nella dilatazione dei tempi della crisi, va prendendo forma in Europa un modello autoritario di governance capitalistica. La crisi grecae soprattutto la forza politica espressa con il Noal referendum, hanno avuto il merito di illuminare i tratti del comando capitalistico, disvelando la natura della governance europea.

La lunghezza della crisi e gli orizzonti di impoverimento diffuso che si dispiegano in Europa, sembrano interrogarealla radice la stessa nozione di crisi capitalistica. Marx, come noto, torna molto spesso su questo concetto. Lo fa nel Capitale, laddovesistematizza le diverse spiegazioni sull’origine della crisi (come sproporzione). E lo fa evitando di rappresentare questo fenomeno come una “patologia”ricorrente della razionalità capitalistica, la quale potrebbe essere evitatagrazie ad una politica economica di riforma. Marx appare piuttosto interessato a riconoscere nella crisi un elemento di forza e di dinamicità del comando capitalistico. Sembra intravedere in questa fase dello sviluppo, il momento in cui si ricongiungono due condizioni di diversa natura: la ciclicità della crisi e l’“eccezionalità” politica della congiuntura. E’ in questo momento, quindi, che ricorrendo ad una prassi talvolta violenta, i poteri economici e statuali ricostruiscono il proprio comando, ristabilendo(e rinnovando)la logica internadella riproduzione economica e sociale. Quello che ci interessa momentaneamente isolare dalla sua nozione di crisi, è la specifica connotazione temporale. Nella congiuntura della crisi si contrappongono sostanzialmente due momenti: quello della contrazione o del disciplinamento della forza-lavoro, e quello della ripresa, in cui prevale politicamente la dimensione della riforma della struttura economica. La crisi come congiuntura, che si frappone tra due fasi espansive, caratterizzate da un differente modello di accumulazione capitalistica, è anche la definizione impiegata dagli studiosi dei cicli lunghi, come Giovanni Arrighi ne Il lungo XX secolo.Sul piano storico, questa doppia temporalità della crisi – contrazione-disciplinamento della forza-lavoro/ripresa-riforma – è stata a lungo prevalente. Così lo è stato, per esempio, nella crisi tra giugno 1856 e dicembre 1858, documentata dallo stesso Marx sul «New York Daily Tribune»[4]. Oppure, nella più recente crisi del 1929 negli Stati Uniti, spesso utilizzata come riferimento storico per l’interpretazione dell’attuale fase.Su cui, tuttavia, ancora pochi hanno recentemente puntato il dito sul rapporto tra la cosiddetta svolta roosveltiana e le lotte operaie americane. Conviene tornare brevemente su quella straordinaria storia del movimento operaio. Non certamente per farne un’apologia, ma al contrario per indagare l’impossibilità di una sua riproducibilità nel contesto attuale. Nel “Poscritto” di Operai e Capitale, Tronti, rende conto di questa storia nel paragrafo intitolato Le lotte di classe in America. Dapprima spiega che in soli due casi, sul piano storico, il conflitto del lavoro non avanza richieste, e non si presenta in posizione di attacco: «quando [i lavoratori Ndr] ottengono senza chiedere e quando sanno di non poter ottenere»[5]. Giustificando in questo modo l’assenza di lotte negli anni della crisi del ’29. Successivamente mostra come con l’approssimarsi della svolta riformista del New Deal, al contrario, si riaccese in modo straordinario la conflittualità operaia. Roosevelt nel National Industrial RecoveryAct concede diversi risultati al movimento operaio. Lo fa, come ricorda Tronti, innanzitutto allo scopo di dirimere e ammorbidire i conflitti del lavoro, e data la forza della classe operaia americana in quegli anni, il riformista «non trovò di meglio che far vincere gli operai»[6].L’intenzione di Roosevelt era quindi una sola, anche quando è stato costretto a più riprese ad accettare alcune rivendicazioni operaie: quella di ammodernare il sistema capitalistico americano, contrapponendo la sua visione riformista a quella dell’espressioni più retrive del liberismo reazionario, ormai insostenibili anche per una certa borghesia. Come scrive ancora Tronti: «Roosevelt e le sue teste d’uovo in parte seguivano preoccupati, in parte utilizzavano il movimento nella loro battaglia interna al capitale»[7]. E’ in questi termini quindi, che può essere concettualizzato il rapporto tra le lotte sociali e lo sviluppo economico in quella fase. Quello che questa storia ci consegna brevemente è un aspetto rilevante della temporalità della crisi da cui siamo partiti. L’uscita dalla crisi è certamente sempre anticipata dalle lotte sociali. Ma il processo di soggettivazione sociale in parte alimenta ed in parte si innesta (sfruttando la contingenza), in un cambiamento dall’alto delle soggettività politiche, che pur interpretando la fase in chiave riformistica, rendono possibile, loro malgrado, una fase espansiva per le lotte e per i risultati politici che esse producono.

Tornando alla fase attuale della crisi, l’impressione che si ha, diversamente dalla storia che abbiamo ricordato, è che si sia spezzata quella linearità che lega la ristrutturazione capitalistica ad una nuova fase di espansione e soprattutto al miglioramento delle condizioni riproduttive.Quella relazione economico-sociale che abbiamo definito nei termini di “contrazione-disciplinamento della forza-lavoro/ripresa-riforma”, è entrata in crisi. E’ significativo che da alcuni economisti del mainstream marginalista, anche negli ambienti da cui più direttamente sono provenutele ricette di politica economica centrate sulla austerità di bilancio e la liberalizzazione dei fattori nel mercato del lavoro, nasca la preoccupazione sul futuro dello sviluppo capitalistico. Lawrence Summers alla conferenza annuale del Fmi nel 2013 suggeriscel’ipotesi che l’economia statunitense in modo particolare, si stia avviando lungo un sentiero di “stagnazione secolare”, aggiungendo che questa potrebbe essere la «questione [principale] del nostro tempo»[8]. Secondo questa ipotesi, a cui è seguito un dibattito articolato tra gli economisti marginalisti, le economie dei Paesi avanzati si starebbero avviando lungo un sentiero di bassa crescita potenziale, dove la scarsa produttività del capitale, la rigidità delle politiche di bilancio, l’orizzonte deflattivo, la grandezza dei debiti (pubblici e privati), neutralizzerebbero, a loro dire, gli effetti potenzialmente positivi generati dall’innovazione tecnologica, dall’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro, dalla privatizzazione e liberalizzazione di alcuni ambiti del Welfare State e dalle politiche monetarie espansive delle principali banche centrali (Fed, Banca d’Inghilterra, Banca del Giappone, Bce). Quello che questi economisti, insieme a tutti gli altri servitori del re non diranno mai e non potranno mai vedere, nell’ottusità ideologica dei loro modelli basati sull’“individualismo metodologico”, è che alla base dell’ipotesi, questa si realistica, della “stagnazione secolare” opera una radicale trasformazione del rapporto sociale capitalistico, maturata lungo il ciclo neoliberale. Christian Marazzi è tornato recentemente più volte su questo argomento. Al centro della sua analisi la crisi della relazione salariale, espressa nei termini della contrazione del monte salari e la de-salarizzazione di moltissime attività produttive di valore per il capitale – a cui si aggiunge, ancora più recentemente, l’esplosione del cosiddetto free work, indagato in Italia a partire da un primo lavoro sul tema dell’”economia politica della promessa”[9]. La rottura degli spazi di mediazione salariale, la precarizzazione intensiva del lavoro, la cattura e la trasformazione in chiave manageriale delle organizzazioni sindacali tradizionali[10], insieme all’intensificazione dei dispositivi economico-politici di captazione del valore secondo una logica estrattiva, ha fatto si che il capitale «si è privato della possibilità stessa non tanto di creare liquidità, ma di integrarla nel circuito economico. Il denaro viene creato per monetizzare i salari; nel momento in cui i salari non ci sono più nella forma della contrattazione e dell’ubicazione della classe operaia, si aprono le porte a una integrazione della liquidità che va da tutte le parti, che crea rendite e reddito non nella forma di leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, molto concentrata nelle classi alte […]»[11]. L’aumento della disoccupazione, l’esplosione delle disuguaglianze insieme a quello del fenomeno dei workingpoor, non solo ha aperto la strada ad una cronica crisi sul versante della domanda effettiva. Ma la “distruzione” della forza politica del lavoro, che si esprimeva prevalentemente attraverso la rivendicazione salariale, ha neutralizzato quella pressione conflittuale da cui sono originati “i salti” delle grandi innovazioni tecnologiche. A questo si aggiunge che l’attacco ai regimi di sussistenza minimi della forza lavoro si impone oggi con ancora più enorme violenza, dopo che a partire dagli anni Settanta (in modo diverso nelle geografia dei Paesi avanzati) la sostituzione dei bassi salari con l’indebitamento di massa e con la privatizzazione della domanda effettiva per consumi è entrata in crisi o risulta, almenoper adesso, in una fase di stallo. Sia ben chiaro però: la privazione nichilista da parte del capitale, della relazione sociale conflittuale, non ci porta a convergere verso nessuna tesi economicistica del “crollismo” del capitale. Lo abbiamo capito da tempo: il capitale in quanto relazione sociale resta in grado di riprodursi, anche deprimendo violentemente i regimi di sussistenza – che restano vincoli storicamente determinati e non una soglia naturale al di sotto della quale il salario non può scendere. Ciò che rende possibile questa riproduzione «a mezzo di povertà» del sistema capitalistico, è l’intensificazione dei dispositivi autoritari di comando politico e l’accelerazione dei processi di accumulazione originaria in ambiti ancora non pienamente sperimentati.

