di SANDRO MEZZADRA*.

Le riflessioni con cui la redazione di «Outis» ha accompagnato la proposta di dedicare questo primo numero della rivista al tema delle migrazioni sono per molti versi prossime ai percorsi di ricerca e militanza che ho seguito negli ultimi anni. Questo vale tanto per la centralità del tema del confine nella crisi e nella trasformazione della «geografia politica moderna», su cui sto in particolare lavorando a un progetto di libro con Brett Neilson (cfr. Mezzadra – Neilson 2008), quanto per il più generale inquadramento dell’analisi delle migrazioni all’interno delle trasformazioni del capitalismo contemporaneo (e delle forme di «comando sulla forza lavoro»). A fronte di un dibattito italiano e internazionale che negli ultimi anni, negli studi critici sulle migrazioni e sull’asilo, ha fatto ampio uso di categorie come «nuda vita» ed «esclusione radicale», mi pare poi molto opportuna la proposta di focalizzare la ricerca sulla «continua produzione di inclusione differenziata» (senza che questo ovviamente significhi chiudere gli occhi di fronte al risorgere «di localizzate forme di esclusione feroce»). Quella di inclusione differenziata (o «differenziale») è in effetti una categoria che si presta molto bene ad analizzare i regimi emergenti di management delle migrazioni in molte aree del globo (Mezzadra – Neilson 2010), tra cui figura sicuramente anche l’Europa. È sufficiente leggere la Comunicazione del 4 maggio 2011 della Commissione europea, in cui si fa il punto sul tema del controllo delle migrazioni e dei «confini esterni» dell’Unione, per verificare come – pur in presenza della doppia sfida delle rivolte nel Maghreb e nel Mashreq e della crisi economica globale – si ribadisca con forza l’esigenza di affiancare alla lotta contro l’immigrazione «irregolare» programmi selettivi di reclutamento di un gran numero di migranti, ritenuti indispensabili tanto sotto il profilo demografico quanto sotto quello della carenza di skills in settori strategici dei mercati del lavoro europei. Targeted migration e well managed migration sono le formule utilizzate dalla Commissione europea (COM(2011) 248 final, pp. 4 e 12 s.), ma anche da agenzie come la «International Organization for Migration» (cfr. Andrijasevic – Walters 2010) nonché da singoli ministeri nazionali: basti qui ricordare il rapporto presentato lo scorso febbraio [2011, ndr] dal nostro Ministero del lavoro e delle politiche sociali, che stima “prudentemente” in 100.000 unità per il periodo 2011-2015 e in 260.000 per il periodo 2016-2020 il «fabbisogno medio annuo» di nuova manodopera immigrata in Italia.

Moltiplicazione degli status giuridici, flessibilizzazione dei visti, differenziazione dei permessi di soggiorno: queste sono le “ricette” emergenti dal dibattito su quello che viene ormai solitamente definito migration management in Europa così come a livello globale (Geiger – Pécoud, eds, 2010). È ragionando attorno a queste tendenze, che sono oggi evidentissime ma si potevano cogliere già all’inizio dello scorso decennio, che molte e molti, all’interno delle reti militanti e dei movimenti transnazionali antirazzisti e dei/delle migranti in Europa, si sono cominciati a domandare se l’immagine della «Fortezza Europa», pur indubbiamente efficace per denunciare la vera e propria guerra contro i/le migranti che si combatte quotidianamente ai «confini esterni» dell’Unione, non rischiasse di risultare fuorviante sotto il profilo analitico. Ci sembrava d’altro canto che quell’immagine fosse problematica anche da un altro punto di vista: che essa conducesse cioè a fissare l’attenzione esclusivamente sul continuo affinamento delle tecnologie di controllo e di dominio, respingendo sullo sfondo i movimenti e le pratiche soggettive con cui i/le migranti continuavano e continuano a sfidare i confini che la stessa immagine della Fortezza Europa presenta come mura impenetrabili. È all’interno di questo dibattito, avviato in ambiti decisamente poco accademici (come ad esempio il Forum sociale europeo di Firenze, nel 2002, e il campeggio NoBorder svoltosi l’estate successiva a Frassanito, in Puglia), che è emersa e si è venuta precisando l’ipotesi teorica e di ricerca dell’«autonomia delle migrazioni». Negli anni successivi, il dibattito attorno a questa ipotesi è stato molto vivace a livello internazionale, e ha consentito verifiche, confronti, “ibridazioni” con esperienze di ricerca sulle migrazioni maturate ai quattro angoli del pianeta, ciascuna con caratteristiche peculiari e tuttavia tutte accomunate dal fatto di collocarsi sul confine tra lavoro di ricerca, riflessione teorica e militanza politica. I «lineamenti» della teoria dell’autonomia delle migrazioni che presento di seguito sono anche un bilancio di un decennio di dibattito trans-nazionale e trans-continentale sul tema delle migrazioni1. E si propongono come una base su cui costruire nuove esperienze di ricerca e su cui intrecciare nuovi dialoghi.