Il frutto avvelenato della stabilizzazione finanziaria in Europa

Le lotte sociali in Grecia e gli esperimenti istituzionali che ne sono conseguiti (nascita di contropoteri diffusi, istituzioni mutualistiche e governo Tsipras)hanno di fatto alimentato questa torsione autoritaria, che si presenta sulla scena come “pura contro-reazione politica” all’avanzamento di questo esperimento contagioso sul piano europeo. Se si tengono gli occhi puntati su questa vicenda sembra di essere dinanzi ad una riscritturain sensonegativo del nesso operaista tra lotte sociali e sviluppo capitalistico. Bisogna pur farne i conti con questa difficile e poco conveniente evidenza. In una intervista rilasciata da Varoufakis[12], quando ormai aveva già abbandonato la sua postazione di ministro dell’economia greca, l’economista sostiene che le istituzioni europee hanno operato, sin dall’inizio della crisi, con lo scopo principale di stabilizzare e mettere in sicurezza il sistema finanziario internazionale (banche private e altri operatori finanziari). Questo risultato è stato solo momentaneamente e parzialmente raggiunto a scapito, però, dell’apertura di una nuova fase di instabilità politica dentro la zona euro, come conseguenza di una accelerazione del processo di ri-nazionalizzazione dello spazio europeo che covava sotto la cenere da lungo tempo, e nel contempo, approfondendo i disastri umanitari e l’involuzione democratica prodotti dalla crisi e dalle ricette di politica economica.

Per analizzare i processi di ri-nazionalizzazione dello spazio europeo, è per diversi motivi utile volgere lo sguardo alle scelte operate dalla Bce. Spesso la politica monetaria “non convenzionale” del governatore della Bce, Mario Draghi, è stata presentata come un’opzione di politica economica che ha avuto l’effetto di stabilizzare la zona-euro, spostando in avanti il problema della sua possibile deflagrazione in un contesto segnato dall’austerità di bilancio. E di fatto è stato così a partire dal 2012, da quando alla Global Investment Conferencedi Londra il governatore dichiarò che avrebbe fatto tutto il possibile per salvare la moneta unica, trasformando di fatto, contro gli stessi trattati, la Bce in un (quasi) prestatore di ultima istanza. Che però questa interpretazione, da sola, sia insufficiente, lo chiariscono più di una circostanza. La più recente riguarda ilvero e proprio “terrore finanziario”, avallato dalle stesse decisioni di Draghi nella fase del referendum greco, di ridurre la liquidità al sistema delle banche nazionali, aumentando di fatto la ricattabilità del loro governo. Ancora più a fondo, è utile osservare che i dispositivi istituzionali nati dal 2010 per stabilizzare il quadro finanziario europeo, hanno favorito quel processo di ri-nazionalizzazione del potere monetario. Se ci soffermiamo solo alla Grecia (e il discorso potrebbe essere esteso per la gran parte dei paesi europei), ciò che si vede dall’ingresso nell’euro fino al fallimento della Lehman Brothers, è stata una sostanziale “europeizzazione” dell’esposizione dei debitori. Sia per lo Stato sia per il sistema bancario greco. A fine 2010 i principali nove sistemi bancari mondiali (Usa, Uk, Francia, Germania, Italia, Svizzera, Belgio, Giappone e Spagna) erano esposti nei confronti del Tesoro e delle banche private greche per quasi 120 miliardi di euro. Nel corso dell’anno successivo (2011) si è registrata una riduzione dell’investimento privato dall’estero (l’esposizione passa a 80 miliardi di euro), dovuta principalmente alla vendita sul mercato secondario dei treasury bond greci, in conseguenza dell’ingresso della Grecia nei diversi programmi di aiuto. I dispositivi istituzionali di “salvaguardia” – i prestiti bilaterali prima e l’EFSF dopo – hanno determinato uno trasposizione del rischio dagli investitori istituzionali internazionali (banche e altri operatori finanziari) ai governi (e alle banche centrali nazionali) dell’Eurozona. Grazie all’austerity, ciò a cui si è assistito,a fronte dell’aumento continuo della massa dei debiti (pubblici e privati), è stato una ristrutturazione della composizione dei creditori e una relativa ri-nazionalizzazione delle relazioni di credito[13]. Che significa, di fatto, in termini politici, l’emergere di una verticalizzazionee di una concentrazione del comando dei creditori sui debitori nel contesto globale della finanza. Questa tendenza è stata poi amplificata con la più recente politica di quantitative easing(QE) inauguratadalla Bcead inizio 2015, uniformando la sua politica monetaria a quella condotta in momenti diversi dalla Fed, dalla Banca del Giappone e dalla Banca d’Inghilterra.Il QE sta contribuendo a svuotare il portafoglio delle banche europee dei titoli pubblici in eccesso, aumentati enormemente proprio nella prima fase della crisi, segnata dalla speculazione sui debiti sovrani. Un processo di disinvestimento operato dalle banche, che di fatto anticipa la possibile decisione di aumento dei tassi di interesse della Bce che prima o poi arriverà. E quando questa giungerà, l’effetto sarà quello di una riduzione del valore nominale dei titoli e la comparsa di grandi perdite nel conto capitale delle banche.  Inoltre, il QE non si presenta solo nella doppia veste di difesa dei mercati finanziari e di supporto alla ristrutturazione verticale della governance. L’iniezione di enormi quantità di liquidità nel circuito monetario in un contesto segnato da politiche fiscali restrittive, produce anche l’effetto di alimentare una ulteriore redistribuzione del reddito e della ricchezza a favore dei rentierscontro i salariati. Le nuove bolle speculative che si formano nel mercato finanziario creano una moneta endogena che non percola nei circuiti dell’economia reale, alimentando il processo di stagnazione in un contesto in cui i debiti privati sono alti e la domanda effettiva non ha la forza di trainare l’economia.  Questa è solo una parziale descrizione (e di certo non esaustiva) del contesto dentro cui si è prodotta la verticalizzazione tedesca della governance, ma che ci può aiutare a comprendere un altro corno dello stesso problema monetario. Di fatto l’euro, sin dalla sua origine, nasce come primo esperimento di “moneta privata” senza Stato, che risolve il suo problema del rapporto con la sovranità ricorrendo alla sovranità mobile del potere dei mercati finanziari. Dopo il No al referendum greco, l’euro cessa di essere una moneta “senza politica”, per divenire di fatto una moneta tedesca, ridefinendo per questa via il suo tradizionale rapporto con la sovranità.

In fin dei conti la torsione autoritaria della governance sarà probabilmente destinata nel futuro a segnare il tratto prevalente del management europeo. Ciò non esclude, però, che questa dimensione del governo possa convivere con condotte talvolta più distese, meno aggressive, soprattutto sul piano della retorica politica del comando, come nel caso delle politiche che sono state fatte rientrare sotto l’etichetta dell’austerità flessibile. Tra cui: lepolitiche di parziale redistribuzione in chiave “equitativa”, oppure il presunto allargamento della rete di protezione del welfare, ma che si compie allo scopo di amplificare i dispositivi di “attivizzazione” e di produzione dell’ uomo-impresa neoliberale.

Dinanzi a questa verticalizzazione della governance, come sempre, non c’è altra strada che continuare a lottare, amplificare le azioni di conflitto, mantenendo saldo il contesto europeo dello scontro. Si tratta di continuare a farlo, nella consapevolezza che le lotte, pur nella loro radicalità, non possono svolgere solo la funzione destruens del potere. Si tratta di tornare a capire come “costruire potere nella crisi” e come farlo dopo l’esito della vicenda greca e del tentativo di Syriza, senza cadere risucchiati nel vortice di un neo-sovranismo di ritorno.

La povertà come crisi latente della cooperazione sociale

Abbiamo visto quanto la temporalità con cui si è presentata la crisi, in particolare in Europa, faccia venire meno quell’immagine tradizionale – e consolidata – nella teoria, secondo la quale essa sarebbe nulla più che un intermezzo, benché doloroso, tra fasi e cicli economici separati e distinti. Se questa, invece, finisce per presentarsi essa stessa come un “modo di regolazione”sui generis, occorre rivolgere da subito lo sguardo su quelle sorprendenti mutazioni che hanno riguardato la composizione sociale. Da questa angolazione, appare chiaro quanto gli shock prodotti dal repentino peggioramento delle condizioni economiche, uniti alla violenza delle misure di austerità messe in opera dai governi, abbiano dismesso i panni dell’emergenzialità e si presentino oggi sotto i nostri occhi come l’edificazione di un nuovo ordine.

In altre parole, quello che all’inizio della crisi è stato interpretato come un generale processo di attacco e dissoluzione dei diritti acquisiti e di declassamento sociale, può oggi essere osservato sotto lenti differenti. La continua destabilizzazione delle garanzie legate alla posizione occupazione e delle residue basi universalistiche nell’erogazione dei servizi del Welfare State, hanno prodotto la piena istituzionalizzazione del sottoimpiego come cifra unificante del mercato del lavoro.

Ad un primo sguardo, ad essere lampante è indubbiamente l’eccezionale aumento di tutti gli indicatori che misurano la povertà.Con una maggiore profondità è possibile tuttavia notare come ad esso corrisponda il consolidamento di una nuova matrice della diseguaglianza che sembra alludere ad un’inedita articolazione delle dinamiche dello sfruttamento e della captazione del valore sociale.

Proponiamo in questo senso di prendere il “ritorno della povertà” in Europa come un prisma attraverso cui leggere i mutamenti della composizione sociale:la ridefinizione della “forma” della povertà è alla base della svolta dello stesso progetto neoliberale e da essa conviene prendere le mosse per ripensare l’intricato rapporto tra le esperienze del “sindacalismo sociale” e l’elaborazione di una “governamentalità del comune”.

Com’è noto, a partire dagli anni Ottanta il ritorno del fenomeno della povertàin Europa è passato attraverso la nozione di “esclusione sociale”. L’identificazione della povertà con l’esclusione ha per un certo verso reso visibile il sopravanzare di dinamiche di impoverimento in società che avevano ritenuto oramai completamente superato il problema dell’indigenza. Per un altro verso, questa identificazione si è presentata come la base attraverso cui si è presentata come legittima una radicale modificazione degli assetti del Welfare State fordista e keynesiano nella direzione di un nuovo paradigma che puntava, attraverso l’obiettivo dell’inclusione sociale, ad una riduzione dei criteri universalistici di erogazione dei servizi e dei sussidi sociali e alla costituzione di un secondo mercato del lavoro precarizzato e sotto-remunerato.Dietro il concetto di esclusione sociale veniva presentata da studiosi e giornalisti una nuova forma di emarginazione, definita da un insieme di comportamenti devianti e antisociali, che tendono a riprodursi fino a sviluppare una forma specifica di sotto-cultura che allontana gli individui dalla prestazione lavorativa spingendoli ad instaurare un rapporto di dipendenza con le strutture assistenziali del Welfare State. Gli esclusi sono individui non solo distanti dal mercato del lavoro, ma definiti come soggetti mancanti, senza qualità soggettive ed incapaci di rendere possibile qualsiasi forma di cooperazione positiva ed orientata politicamente. Sono, in altri termini, “underclass”: al di sotto della possibilità stessa di agire come soggettività. Essi sono, in ultima istanza, capaci solo di articolare un gesto di rifiuto.

Nel mentre si affermava l’imperativo della demolizione del welfare universale e la necessità di una politica di bilancio tendenzialmente restrittiva, prendeva corpo una vera e propria ideologia a favore del welfare categoriale rivolto esclusivamente ai poveri. Nella letteratura economica e in quella sociologica si è assistito ad una forte crescita di lavori a favore della targetizzione del welfare. La conseguenza è stata che nel campo della politica fiscale e del welfare, dal principio teorico dell’uguaglianza si è passati a quello dell’equità (assunto uniformemente tanto nell’interpretazione più reazionarie del neoliberismo quanto nella base teoria della Terza via per influsso dei lavori di Rawls), che presuppone una ridotta redistribuzione a favore dei poveri, di fatto senza modificare la struttura distributiva e di potere nella società. Ma se da un lato la redistribuzione aveva lo scopo dichiarato di assicurare gli standard living per i poveri, la coppia “esclusione-inclusione” veniva usata come nuova leva per l’accumulazione originaria: a partire dalle dinamiche di distruzione delle condizioni di sostentamento tipiche della “società salariale” odal rischio di cadere in uno stato di indigenza, sulla frontiera tra il “fuori” e il “dentro”, si installava un dispositivo di governo della forza lavoro che solo oggi possiamo osservare in tutta la sua estensione.