1. Sguardi

«Parlare di autonomia delle migrazioni», scrivono Dimitris Papadopoulos, Niamh Stephenson e Vassilis Tsianos, «significa intendere la migrazione come un movimento sociale nel senso pieno del termine, e non come una semplice reazione a condizioni di disagio sociale o economico». E così proseguono: «l’approccio dell’autonomia delle migrazioni, ovviamente, non considera la migrazione isolatamente dalle strutture sociali, culturali ed economiche. È semmai vero il contrario: la migrazione viene considerata come una forza creativa all’interno di queste strutture» (2008, p. 202). Assumere il punto di vista dell’autonomia delle migrazioni richiede una «diversa sensibilità», un diverso sguardo direi io. Significa guardare ai movimenti e ai conflitti della migrazione privilegiando le pratiche soggettive, i desideri, le aspettative e i comportamenti dei/delle migranti. Questo non implica affatto “romanticizzare” la migrazione, come pure viene spesso sostenuto dai critici (cfr. ad es. Sivetidis 2006), dato che l’approccio dell’autonomia delle migrazioni sottolinea sempre l’ambivalenza di queste pratiche e di questi comportamenti soggettivi: all’interno della migrazione intesa come movimento sociale prendono continuamente forma tanto nuovi dispositivi di dominio e sfruttamento quanto nuove pratiche di uguaglianza e libertà. La teoria dell’autonomia delle migrazioni si propone di evidenziare le tensioni e i conflitti che segnano il “campo” della migrazione, facendo emergere in piena luce come le stesse politiche che puntano al controllo della mobilità si trovino sempre a fare i conti con un eccesso di soggettività, con pratiche di sconfinamento che le costringono a ricalibrare i propri strumenti e le proprie tecnologie di confinamento e incanalamento. La stessa produzione di «irregolarità», in questa prospettiva, non appare come semplice processo di «esclusione» gestito dall’«alto», ma come l’esito di un insieme di conflitti e di scontri in cui i movimenti soggettivi e le lotte dei/delle migranti sono un fattore attivo e fondamentale.

Un diverso sguardo, dicevo: cominciamo con l’esemplificare questo concetto in riferimento a un tema particolarmente importante. Le teorie e le retoriche “progressiste” che possiamo definire mainstream impiegano spesso a proposito delle migrazioni la categoria di cittadinanza, muovendo dall’affermazione (o dal tacito presupposto) che i/le migranti vogliano diventare cittadini. Assumendo l’ipotesi dell’autonomia delle migrazioni, il punto di vista sulla cittadinanza cambia radicalmente, e si può cominciare ad apprezzare il rovesciamento dello sguardo che quell’ipotesi determina. Ancora ricordo una delle prime manifestazioni di massa di migranti a Genova, dove vivevo, nei primi anni Novanta. Un amico e compagno senegalese, un “clandestino”, fu intervistato da una giornalista, spaesata di fronte a una piazza gremita di centinaia di migranti. “Di dove sei?”, gli domandò. E lui rispose: “come, di dove sono? Sono di Genova, sono un cittadino di Genova”. Ripetute e commentate dai media locali, quelle parole contribuirono a spiazzare il dibattito pubblico sull’immigrazione in città, ad aprire nuovi spazi di azione politica. Sono storie come questa a suggerire l’ipotesi che i/le migranti – indipendentemente dal loro status giuridico – possano agire come cittadini, che siano già cittadini (Bojadžijev – Karakayali 2007, p. 205). Evidentemente, queste affermazioni richiedono una concettualizzazione della cittadinanza diversa da quella a cui fanno riferimento gli studi e le retoriche dominanti, che la assumono come una cornice giuridica e politica data, al cui interno i/le migranti dovrebbero appunto integrarsi (e/o essere integrati, secondo una grande varietà di modelli teorici e politici). Coerentemente con una riflessione critica sul tema della cittadinanza ormai consolidata, la teoria dell’autonomia delle migrazioni sottolinea piuttosto come le pratiche e le rivendicazioni di soggetti che non necessariamente sono cittadini in termini giuridici costituiscano una chiave essenziale per comprendere le stesse trasformazioni della cornice giuridica e istituzionale della cittadinanza. Diventa così possibile comprendere anche le lotte e i movimenti dei/delle migranti “irregolari” come essenziali per la costruzione e la trasformazione della cittadinanza, intesa ora come «un’istituzione allo stato fluido» (Balibar 2001; Isin 2002 e 2009; Mezzadra 2004).

D’altro canto, almeno dal mio punto di vista, l’ipotesi dell’autonomia delle migrazioni deve essere ulteriormente sviluppata in riferimento al ruolo della mobilità del lavoro nella storia e nel presente del capitalismo: è questo il criterio essenziale che consente di rendere ragione dei conflitti e degli scontri che segnano l’esperienza migratoria. A differenza di quanto sostenuto da altri (cfr. Papadopoulos, Stephenson, Tsianos 2008, p. 207), credo che sia essenziale ricondurre il nostro stesso lavoro sull’autonomia delle migrazioni all’interno del più generale terreno di indagine della produzione di soggettività nelle condizioni determinate dal capitalismo. È proprio sotto questo profilo, come si mostrerà nel prossimo paragrafo, che la teoria dell’autonomia delle migrazioni si colloca in modo molto originale all’interno del campo degli studi critici contemporanei sul tema, spiazzando produttivamente opposizioni consolidate e ponendo in evidenza i limiti delle stesse posizioni con cui dialoga più fittamente (a partire da quelle sulla cittadinanza che si sono appena ricordate).

2. Posizionamenti

Una considerazione preliminare mi pare necessaria. Quella dell’autonomia delle migrazioni è un’ipotesi teorica di ricerca che, almeno per quanto mi riguarda, è maturata all’interno di precise coordinate spaziali, diciamo semplicemente “in Europa”. Per quanto utilizzi materiali provenienti da altri contesti (dagli Stati Uniti all’India), e per quanto negli ultimi anni (come accennavo) la stessa teoria dell’autonomia delle migrazioni sia stata oggetto di discussione in contesti molto diversi da quello europeo, sono convinto che condizione fondamentale per rendere quello stesso confronto produttivo sia mantenere una precisa consapevolezza della specificità geografica dei discorsi e delle stesse ipotesi teoriche che si propongono. È bene dunque sottolineare che quello qui proposto non è un approccio che pretenda validità “universale” o “globale”. È inutile dire che la stessa «Europa» è una costruzione che unifica arbitrariamente realtà profondamente eterogenee: per limitarci a menzionare tre Paesi in riferimento al tema trattato, l’Italia, la Germania e il Regno Unito presentano storie e paesaggi migratori profondamente diversi. A ciò si dovrebbe aggiungere il fatto che, nell’uso corrente, «Europa» è un termine che tende a indirizzare lo sguardo verso la parte occidentale del continente; e anche soltanto attribuire il rilievo che meritano ai suoi territori centro-orientali richiederebbe una significativa rimessa a punto dello schema teorico qui presentato. Se si dovessero prendere in considerazione altre storie di migrazione e di sviluppo capitalistico, questo risulterebbe ancora più evidente.

Sono assolutamente convinto che vi sia oggi l’esigenza di sviluppare un modello teorico in grado di rendere conto della specificità delle migrazioni globali contemporanee: piuttosto che proiettare su scala globale un’ipotesi di ricerca e una proposta teorica nata in “Europa”, mi pare però più utile sottolineare quelle che ho chiamato le “coordinate spaziali” della loro produzione, auspicando che esse possano “risuonare” altrove (come molte ipotesi di ricerca e proposte teoriche prodotte al di fuori dell’Europa hanno “risuonato” nel mio lavoro). Essenziale, semmai, è tenere a mente i limiti teorici determinati dal fatto che i dibattiti critici sulle migrazioni «si sono quasi invariabilmente sviluppati assumendo come riferimento i movimenti migratori verso l’Europa o verso le sue ex colonie di popolamento» (Chalcraft 2007, p. 27). Come sostiene in modo convincente John Chalcraft, è di cruciale importanza dare maggior rilievo nei nostri dibattiti ad altre storie e ad altre esperienze di migrazione, in particolare alle migrazioni che vengono definite Sud-Sud. E non si tratta solo di accrescere le nostre conoscenze estendendole ad altri contesti: lo straniamento metodico e il decentramento critico dello sguardo che ne possono derivare devono piuttosto essere fatti agire come fattori di problematizzazione del modo stesso in cui analizziamo la migrazione in Europa e nell’Occidente.

L’interevento appena citato di Chalcraft è particolarmente importante, considerato il fatto che i dibattiti a cui si riferisce sono quelli al cui interno si è consolidata negli ultimi anni una polarizzazione che mi pare in fondo sterile e da superare: quella cioè tra un’analisi della migrazione essenzialmente “economicistica”, che attribuisce un rilievo strategico al tema dello «sfruttamento», e un insieme di posizioni che si possono definire “culturaliste” – provenienti cioè dal campo dei cultural studies – che pongono in evidenza l’effetto di destabilizzazione che l’«ibridità» e le pratiche dei/delle migranti producono su «meta-narrazioni essenzialiste» e «opposizioni binarie semplici tra il Sé e l’Altro» (Chalcraft 2007, p. 27). Da una parte il/la migrante come vittima dello sfruttamento (o, possiamo aggiungere guardando alle posizioni di chi impiega concetti come quello di «nuda vita», del dominio); dall’altra il/la migrante come avanguardia dello spiazzamento identitario prodotto dalla globalizzazione, come pioniere di un nuovo «cosmopolitismo dal basso»: in questa alternativa l’approccio dell’autonomia delle migrazioni, almeno come io lo intendo e cerco di svilupparlo, non trova posto. Mentre quanti ritengono che tale approccio proponga in buona sostanza una “romanticizzazione” della migrazione lo attribuirebbero certamente alla seconda delle due polarità delineate da Chalcraft, esso si propone precisamente di contribuire a un approfondimento della nostra comprensione della realtà dello sfruttamento. Molte suggestioni che provengono dai cultural studies sono indubbiamente di grande utilità dal punto di vista dell’autonomia delle migrazioni, ma entro una prospettiva che, come si è detto, evidenzia al tempo stesso l’importanza e l’ambivalenza delle pratiche che tali studi si propongono di analizzare. Anche se Chalcraft studia la condizione del lavoro migrante siriano in Libano, molti dei risultati a cui perviene, del tutto coerenti con quanto appena affermato, hanno una validità che va oltre il suo caso di studio. Mi pare anzi che affermi un punto di validità davvero generale quando scrive che «l’ibridità, le pratiche di attraversamento dei confini e la agency migrante possono benissimo articolarsi con, e addirittura promuovere, la polarizzazione, la gerarchia, l’alienazione e la mercificazione» (Chalcraft 2007, p. 46).

Al tempo stesso, ciò che distingue l’approccio dell’autonomia delle migrazioni da ogni prospettiva “economicistica” è l’enfasi posta sulla soggettività del lavoro vivo come elemento costitutivo e antagonistico all’interno del rapporto di capitale. Questa enfasi, che deriva da una rielaborazione dell’eredità dell’operaismo, consente di tenere fermo un elemento di soggettività che va spesso perduto in letture più tradizionali e “oggettiviste” di Marx. Lo sfruttamento è del resto sempre stato, e lo è più che mai oggi, un processo sociale, che non può essere considerato in termini meramente economici, limitato cioè ai luoghi di erogazione del lavoro «produttivo». Esso si estende piuttosto lungo l’intero arco delle attività produttive e riproduttive. In questo senso, lo sfruttamento dei/delle migranti va indagato e ricostruito considerando nella loro interezza il processo e l’esperienza migratoria, e si trova sempre a dover fare i conti con la soggettività dei/delle migranti al tempo stesso come sua condizione di possibilità e come base della sua potenziale contestazione. E come già ho sottolineato, è questo elemento di agency, la produzione della soggettività dei/delle migranti come campo contestato e contraddittorio, a essere al centro della teoria dell’autonomia delle migrazioni così come la intendo.