Nonostante il concetto di “esclusione sociale” abbia oggi perso molta della sua credibilità, la sua logica tende a riprodursi nella definizione dei soggetti da “trattare” amministrativamente, misurati in funzione della loro “distanza” e “incompatibilità” con il mercato del lavoro[14]. Noi proponiamo di vedere al di sotto della straordinaria espansione della povertà in Europa e del ritorno di attenzione di questo fenomeno nella ridefinizione dei dispositivi di governo neoliberali, una metamorfosi della sua forma sociale e l’indicatore più evidente di una doppia tensione interna alla nuova natura degli assetti capitalistici.

L’espansione della povertà è, innanzitutto, l’indicatore più evidente di una “crisi di misura” del lavoro. Ciò che le retoriche dei governi europei tentano di esorcizzare attraverso il discorso sull’esclusione sociale e la passività dei soggetti da reintegrare, è che la produzione di povertà è oggi sempre più dissociata da qualsiasi base oggettiva. Questa dissociazione possiamo individuarla almeno a partire da due elementi principali. Contrariamente a quanto sostenuto fino ad ora dalle più accreditate teorie mainstream, la diseguaglianza salariale sta smettendo progressivamente di essere agganciata al possesso e alla qualità del “capitale umano”. Se si confrontano negli anni le ricerche sull’impatto della variabile formativa e delle qualità cognitive del lavoro nel determinare le diseguaglianze economiche, si può vedere con chiarezza quanto queste perdano sempre più di valore e consistenza. Gli effetti di questo fatto empirico, hanno conseguenze eccezionali sulla definizione della forma sociale della povertà. Quello che inizialmente abbiamo letto come un processo di declassamento che interessava in primo luogo il cosiddetto ceto medio (laddovestoricamente, il ceto medio si è definito come la parte maggiormente intellettualizzata della forza lavoro), oggi, in una fase di accumulazione e stratificazione degli effetti della crisi, non possiamo che interpretarlo come l’emergere di una nuova composizione sociale del lavoro. Utilizzando un’espressione proposta anni fa dal sociologo LucBoltanski[15], definiamo questa soggettività come una “plebe intellettuale”. Accanto ad una popolazione sempre più esposta alle dinamiche di segmentazione dell’accesso dai circuiti educativi – quando non ad una vera e propria espulsione – si presenta dunque una soggettività che manifesta al massimo livello la mancata corrispondenza tra lo stato di intellettualizzazione della forza lavoro e il suo riconoscimento in termini economici e sociali. Nella fase inziale della crisi questa soggettività, che ha assunto un ruolo chiave nelle mobilitazioni contro l’austerity, era stata costretta nella definizione di “ceto medio impoverito”: su di essa, in altri termini, ci si limitava a misurare la perdita di uno status acquisito. La temporalità della crisi ci consegna oggi un’immagine affatto differente: la “plebe intellettuale” si presenta ora come la dissoluzione di ogni principio di status e di misura associato a quella definizione estesa di forza lavoro (cognitiva, relazionale, affettiva) che avevamo visto formarsi all’interno del capitalismo cognitivo. Occorrerebbe vedere, nelle crescenti migrazioni interne alla Comunità Europea, le traiettorie mobili di questa plebe, nell’organizzazione metropolitana, il suo fondamentale apporto nell’organizzazione delle trame della cooperazione sociale, nelle interazioni della rete, la sua capacità di produrre “senso comune”.

In secondo luogo, la “crisi di misura” del lavoro non riguarda solo la matrice delle diseguaglianze. Essa è anche l’effetto della rottura del patto salariale. Più che la crisi della forma-salario come canale privilegiato per accedere alla cittadinanza sociale –già introdotta con i processi di precarizzazione del lavoro –qui è in discussione lo sfondamento stesso del principio di “sussistenza” contenuto nella stessa definizione di salario, secondo la tradizione dell’economia classica e della critica di Marx. Il fatto inedito, è il venire meno dell’idea che vi debba essere un limite invalicabile nella fissazione della remunerazione del lavoro, ovvero la garanzia minima alla riproduzione sociale. Questo processo, già da tempo visibile con l’estensione dei workingpoor, è oggi ben rappresentato dalla diffusione delle forme del free job del lavoro gratuito e volontario. Nello scarto tra le vecchie politiche per il lavoro e le nuove politiche per l’attivazione, si misura dunque il definitivo superamento della società dell’impiego e la consapevolezza, già prima segnalata, di un consolidamento sul lungo periodo della crisi. Più che l’impiego, l’oggetto delle iniziative di workfare è dunque la mobilitazione dei soggetti in quanto tale, il loro inserimento forzato nella trama del controllo amministrativo, il loro auto-movimento come esito di una prescrizione normativa. La stessa crisi di misura può inoltre esser osservata su un altro versante: la generalizzazione del paradigma dell’attivazione sta conducendo ad un’incredibile proliferazione di “lavori inutili” e altamente improduttivi. Questi mostrano quanto la costrizione monetaria al lavoro, esacerbata dalla crescente miseria delle condizioni materiali, ribadisca del lavoro la sua “misura” meramente politica, quella cioè della sottomissione dell’attività libera. Oggetto del governo della forza lavoro è dunque la “pura attività” sganciata da qualsiasi riferimento certo alla remunerazione (laddove quest’ultima diviene elemento congiunturale, aleatorio e infinitamente procrastinato) e al proprio contenuto.

Le stesse teorie del capitalismo cognitivo avevano inizialmente messo in luce la “crisi di misura” del lavoro, puntando l’attenzione sul mancato riconoscimento monetario di quella parte di attività che avveniva al di fuori dell’impiego lavorativo formalizzato e di quella parte di sapere accumulato non immediatamente mobilitato nella prestazione lavorativa. La forma sociale della povertà che qui stiamo trattando, supera e radicalizza queste premesse facendo saltare in aria la stessa logica con la quale il neoliberalismo aveva definito la legittimazione sociale delle diseguaglianze. La “crisi di misura”, a questo livello di intensità ed estensione, finisce dunque per essere lo specchio di una tensione crescente tra una povertà che rileva unicamente il grado di sottomissione della vita alla logica del capitale e la necessità di costituire nuove misure comuni, in grado di consolidare la ricchezza prodotta collettivamente.

Al di sotto della nuova forma sociale della povertà, assieme alla “crisi di misura” del lavoro, è possibile vedere una seconda – e strettamente collegata – tensione. SaskiaSassen coglie un punto essenziale quando ci mostra che le nuove forme della povertà globale – effetto della logica estrattiva del capitale finanziario – comportino, per una parte consistente della popolazione, una radicale svalutazione dell’esistenza umana[16]. Che dunque il capitale sembra essere portato, sempre più, a disinteressarsi della vita dei soggetti. Una volta svuotata la relazione salariale ed esaurita la leva dell’indebitamento privato, la questionedella sussistenza, come abbiamo già visto, ritorna a presentarsi in tutta la sua drammaticità. Il problema, tuttavia, è che la violenza di questa logica, invece che risolversi in una sterminata “terra di nessuno” abitata da coloro che sono stati espulsi dai circuiti produttivi, determina una tensione irrisolvibile all’interno della stessa forma economica dominante. La crisi della riproduzione sociale è anche, al tempo stesso, collasso della cooperazione sociale. In un sistema economico imperniato sulla centralità dei servizi collettivi e sulle produzioni “dell’uomo per l’uomo”[17], l’avvitamento della crisi non finisce solo per comprimere cronicamente la domanda effettiva, ma finisce per minare le basi sociali su cui si innestano i processi stessi di accumulazione e creazione del valore. L’attacco alle forme di vita è un attacco alle stesse condizioni collettive della produzione. L’inedita brutalità delle dinamiche di impoverimento e gli effetti di stagnazione duratura che ne derivano, ci sembrano in altre parole essere l’espressone di questa doppia tensione, oggi determinante non solo per comprendere la destabilizzazione dei sistemi capitalistici globali ma per interpretare la “posta in palio” delle esperienze di resistenza e conflitto oggetto del presente volume.

Il sindacalismo sociale e il laboratorio delle rotture istituzionali

La mutazione della temporalità della crisi e la metamorfosi delle forme della povertà, ci pare che definiscanoper l’essenziale il quadro all’interno del quale le esperienze di movimento e conflittualità sociale si sono mosse negli ultimi anni. Quelle che in questo libro sono nominate come forme di sindacalismo sociale, possono esser lette come esperienze di lotta che insistono precisamente sulla crisi delle forme della riproduzione sociale innescata dallo smantellamento delle istituzioni del Welfare State e dalla destrutturazione della relazione salariale. Ma non solo: queste forme di lotta introiettano anche lo sfaldamento dei canali attraverso cui il conflitto e la negoziazione sociale avevano – parzialmente ma al contempo potentemente – trovato in passato traduzione negli assetti politici ed istituzionali. In altri termini, lo sviluppo di queste esperienze s’inserisce a pieno titolo in quella crisi della sovranità statuale già da lungo tempo teorizzata, ma che solo in questi ultimi anni ha mostrato tutta la sua consistenza ed irreversibilità. Se come il vecchio adagio operaista ci insegna sono le lotte a disvelare le forme sempre nuove del dominio, allora è possibile affermare che è solo a partire dalla straordinaria diffusione dei conflitti socialiche abbiamo visto accumularsi nella crisi, dalle esperienze dei movimenti moltitudinari e dai blocchi che essi hanno incontrato sul loro percorso, che la necessità di ridefinire il problema del “politico” e del “governo” si è presentata in tutta la sua urgenza.

Non è dunque per nulla un caso, se il cantiere di ricerca teorica e pratica dedicato alla proposta del sindacalismo sociale si sia sviluppato comprendendo sempre più le problematiche poste dalle cosiddette “rotture istituzionali”. Con questa espressione non abbiamo inteso semplicemente registrare l’importanza delle esperienze politiche sorte in particolare in Spagna e Grecia, quanto casomai interrogare queste stesse esperienze come l’indicatore di una questione assai più ampia e ancora completamente aperta, e però al contempo posta in modo essenziale proprio dalla forza e diffusione di quella reinvenzione delle forme del conflitto sociale che costituisce il filo conduttore del presente libro. Questione ancora completamente aperta, abbiamo detto, perché seppure riscontriamo come fondamentale il costitutivo rapporto che lega le esperienze del sindacalismo sociale con la necessità di determinare delle rotture istituzionali, disinnescando una volta per tutte quell’idiota pregiudizio con il quale i movimenti sociali hanno per lungo tempo evitato di trattare il problema del governo e del potere, tale rapporto non ci consegna ancora alcuna chiave di volta per accedere ad una visione chiara circa il ribaltamento degli attuali rapporti di forza.

Costruire potere nella crisi

L’orizzonte strategico della moltiplicazione delle rotture istituzionali sullo spazio europeo, in fin dei conti, ripropone in maniera rinnovata il problema classico dell’ “uso politico” delle riforme da parte dei movimenti di lotta. Più in particolare dell’uso delle riforme e del rapporto con la pratica trasformatrice segnata dalle invenzioni istituzionali. Altrove, riafferrando fra le mani la storia della Grande depressione, abbiamo già avanzato l’ipotesi dell’irriproducibilità di quella relazione lineare tra lotte sociali e riforma, così come essa si è data in quella fase storica. Qui si tratta di limitarsi a puntare il ditosu questo tema di ricerca, allo scopo di fare avanzare qualche interrogativo, tenendo conto che questo discorso può essere riproposto con qualche cautela su diverse scale: tanto quella nazionale, quanto quella municipale (come la più recente esperienza municipalista di Barcellona sembra indicare).

Le ultime vicende greche ci hanno mostrato più di un elemento. Le lotte sociali di questo Paese hanno reso possibile la riaffermazione di un discorso di carattere riformistico (almeno fino all’accettazione del memorandum post-referendum), i cui tratti salienti, sul piano della politica economica, sono stati i seguenti: taglio e rinegoziazione dei tempi del rimborso del debito pubblico; ripresa di una politica fiscale espansiva contro l’austerity, compresa la rottura del dogma del pareggio di bilancio e dell’impossibilità di compiere programmi di spesa pubblica in deficit;  progettazione di prototipi di banche pubbliche (anche di entità sovranazionale) a cui affidare (per una parte) il  compito del sostegno della domanda effettiva e delle politiche di sviluppo; critica all’indipendenza della banca centrale europea dal Tesoro dei paesi UE, a partire dalla considerazione di superare l’euro come “moneta privata”.

La storia, come noto, è andata diversamente. L’asimmetria dei rapporti di forza all’interno dello spazio europeo, com’era forse prevedibile, in assenza di un sistema di contropoteri maggiormente efficace, ha prodotto per la Grecia l’esito che conosciamo. Ma il punto su cui, adesso, vale la pena concentrarsi, riguarda il fatto che la vicenda greca ha di fatto mostrato l’esistenza (e la possibilità) di una separazione tra la dimensione del “governo” (nazionale) e quella del “potere”. Due ambiti che non si identificano più in maniera netta, come in passato. E non si tratta (solo) di una questione legata alle piccole dimensioni dell’economiagreca. Ce lo spiegano molto bene Gago e Mezzadra nel testo che ospitiamo in questo libro, riferendosi alle esperienze dei governi latinoamericani, che certamente non hanno il medesimo “problema di scala” che ha la Grecia in Europa. Riconoscere la separazione, o l’allentamento della tensione tra governo e potere, significa ancora una volta porsi il problema politico della costruzione del potere oltre la dimensione del governo. «Parliamo di questione del potere sottolineando che essa al tempo stesso interseca ed eccede il problema del “governo”». I due autori poi aggiungono: «Un governo “progressista” può certo contribuire a spostare in avanti i termini dello scontro sociale e politico, può assicurare specifiche conquiste e aprire nuovi spazi per la lotta di classe. Di per sé, tuttavia, occorre realisticamente riconoscere che un governo (un governo “nazionale”) non ha il potere sufficiente neppure per regolare in modo efficace e duraturo un capitalismo che si è riorganizzato attorno alla centralità della finanza e della rendita, privilegiando operazioni che in un nostro precedente articolo abbiamo definito come estrattive». Porsi il dilemma della “costruzione del potere nella crisi” significa riconoscere nel contempo, il ruolo positivo che i governi nazionali possono svolgere in Europa e i loro limiti strutturali, a partire dalla necessità di assumere una “duplice apertura”, come ancora una volta suggeriscono i due autori. “Verso il basso”, consolidando il potere costituente che le nuove istituzioni del Comune rivendicano: le esperienze di mutualismo, quelle autogestionarie, quelle che riguardano l’autogoverno della produzione (come l’esempio delle fabbriche recuperate trattato da Azellini e Castronovo) o quelle che si determinano sul terreno delle cosiddette “economie popolari”, facendo leva su forme di cooperazione sociale e scambi non di mercato. “Verso l’alto”, riconoscendo la necessità di uno scontro all’interno dello spazio europeo, nelle istituzioni della governance e nello specifico delle istituzioni monetarie.