Al di là della polarizzazione delineata da Chalcraft, è opportuno tornare a sottolineare il contributo molto importante che gli studi critici sulla cittadinanza hanno apportato all’approfondimento dei dibattiti internazionali sulle migrazioni, in particolare per quel che riguarda l’insieme delle sfide politiche che oggi, nella transizione globale che stiamo vivendo, le pratiche di mobilità pongono. Tornerò in conclusione sul lavoro di studiosi come Étienne Balibar ed Engin Isin, nonché di teorici della democrazia radicale come Jacques Rancière e Bonnie Honig. Già ora è il caso tuttavia di ripetere che l’enfasi da loro posta sulla dimensione «attivistica» della cittadinanza e della democrazia è una mossa teorica cruciale, che consente non solo di “leggere” politicamente le migrazioni, ma anche di adottare il punto di vista delle migrazioni per leggere la crisi e le trasformazioni di istituti come appunto la cittadinanza, lo Stato e la sovranità. Al tempo stesso, quello che mi pare problematico nei dibattiti sulla cittadinanza e sulla democrazia radicale è la mancanza di un tentativo di coniugare il piano più propriamente teorico-politico della riflessione con l’approfondimento di un’analisi critica del capitalismo contemporaneo. Il punto non è tanto (o soltanto) ricostruire in modo dettagliato i modi con cui il “neo-liberalismo” ha aggredito e disarticolato la cittadinanza sociale (ovvero i diritti sociali di cittadinanza, il welfare state), ma piuttosto (e ancora una volta) assumere come strategica l’analisi del campo di forze al cui interno si determina la produzione di soggettività che al “neo-liberalismo” corrisponde: delle eterogenee figure, posizioni e condizioni soggettive che determinano la composizione del lavoro vivo contemporaneo.

La migrazione gioca un ruolo cruciale all’interno di questa composizione, e richiede di essere indagata in una prospettiva in grado di renderne conto. Ciò vale in modo particolare per ogni analisi critica della migrazione “irregolare”. Per quanto gli studi critici sulla cittadinanza abbiano contribuito in modo essenziale a mettere in discussione ogni confine netto, fissato una volta per tutte, tra cittadini e non cittadini, dando un inedito rilievo anche sotto il profilo storico al protagonismo politico di stranieri e outsiders (Isin 2002), è lo stesso linguaggio della cittadinanza a essere fondato, tanto storicamente quanto teoricamente, sulla distinzione tra interno ed esterno, dentro e fuori. E non è facile sottrarsi all’ipoteca di questa distinzione restando all’interno del linguaggio stesso della cittadinanza. Non è un caso, in questo senso, che la maggior parte degli studi sui movimenti e sulle lotte della migrazione si concentri sui sans-papiers, sui/sulle migranti “irregolari”, ovvero su soggetti che sono costruiti come esclusi dalla cittadinanza. Si tratta ovviamente di studi fondamentali, e tuttavia una focalizzazione esclusiva sui/sulle migranti “irregolari” rischia di confermare un’opposizione binaria (quella appunto tra migranti “regolari” e “irregolari”) prodotta dalle stesse politiche che ci si propone di criticare: e rischia in particolare di relegare sullo sfondo della ricerca il fatto che anche i/le migranti “regolari” vivono e lottano in condizioni prodotte dallo stesso regime di controllo che produce al tempo stesso un sistema stratificato gerarchicamente (e spesso “razzializzato”) di cittadinanza e l’“irregolarità”. Mi pare che soltanto combinando studio critico della cittadinanza e analisi critica del capitalismo contemporaneo sia possibile rendere conto della continuità di questo processo, il che contribuirebbe a illuminare di una luce diversa la stessa realtà dell’immigrazione “irregolare”.

3. Briglie

La pubblicazione nel 1998 del libro di Yann Moulier Boutang, De l’esclavage au salariat. Économie historique du salariat bridé, è stata molto importante per la definizione dell’ipotesi dell’autonomia delle migrazioni. Lo sviluppo successivo delle ricerche storiografiche sulla mobilità del lavoro nel capitalismo hanno confermato e approfondito la tesi avanzata da Moulier Boutang in quel libro (cfr. Mezzadra 2011a): che il capitalismo sia cioè contraddistinto da una tensione strutturale tra l’insieme delle pratiche soggettive in cui si esprime appunto la mobilità del lavoro, certo da intendere anche come risposte puntuali al continuo travolgimento degli assetti sociali “tradizionali” determinato dallo sviluppo capitalistico, e il tentativo di esercitarne un controllo «dispotico» da parte del capitale, attraverso la fondamentale mediazione dello Stato. Le lotte sulla mobilità segnano l’intero arco storico di sviluppo del capitalismo, dal momento in cui la prima enclosure di una terra comune ha messo in movimento le popolazioni rurali in Inghilterra così come da quello in cui la prima nave negriera ha attraversato l’Atlantico. Quel che risulta da questa tensione è un dispositivo complesso, a un tempo di valorizzazione e di imbrigliamento della mobilità del lavoro – nonché della specifica forma di soggettività (ovvero dell’eterogeneo complesso di desideri, comportamenti, abitudini, forme di vita) che a quest’ultima corrisponde (cfr. Read 2003, cap. 1).

È precisamente questo eccesso della mobilità rispetto ai dispositivi deputati al suo controllo che costituisce la posta in palio essenziale nella politica e nelle lotte della migrazione, e che è contemporaneamente al centro dell’ipotesi teorica dell’autonomia delle migrazioni. Da un lato, il capitale punta a ricondurre questo eccesso al suo codice, al linguaggio del valore, attraverso la mediazione dello Stato e di altri apparati politici e amministrativi – il che significa che punta a sfruttarlo. Dall’altro lato, le lotte della migrazione sono spesso caratterizzate dalla trasformazione di questo momento di eccedenza in base materiale di resistenza e organizzazione. Per citare ancora una volta il saggio di John Chalcraft (2007, p. 125) sui/sulle migranti siriani in Libano, «il fatto stesso che il sistema richieda questo momento soggettivo di agency comporta che, in condizioni di frammentazione e instabilità, questo stesso momento può essere ri-articolato in funzione di lotta contro l’accumulazione sistemica».

Considerata nella prospettiva indicata da Moulier Boutang, la mobilità del lavoro e le migrazioni risultano un terreno d’indagine fondamentale per comprendere la natura stessa del capitalismo. Il regime che punta a garantire la specifica (e tuttavia sempre mutevole) combinazione di mobilità, imbrigliamento e fissazione del lavoro costituisce una chiave che consente di ricostruire in modo particolarmente efficace, entro coordinate storiche e geografiche determinate, le forme complessive di sottomissione del lavoro al capitale, nonché le trasformazioni che investono la composizione del lavoro vivo. Si può qui formulare l’ipotesi che, a fronte dei processi di flessibilizzazione e precarizzazione del lavoro che contraddistinguono il capitalismo contemporaneo, la figura del/della migrante “irregolare”, unitamente alle politiche di controllo che si indirizzano verso tale figura, assumano un carattere paradigmatico (cfr. Squire, ed, 2011): che offrano cioè un punto di vista per indagare le trasformazioni del regime di controllo delle migrazioni nel loro complesso, tenendo presente che questo regime ha a sua volta, secondo quanto si è appena affermato, ricadute sulle forme di sottomissione al capitale del lavoro en général. Per quanto migranti “irregolari” siano ovviamente esistiti anche in precedenti momenti della storia del capitalismo moderno, è del resto opportuno ricordare che come concetto giuridico e come obiettivo di specifiche retoriche e politiche di controllo il/la migrante “irregolare” (o “illegale”, e poi in un crescendo di stigmatizzazioni “clandestino”) diviene centrale in Europa soltanto con il profondo cambiamento delle politiche migratorie determinato dalla crisi petrolifera del 1973 e con la crisi del fordismo (Withol de Wenden 1987; Suárez-Navaz 2007, p. 23).

Il blocco del reclutamento di forza lavoro straniera disposto dal governo della Repubblica federale tedesca nel novembre del 1973, a cui seguirono analoghe misure in altri paesi nord-europei, segnò la fine dell’età dei Gastarbeiter, ovvero di quei programmi di reclutamento di «lavoratori ospiti» che avevano contraddistinto le politiche e le esperienze migratorie in Europa occidentale nel secondo dopoguerra. Negli anni che seguirono, asilo e ricongiungimento familiare divennero le principali vie a disposizione dei/delle migranti che volessero fare legalmente ingresso in Europa. E tuttavia, a dispetto delle previsioni dei pianificatori politici e dei governi, la presenza migrante in Germania, come nei principali paesi europei che avevano adottato politiche simili, continuò a crescere, secondo una dinamica autonoma dagli equilibri del mercato del lavoro, che si pone piuttosto in una linea di continuità con il ritmo crescente, negli ultimi anni dell’età dei Gastarbeiter, delle lotte di cui questi ultimi furono protagonisti, culminate nel grande sciopero autonomo della tarda estate del 1973 alla Ford di Colonia (Bojadžijev 2008, pp. 157-160). Considerate congiuntamente, in ogni caso, queste lotte e la dinamica autonoma della migrazione dopo il 1973 mostrarono in modo plateale i limiti della cosiddetta «teoria del cuscinetto» (buffer theory), che sosteneva i programmi di reclutamento temporaneo di forza lavoro migrante, secondo la quale sarebbe stato possibile “rimpatriare” quest’ultima in caso di rallentamento del ciclo economico o di crisi (esternalizzando in questo modo la disoccupazione).

Al tempo stesso, i primi tentativi di flessibilizzare il mercato del lavoro mantenendo ampi settori di economia “informale”, in particolare (ma non soltanto) in paesi dell’Europa meridionale come l’Italia, crearono fin dai primi anni Ottanta le condizioni per un’immigrazione di tipo nuovo, al cui interno quella “irregolare” giocava un ruolo essenziale. Fino a buona parte degli anni Novanta, le politiche migratorie europee assecondarono questi sviluppi, puntando a rendere disponibile una forza lavoro a buon mercato, flessibile e “docile”. Pur in condizioni molto diverse, simili tendenze possono essere osservate anche in America settentrionale, in molti paesi emergenti e in particolare in quelli produttori di petrolio: negli scorsi tre decenni abbiamo assistito a una crescita su scala globale di una forza lavoro mobile e “irregolare”, spesso con la tacita approvazione dei governi allo scopo di stimolare l’accumulazione del capitale a livello transnazionale (Rosewarne 2001). Si è così prodotta una diffusa condizione in cui, come scrive ad esempio Anne McNevin, «i/le migranti “irregolari” sono incorporati nella comunità politica come attori economici mentre è loro negato lo status di membri a pieno titolo (insider). Sono outsider immanenti» (2006, p. 141). Nell’ultimo decennio poi, e in particolare dopo l’11 settembre, la tendenza già in atto a presentare questi «outsider immanenti» come portatori di una minaccia alla sovranità e alla sicurezza dei “cittadini” si è ulteriormente accentuata, conducendo a una restrizione spesso drammatica della loro libertà di movimento e a un drastico peggioramento delle loro condizioni di vita e lavoro.