Intermezzo #1: la rottura istituzionale e la costruzione dei contropoteri diffusi

Ricostruire una relazione espansiva “verso il basso” tra lotte sociali, riforme economiche e pratiche costituenti di invenzione mutualistica, significa porsi il problema della rottura istituzionale e della pretesa di “unitarietà” del comando dello Stato (già evidentemente compromessa dal lungo passaggio allo Stato neoliberale). Le lotte per l’autogestione di interi comparti di welfare in Grecia, come nel caso degli ambulatori sanitari o delle scuole popolari, solo per fare un esempio, insieme alle lotte spagnole per il diritto al “degno abitare” organizzate dalla PAH (si veda in questo libro l’intervento di Cedillo eTenhunen), costituiscono la più chiara manifestazione di una rivendicazione radicale di potere sul terreno dell’organizzazione della riproduzione sociale. Inoltre, come mostrano Raparelli e Sica nel loro contributo, nella composizione sociale di queste soggettività è possibile riscontrare un fatto di enorme rilievo: ossia, che non c’è alcuna presunta distinzione tra chi rivendica più potere nella produzione – attraverso le rivendicazioni salariali o dei diritti sociali – e coloro che rivendicano complessivamente potere sulla propria vita. Lo abbiamo detto più volte e conviene ribadirlo: si tratta di un tratto distintivo del sindacalismo sociale. Come sostiene Adalgiso Amendola nel testo proposto per questo libro «costruire potere è qui un processo di intensificazione progressiva della politicizzazione delle vite attraverso la costruzione di nodi di autodifesa e di attacco della cooperazione sociale produttiva».La centralità che in Italia ha assunto la reinvenzione delle forme dello sciopero allude precisamente alla ricostruzione di rapporti di forza dentro e fuori il luogo di lavoro (come messo in evidenza nei contributi di Toni Negri e Marco Assennato in questo libro). Va poi segnalato che la contrazione dei regimi salariali (salario diretto) registrata nel lungo periodo (almeno dagli anni Settanta) e più recentemente le politiche di austerità con i tagli alle istituzioni del Welfare State (salario indiretto), pur nei violenti drammi sociali che esse hanno prodotto, hanno fatto emergere con maggiora forza questo nuovo terreno della contesa del potere. In cui, nel contesto di un peggioramento delle condizioni riproduttive, le classi subalterne iniziano a rivendicare il diritto ad autogestire alcuni ambiti della propria riproduzione sociale. Si tratta di esperienze che nel rispondere concretamente ai bisogni riproduttivi fondamentali lasciati inespressi, o violentemente minacciati dal potere finanziario (o più in generale dalla razionalità dominante del mercato), ricostruiscono una nuova etica delle relazioni solidali. Fondata sulla cura reciproca (fuori e oltre la famiglia), sull’amore (self-love) e sulla responsabilità del sé, sulla cooperazione sociale non di mercato. A chi ancora non vuol capire: in questa contesa è in ballo indirettamente uno scontro sull’invenzione delle “forme di vita”. Alla soggettività neoliberale dell’uomo-impresa, queste molteplici esperienze di lotta,sembrano voler contrapporrela costruzione di un soggetto dotato di una nuova grammatica desiderante. Questa scoperta si affaccia sulla scena politica non più nei termini di una resistenza popolare temporanea, prodottasi nel vuoto lasciato dallo Stato e pronta quindi a ritrarsi quando ipoteticamente lo Stato riallargherà i cordoni della spesa pubblica. Ammesso che quest’ultima ipotesi sia possibile, ovviamente. Poiché in discussione non è solo quanta spesa pubblica lo Stato fa, ma come è mutato il soggetto istituzionale che la pratica. E le recenti (almeno dagli anni Settanta)  trasformazioni della forma Stato – Workfare,  «Stato individualistico» a la Buchanan[18] in tutti i campi di intervento o «Stato di mercato» parafrasando Dardot e Laval[19] – escludono la possibilità che da qualche parte possa ritornare il vecchio «Stato del Benessere» a laPigou, per quanto nessuno di noi lo desideri affatto.  Le pratiche di lotta appena segnalate indicano che adesso sono le classi subalterne a rivendicare che l’ “uno” dello Stato venga diviso nei “molteplici”: quanti più saranno i contro-poteri diffusi, o le «casematte» gramsciane, che le classi subalterne saranno in grado di innalzare nel bel mezzo del campo avversario.

È casomai proprio nel confronto con questo cambiamento di sostanza e natura dello Stato neoliberale che queste esperienze di lotta e istituzionalità autonoma dovranno misurare le loro potenzialità trasformative. La cronicizzazione della crisi spinge infatti sempre più il mercato e lo Stato ad assoggettare queste forme di auto-organizzazione proprio nella stessa misura in cui esse si presentano come un movimento di risocializzazione dell’economia. Contrariamente ad una vulgata che vede in esse nulla più che «pratiche di sopravvivenza», queste forme autonome della riproduzione sociale sono anche, ad un tempo, nuove e spesso avanzate forme della cooperazione produttiva. La loro diffusione molecolare diventa dunque oggetto di forme di regolazione di mercato che puntano precisamente ad eliderne il loro segno autonomo. Probabilmente occorre rivolgere lo sguardo ai paesi postcoloniali per vedere all’opera le forme più avanzate – ed estese – di questa inclusione capitalistica delle “economie popolari” (come mostrano efficacemente Gago e Mezzadra nel contributo presente nel libro). Nonostante le enormi differenze, fenomeni che presentano dinamiche simili possono notarsi anche nei paesi altamente terziarizzati. La via d’uscita dalla crisi del Welfare State viene individuata in Europa nella riconversione della spesa pubblica a favore di politiche di “investimento sociale”:le provvisioni tipicamente elargite dal Welfare avrebbero in questo quadro il ruolo di stimolare la promozione sociale divenendo esse stesse “fattore produttivo”. L’espansione del mercato dei titoli finanziari a “impatto sociale” o l’insistenza sui programmi di microcredito, l’investimento capitalistico su circuiti di scambio basati sulla “reciprocità” e la “condivisione”, la riformulazione da parte dei governi europei del terzo settore imperniato su un’ambigua idea di “comunità” e basato su un’incredibile estensione del lavoro volontario, descrivono quella che ci pare essere la linea di ridefinizione del programma neoliberale nella direzione di una sua “riconversione societaria”. L’accento posto su queste forme di “solidarietà e redistribuzione competitiva” assumono in questo quadro un significato radicalmente differente da quello attribuito dalla tradizione del Welfare postbellico. Queste iniziative non puntano infatti ad una compensazione delle diseguaglianze né tantomeno ad un allentamento, benché relativo, della dipendenza dei soggetti dal mercato. Qui la nuova centralità assunta dal “sociale” comporta, da un lato,la moltiplicazione ed estensione degli strumenti di misurazione della performance economica alle pratiche collettive e, dall’altro, la messa a valore (con la loro trasformazione) dei circuiti economici informali, delle dinamiche di redistribuzione dal basso e delle forme di reciprocità spesso riunite sotto la categoria di “sharing economy”.