Queste tendenze duramente restrittive, ulteriormente accentuate dalla crisi economica globale, hanno trovato traduzione tanto sul piano delle retoriche quanto su quello delle politiche in Europa, disegnando un singolare contrasto con la consapevolezza molto diffusa, precedentemente richiamata, della cruciale necessità di predisporre nuovi programmi di reclutamento di forza lavoro migrante. È un contrasto singolare, ma tutt’altro che inusuale, nel senso che può essere osservato in altre fasi della storia delle migrazioni e del capitalismo, quando ha ad esempio assunto la forma di un’opposizione tra la «ragione di Stato» e le esigenze di specifiche componenti capitalistiche (cfr. Mezzadra 2006, cap. 1): si può anzi dire che esso disegna il campo di tensione al cui interno i dispositivi dell’inclusione differenziale divengono operativi, secondo una geometria variabile tra i due poli della chiusura e dell’apertura che consente ampi spazi di manovra per sperimentare una grande varietà di “modelli” migratori. In ogni caso, nella prospettiva della teoria dell’autonomia delle migrazioni, tutti questi modelli devono fare i conti con quelli che si sono definiti come elementi di eccedenza della mobilità del lavoro, ovvero della sua irriducibilità alle presunte “leggi” dell’offerta e della domanda che dovrebbero governare tanto i mercati interni del lavoro quanto la sua divisione internazionale. La continuità di un movimento di fuga, in cui ad esempio Ranabir Samaddar ha invitato a identificare le forme elementari di resistenza dei/delle migranti in un fondamentale lavoro sulla frontiera tra Bangladesh e India (1999, p. 150), si scontra con un regime di controllo della mobilità che garantisce a sua volta la continuità della produzione di “irregolarità”. E quest’ultima deve essere compresa come elemento essenziale di un continuum di posizioni soggettive che quello stesso regime codifica attraverso sistemi sempre più complessi di classificazione giuridica e politica, che comprendono l’intero spettro dell’esperienza migratoria e la stessa condizione dei rifugiati. L’irregolarità è per così dire il punto di imputazione di questo sistema di classificazione, attorno a cui ruota la governamentalità dell’inclusione differenziale.

4. Dis/integrazioni

Assumere la categoria di integrazione differenziale come punto di vista privilegiato al tempo stesso sui regimi emergenti di controllo delle migrazioni e sulle trasformazioni della cittadinanza e dei mercati del lavoro comporta necessariamente un distanziamento critico rispetto al significato che assume, tanto nei dibattiti accademici quanto nelle retoriche dominanti, il termine «integrazione». Sotto il primo profilo, si deve positivamente constatare il superamento dei modelli neoclassici che, declinati in termini economici o demografici, riconducevano la migrazione all’effetto combinato di fattori di «spinta» (push) e «attrazione» (pull). Per quanto continuino a condizionare la percezione e la discussione dei fenomeni migratori all’interno dell’opinione pubblica, la portata conoscitiva di questi modelli è stata ampiamente ridimensionata, a tutto vantaggio di approcci come quello della «successione etnica» o della cosiddetta new economics of migration (cfr. ad es. Portes – De Wind, eds, 2008). La «relativa autonomia» delle migrazioni è ampiamente riconosciuta da questi nuovi approcci, che la riconducono in particolare al «ruolo vitale» giocato nel determinarne le dinamiche da «decisioni assunte da individui, famiglie e comunità» (Castles – Miller 2003, p. 278). In questa relativa autonomia Stephen Castles ha indicato una delle ragioni essenziali del «fallimento» delle politiche migratorie, nonché del fatto che spesso sortiscano effetti opposti a quelli perseguiti (Castles 2004). Si tratta di sviluppi teorici di indubbio interesse, che tuttavia, leggendo e traducendo l’autonomia delle migrazioni attraverso concetti come «capitale sociale», reti etniche e familiari, ripropongono la centralità del concetto di integrazione sociale come criterio essenziale di analisi (e implicitamente come norma a cui tendere).

Ciò che risulta problematico, dal punto di vista della teoria dell’autonomia delle migrazioni qui proposta, non è tanto il concetto di integrazione in sé, quanto – ancora una volta – il tipo di “sguardo” sulla migrazione che esso produce una volta che lo si assuma come criterio di complessivo orientamento della ricerca. Per riprendere un’indicazione del grande sociologo algerino Abdelmalek Sayad (1999), si può dire che l’enfasi posta sull’integrazione produce una sorta di specchio in cui i/le migranti sono sempre visti attraverso la lente della cosiddetta «società (nazionale) d’accoglienza», dei suoi «codici» e dei suoi «problemi». Dietro il concetto di integrazione si staglia, in altri termini, lo spettro del «nazionalismo metodologico» che ha orientato la moderna «scienza della migrazione» fin dal suo sorgere, celebrando e riproducendo la sovranità del «punto di vista dei nativi» (De Genova 2005, cap. 2). Ma se questa osservazione ha validità generale, una cautela particolare nei confronti dell’uso del concetto di integrazione deve essere mantenuta oggi in Europa, dove nelle retoriche di governi come quello tedesco e quello inglese la critica sempre più esplicita di ogni esperienza di «multiculturalismo» si associa a un’enfasi ossessiva sulla necessità che i/le migranti si integrino all’interno di quella che viene spesso esplicitamente definita la «cultura dominante» (Mezzadra 2011b). Questa enfasi si traduce in specifiche misure politiche (si pensi ad esempio all’introduzione dei test di lingua), e nutre quella che in termini althusseriani si può definire una continua interpellazione rivolta ai/alle migranti, costruiti come soggetti di un deficit, di una mancanza culturale, e dunque da tenere permanentemente sotto osservazione.

L’enfasi sull’integrazione (condivisa acriticamente da una parte consistente della sinistra) diventa così elemento essenziale di un insieme di dispositivi materiali e ideologici che hanno aperto spazi per un nuovo aggressivo razzismo in tutta Europa, creando le condizioni per una violenta gestione (e al tempo stesso per la copertura) dei processi di integrazione differenziale che stanno contemporaneamente disarticolando la struttura della cittadinanza. Quella che Nikos Papastergiadis (2000) ha definito ormai diversi anni fa la turbolenza delle migrazioni (ovvero la continua moltiplicazione delle rotte e dei modelli migratori, la loro crescente imprevedibilità) si scontra oggi, in Europa e non solo, con equilibri complessivi della cittadinanza e del mercato del lavoro a loro volta sempre più elusivi e “flessibili”: l’eccedenza della mobilità rispetto a quegli equilibri, al centro dell’ipotesi di ricerca dell’autonomia delle migrazioni, si manifesta qui con inedita intensità, e impone di assegnare priorità, piuttosto che al tema dell’integrazione, da una parte alle lotte e ai movimenti dei/delle migranti, dall’altra alla continua ridefinizione dei dispositivi di dominio e sfruttamento che attorno al tentativo di governare quell’eccedenza si determinano.

Un terreno assai significativo di analisi, sotto questo profilo, è il vero e proprio cambiamento di paradigma che molte organizzazioni internazionali ed eterogenee agenzie stanno ormai da anni elaborando, proponendo e contribuendo a mettere in atto nelle politiche migratorie, utilizzando l’etichetta ormai diffusissima di migration management (che può essere intesa come applicazione alle politiche migratorie del paradigma emergente della governance). Queste organizzazioni e queste agenzie (dalla International Organization for Migration, IOM, all’International Centre for Migration Policy Development, ICMPD, per menzionarne soltanto due particolarmente importanti) svolgono oggi essenziali ruoli di coordinamento e di consulenza, all’interno di quello che viene spesso definito un nuovo regime emergente di controllo delle migrazioni su scala globale (cfr. ad es. Düvell 2004). È il caso di precisare che non si intende in questo modo riferirsi all’esistenza (e neppure al tendenziale profilarsi) di un governo politico integrato dei movimenti migratori. Il punto è piuttosto la contraddittoria e frammentaria formazione di un corpo di saperi, competenze e tecniche all’interno di comunità epistemiche e politiche disparate, che esercitano (come si è detto: attraverso la delega di funzioni, il coordinamento e rapporti di consulenza con un gran numero di agenzie nazionali e sovra-nazionali) un condizionamento sempre più profondo delle politiche migratorie in un numero crescente di regioni del mondo. Tecniche amministrative di controllo, «standard» tecnici e programmi di «capacità-building» circolano a livello globale, trovando poi applicazioni e “traduzioni” peculiari a seconda dei diversi contesti (Geiger – Pécoud, eds, 2010).

Le politiche migratorie, strutturalmente legate al controllo dei confini, chiamano del resto in causa competenze costitutive della sovranità, a partire dalla distinzione tra interno ed esterno del territorio statale (e dunque tra politica interna e politica estera) e dalla distinzione tra cittadini e stranieri. Interrogarsi sulle trasformazioni che stanno investendo queste politiche significa dunque necessariamente interrogarsi sulle profonde trasformazioni che hanno investito l’ordine (e il disordine) globale e lo stesso concetto di sovranità negli ultimi due decenni. Con Saskia Sassen (2006, p. 415), si può affermare a questo riguardo (adottando un punto di vista critico sui dibattiti attorno a concetti come governance e governa mentalità) che la sovranità rimane indubbiamente «una proprietà sistemica», ma «il suo inserimento istituzionale e la sua capacità di legittimare e ricomprendere tutto il potere legittimo, di essere fonte del diritto, sono divenute instabili». L’analisi delle retoriche e dei modelli del migration management costituisce dunque un’occasione per riflettere da un punto di vista specifico sulle nuove configurazioni, sui nuovi «assemblaggi» di potere emergenti a livello globale, in cui le logiche della sovranità si presentano intrecciate con quelle della governamentalità neo-liberale, di una governance che tende a presentarsi come un processo “liscio” di persuasione e accompagnamento dei soggetti senza bisogno di esercitare coercizione, secondo schemi neutrali di calcolo e gestione del rischio. Ed è importante prendere sul serio (per poi poterlo criticare in modo più efficace) il fatto che la ragione politica neoliberale, di cui il migration management costituisce l’applicazione sul terreno del controllo della mobilità, è in qualche modo costretta a considerare autonomi i soggetti verso cui si indirizzano le sue strategie di governance, tanto sul piano interno quanto su quello internazionale (Hindess 2005).