Occorre, ora, fare avanzare il discorso in un’altra direzione. È evidente che gli esperimenti di “verticalizzazione” politica in Europa (in Grecia, e per il futuro speriamo in Spagna solo per citare alcune ipotesi), ripropongano in termini nuovi il problema keynesiano della domanda effettivacome politica economica necessaria per l’uscita dalla crisi. Ma quello di cui i movimenti sociali devono discutere (e rivendicare) non è una generica ripresa della spesa pubblica. Ugualmente importante è il tema di quale direzionedella spesa: per cosa si spende? Quali valori d’uso si intendono produrre? Chi ha il potere su questa spesa e come lo esercita? Qui, forse, andrebbe introdotto un grande economista keynesiano (che probabilmente, non gradirebbe neppure questa etichetta) come Minsky, per riprendere una parte dei risultati della sua ricerca (in aperto contrasto con lo stesso Keynes), ma allo scopo di contrapporli, suo malgrado, al suo stesso impianto[20]. Minsky sosteneva che la spesa pubblica avrebbe dovuto essere direzionata allo scopo di porsi il problema del cosa si produce, del come e del quando lo si fa. A tale scopo lo Stato avrebbe dovuto assumere la funzione di “creatore di ultima istanza” di lavoro. Si tratta di un’ipotesi diversa della «socializzazione degli investimenti», secondo la visione originaria di Keynes[21]. Quello che va ripreso da Minsky è questa sua enfasi sulla direzione della spesa pubblica, depurando la sua stessa visione da molti altri aspetti. Imporre attraverso le lotte un programma di spesa pubblica significa per noi direzionare la spesa in quei campi (come quelli ad alta intensità di conoscenza) in cui, contestualmente, è possibile esercitare una modifica dei sistemi della produzione (cosa e come produrre), così come la possibilità di rivitalizzare le forme di cooperazione sociale che si determinano a “monte” e a “valle” della produzione stessa. Significa, in altri termini, sostenere quella spesa pubblica capace di approfondire proprio quel «modello antropogenetico»[22] dell’economia, su cui poggia contestualmente il “capitalismo cognitivo” e la sua stessa possibilità di superamento. Diversamente da (e contro) Minsky, invece, deve essere fatta valere l’ipotesi, che un aumento della spesa pubblica (in deficit) debba contenere anche un nuovo programma di universalizzazione del welfare a partire dall’urgenza del finanziamento di un reddito di base universale, su base individuale e incondizionato dall’accettazione di qualsiasi lavoro (fuori di ogni ripresa tardiva e decisamente problematica di mitologie da “piena occupazione”). Si tratta, cioè, dell’idea che la spesa pubblica debba essere tesa ad assicurare diritti assoluti di cittadinanza, come interi campi della sussistenza e della riproduzione sociale indipendenti da qualsiasi razionalità di mercato. Si tratta, cioè, di una politica fiscale per il Comune, capace di consolidare l’autonomia della cooperazione sociale, favorendo, nel contempo,  gli esperimenti di autogestione e di invenzione istituzionale dapprima segnalati. Altrove, abbiamo affermato, che si tratta di immaginare un programma di politica economica che si pone l’obiettivo di un “uso non keynesiano del keynesismo”[23]. Di un uso, cioè, della spesa pubblica in cui all’aumento della cooperazione sociale, deve corrispondere una “distribuzione e un consolidamento del potere verso il basso”, oltre, e soprattutto contro, i confini della rappresentanza del Politico.

Intermezzo #2: la rottura istituzionale e lo spazio europeo

Quello che fin qui abbiamo definito come un “uso non keynesiano del keynesismo”, non può che scontrarsi con i limiti “verso l’alto” del governo (nazionale) e dell’uso del potere che le stesse lotte sono in grado di agire sullo spazio europeo. Abbiamo già accennato al fatto che la “supremazia tedesca” (e degli Stati satellite) nell’Europa della moneta unica si configura, almeno parzialmente, come l’esito della lotta greca. Questo processo ha reso ancor più evidente un problema già noto: ossia l’impossibilità nello stato attuale di una sperimentazione di una politica fiscale per il Comune, sganciata dal problema della “verticalizzazione” del comando sulla moneta unica. La costruzione di contropoteri monetari, o più realisticamente di un nuovo sistema monetario in Europa, tuttavia, non può di certo passare, come un certo populismo di sinistra sostiene, attraverso un recupero di una qualche presunta sovranità monetaria (o un ritorno secco a monete nazionali). Quello che ha mostrato l’esperimento greco, con l’orizzonte del dentro e contro l’euro, è che la lotta sul “circuito monetario” non può che avvenire almeno sulla scala europea. Perché è solo a questa scala geografica minima che si ha la potenzialità di porre il problema della moneta nella sua complessità. Che non è solo, ovviamente il problema delle istituzioni della moneta nella sua forma ex-nihilo, come banconota, ma il problema del governo del sistema bancario e finanziario e della moneta (o quasi moneta) endogenamente prodotta dal sistema finanziario stesso. Il cui statuto rimanda costruttivamente ad una spazialità trans-nazionale, contro cui il tema del sovranismo nazionale apparirebbe patetico, se non fosse anche un reale pericolo dinanzi all’avanzata delle destre radicali in Europa. La disarticolazione del potere della moneta unica, come terreno di ricerca fondamentale per i movimenti sociali in questa fase, contiene in termini impliciti la necessità di immaginare un sistema monetario per il Comune (su base sovra-nazionale). Capace, cioè, di porsi il problema di come debba consolidarsi l’autonoma della cooperazione sociale. Senza che questo tema comporti uno slittamento del discorso politico sui piani classici di ritorno allemonete nazionali.

Per non concludere…

Con questa introduzione, abbiamo provato a mostrare come le pratiche e le lotte del sindacalismo sociale siano l’espressione di una nuova forma della povertà e come quest’ultima, portando tendenzialmente a coincidenza la radicale compressione dei livelli della riproduzione e l’immiserimento della cooperazione sociale, comporti l’attuale stato di avvitamento e cronicizzazione della crisi. Abbiamo in altre parole visto come il capitale tende esso stesso a prosciugare le fonti della sua ricchezza e la sua stessa possibilità di estendersi e rigenerarsi. Tuttavia, questa descrizione rimane incompleta senza rendere conto di quel conflitto anonimo, sotterraneo e incessante, che non smette di minarne la capacità di governo. Questo conflitto è animato dalle nuove figure della forza lavoro le quali, benché spesso in modo disseminato e invisibile, si presentano come recalcitranti ad assumere le condotte prescritte dall’etica neoliberale e ad essere il supporto dei processi di valorizzazione capitalistica. Un insieme di comportamenti disparati fatti di fughe e infedeltà, di indisponibilità a veder ridotta l’ “attività” al lavoro salariato,di utilizzo “opportunistico” delle provvigioni del Welfare State che punta a dissociare la “protezione” sociale dall’impiego, di creazione e alimentazione di circuiti della cooperazione sociale fuori dagli schemi dello scambio di mercato: questo insieme di pratiche costituiscono il “segreto laboratorio” da cui origina la destabilizzazione continua del governo neoliberale. È solo a questo livello d’analisi che possiamo accedere ad un’altra “genealogia” della crisi. A partire da questo angolo visuale, dunque, la crisi di misura del lavoro, l’attacco ai livelli della riproduzione sociale e alle forme della cooperazione, mostrano il loro fattore “interno” ed antagonista. Ed è solo a questo livello che possiamo vedere nelle esperienze del sindacalismo sociale oggetto di questo libro, non solo una “reazione” allo scenario presentato dalla crisi, ma l’esisto e l’espressione di un processo di lunga durata.

Abbiamo detto prima che se limitiamo lo sguardo alla “vicenda greca” dell’estate del 2015, l’impressione che se ne ricava è che quel nesso dinamico tra lotte sociali e sviluppo capitalistico sia venuto meno, quando non addirittura invertito. Se tuttavia lo sguardo si allarga, fino a comprendere una temporalità più lunga e fino a rendere conto dell’attuale scomposizione degli spazi economici ed istituzionali, quello stesso nesso sembra presentarsi come nuovamente aperto. Così come la crisi della riproduzione sociale e della cooperazione produttiva è stata presentata come una “nemesi” del capitale, allo stesso modo le istanze produttive della plebe intellettuale, che si traducono nell’invenzione continua di forme della cooperazione sociale che sfuggono al controllo amministrativo e alla loro messa a valore, ci mostra che esiste anche un limite interno, segnato,questa volta, da un irriducibile desiderio di libertà. È su questo limite che si giocano le alternative del futuro e che si definiscono le nuove frontiere del Politico. Ci pare di vedere in questa tensione immanente e irrisolta, la matrice delle polarizzazioni politiche attuali: le ri-territorializzazioni fasciste come le mobilitazioni democratiche. Lo stesso entusiasmo con il quale i giornali economici puntano sulle proprietà salvifiche della cosiddetta sharing economy, descrive piuttosto la presa di coscienza del “cervello” capitalistico di questa situazione instabile ed aperta e degli elementi che la compongono.

La linea di tendenza che si esprime nelle esperienze del sindacalismo sociale a cui è dedicato questo libro, con l’“imprenditorialità del Comune” a cui allude e le “rotture istituzionali” a cui ambisce, non è che una delle opzioni possibili. E non è affatto detto che prevalga. Saranno i conflitti a venire, con l’immaginazione politica e i rapporti di forza che sapranno definire, a decidere sulle alternative in campo. Non è certo compito di questo libro fare previsioni.Ci basta aver raccolto qualche elemento in più per condurre in modo più efficace la battaglia.

[1] Per il lavoro del collettivo si veda il sito www.euronomade.info.

[2] Sul rapporto “interno” tra lotte economiche e lotte politiche si veda il contributo di Michael Hardt in questo libro.

[3] De Nicola, A. Quattrocchi, B. La torsione neoliberale del sindacato tradizionale e l’immaginazione del “sindacalismo sociale”: appunti per una discussione; Amendola, A. Sindacalismo sociale: la macchina della cooperazione che politicizza le vita.

 

[4] Bologna S., Moneta e crisi, (tratto da) Banche e Crisi, DeriveApprodi, Roma, p. 17-92

[5]Tornti M., Operai e Capitale, Derive Approdi, p. 287

[6] Ivi, p. 286

[7] Ivi, p. 291

[8]Summers L. (2013), “IMF Economic Forum: Policy Responses to Crises”, speech delivered at the IMF Annual Research Conference, November 8th.

[9] AA.VV., Economia politica della promessa, Manifestolibri

[10] De Nicola A., Quattrocchi B., La torsione neoliberale del sindacato tradizionale e l’immaginazione del «sindacalismo sociale»: appunti per una discussione, Euronomade, 30 maggio 2014.

[11] Marazzi C., Diario della crisi infinita, OmbreCorte, p. 120-21.

[12] Si veda l’intervista concessa dall’ex ministro sul sito http://trumanfactor.com/2015/varoufakis-entrevista-elbuho-15043.html.

[13]Minenna M., La Grecia e la perdita di sovranità su debito pubblico nazionale (testo non pubblicato in riviste), http://www.cgil.it/Archivio/politiche-economiche/Forum_Economia/Grecia.pdf.

[14]L’invenzione statistica dei Neet e lo straordinario successo che questa sta riscontrando nel ri-orientamento delle politiche di attivazione in Europa, è in questo senso un utile riferimento per rendere conto del superamento delle stesse categorie di «lavoro» e «disoccupazione». I Neet, sono soggettività statistiche propriamente “senza statuto”, una molteplicità di figure sociali che superano ampiamente l’ambito della disoccupazione involontaria per includervi i tratti dell’indisponibilità e del rifiuto, soggetti definiti unicamente da una passività che rischia, se prolungata, di convertirsi in intrappolamento e accumulazione di svantaggi.

[15] Intervista di Anna Maria Merlo a LucBoltanski, Lo Stato impresa e il suo dominio, ilmanifesto, 12 giugno 2010.

[16]Sassen, S. Expulsions, Harvard University Press, 2014.

[17]Con l’espressione “produzioni dell’uomo per l’uomo” ci riferiamo alla definizione di “modello antropogenetico” proposta inizialmente da Boyer, R. La croissance, début de siècle. Paris, Albin Michel, 2002.

[18]Bachanan, J.M., Stato, Mercato e Libertà, Il Mulino, 1989.

[19]Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo, Deriveapprodi, 2013.

[20]Minsky, H. P., Combattere le povertà, Ediesse, 2014.

[21]Secondo l’economista di Cambridge, il Big Government, avrebbe dovuto fungere da stabilizzatore automatico dell’economia. Lasciando che poi il mercato – scoprendo così un eco neoclassico mai completamente irrisolto – ridefinisse spontaneamente le allocazioni di risorse sui settori produttivi da “premiare”. Ma la visione “maggiormente attiva” di Minsky da parte dello Stato, altro non è che l’ipotesi più radicale della pretesa della sua “unicità” di comando. Per giunta, con l’idea che il miglioramento riproduttivo delle classi subalterne si assicurava con il lavoro e non con i trasferimenti monetari alle famiglie (Welfare State).

[22] Si veda la nota 15.

[23] Quattrocchi, B. Sulla rottura del dispositivo keynesiano, in euronomade.info.

 

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