I soggetti stessi che concorrono all’esercizio della sovranità, del resto, sono sempre più mutevoli ed eterogenei, come proprio l’analisi dei regimi migratori emergenti a livello globale (e in particolare in Europa) consente di verificare: al loro interno, secondo modalità che erano state ben evidenziate da Antonio Negri e Michael Hardt (2000, cap. 3.5) attraverso il concetto di una «costituzione mista» e «ibrida» dell’Impero, gli Stati nazionali continuano a esercitare funzioni di indubbia importanza, ma sono ormai ben lungi dal poter rivendicare una competenza esclusiva. Essi cooperano piuttosto, come si è in parte già visto, con formazioni sovra-nazionali come l’Unione Europea, le loro istituzioni e le loro agenzie, ma anche con nuovi attori globali come l’IOM, con strutture dal più preciso raggio d’azione territoriale come l’ICMPD, con organismi come l’Alto Commissariato della Nazioni Unite per i Rifugiati, e sempre più spesso con organizzazioni non governative che vengono coinvolte nella gestione di specifici segmenti (spesso con compiti di natura “umanitaria”) della complessiva governamentalità delle migrazioni. Un luogo strategico per questa governamentalità, il confine, è anche un punto di cristallizzazione in cui le trasformazioni che stanno investendo le politiche migratorie divengono particolarmente visibili. E come ha affermato uno dei più acuti osservatori delle tecniche di controllo e “sicuritarizzazione” delle migrazioni in Europa, il semplice fatto dell’aumento esponenziale della cooperazione e delle azioni transfrontaliere di polizia ai «confini esterni» dell’Unione «mette in discussione le categorie politiche tradizionali che poggiano su una separazione radicale tra interno ed esterno» (Bigo 2005, p. 115).

Mentre negli ultimi anni i confini, al pari dei campi di detenzione, sono stati spesso indagati criticamente come luoghi di «eccezione», l’affermazione di Didier Bigo apre una diversa prospettiva: se l’enfasi sull’eccezione corrisponde al recupero di un’immagine monolitica della sovranità, il riferimento al carattere sempre più elusivo della distinzione tra interno ed esterno pone al centro dell’analisi critica un’inedita mobilità e flessibilità dei confini. Non si tratta certo, in questa seconda prospettiva, di ridimensionare il ruolo della violenza nel controllo dei confini – di quella violenza che ha ad esempio prodotto dal 1988 a oggi 16.265 morti documentate ai «confini esterni» dell’Unione Europea. Si tratta piuttosto, come già si è accennato, da una parte di affinare strumenti analitici che consentano di ricostruire le geometrie variabili di quella violenza; e dall’altra di evidenziare la continuità delle sfide portate ai confini dai movimenti dei/delle migranti, troppo spesso oscurate dai «toni apocalittici» di molte analisi contemporanee della sovranità, in specie di quelle che fanno riferimento a Giorgio Agamben (Hardt – Negri 2009, pp. 3-8; Balibar 2010, pp. 41 s.).

5. Incontri

La crescente flessibilizzazione dei dispositivi di controllo dei confini, a cui corrispondono processi di «de-territorializzazione» ormai ampiamente indagati in particolare nel caso europeo (cfr. ad es. Cuttitta 2007), costituisce un elemento essenziale dei nuovi modelli di migration management. Anche questi ultimi si propongono infatti come alternativi ai tradizionali schemi di «governo» delle migrazioni (come ad esempio quelli centrati attorno a rigidi sistemi di «quote») proprio per la flessibilità che li contraddistingue. L’insieme dei dispositivi di classificazione e differenziazione degli status migratori, a cui già si è accennato, trova il proprio criterio di razionalità nel tentativo di realizzare una migrazione just-in-time e to-the-point, canalizzando in funzione delle esigenze di un sistema economico sempre più diversificato e flessibile il «capitale umano» di cui i/le migranti attuali e potenziali sono costruiti come portatori, secondo una logica già acutamente descritta da Michel Foucault nelle sue lezioni sulla Nascita della biopolitica (1979, pp. 190 s.).

Ben si comprende, in questo senso, come la tendenza in atto non sia quella verso la chiusura ermetica dei confini, ma semmai verso la predisposizione di sistemi di filtri, membrane e dighe, volti a misurare, valorizzare, e dunque a sfruttare, gli elementi di eccedenza (di autonomia) che contraddistinguono i movimenti migratori contemporanei. È all’interno di questo scenario, dei processi di inclusione differenziale a cui punta il migration management, che deve essere analizzata la stessa violenza del confine, il suo stesso lato letteralmente «necropolitico» (Mbembe 2003). Quest’ultimo, nella prospettiva della tesi dell’autonomia delle migrazioni, mostra in modo catastrofico la natura utopica del sogno capitalistico di una migrazione just-in-time e to-the-point. Al tempo stesso, la continua produzione di “irregolarità” che ha nel confine uno dei suoi luoghi essenziali iscrive il confine stesso all’interno della costituzione materiale della cittadinanza e del mercato del lavoro, in cui vengono quotidianamente immessi soggetti la cui libertà di movimento e contrattazione è drasticamente limitata dal loro stesso status giuridico. È in fondo la categoria stessa di mercato del lavoro, con le sue caratteristiche segmentazioni (Piore 1979), a risultare decisamente problematica una volta che la si analizzi dal punto di vista delle migrazioni contemporanee.

È il caso di ricordare che, anche indipendentemente dalle critiche di matrice marxista, sia l’economia istituzionalista sia la più recente sociologia economica statunitense hanno insistito sul fatto che definire quello del lavoro un mercato può avere al più un valore metaforico: le condizioni di base per l’esistenza di un mercato, l’indipendenza degli attori dello scambio e una tendenza all’equilibrio, sono infatti tutt’altro che scontate nei “mercati” del lavoro (cfr. ad es. Althauser – Kalleberg 1981). Per quel che riguarda i movimenti migratori contemporanei, Harald Bauder ha utilizzato le categorie di Pierre Bourdieu per dimostrare che la condizione lavorativa dei/delle «migranti internazionali è comprensibile soltanto sulla base di un insieme di processi di distinzione sociale, culturale e istituzionale» (Bauder 2006, p. 8). Nei fatti, è attraverso il controllo dei confini e le politiche di cittadinanza che gli Stati si impegnano quotidianamente (in condizioni come si è visto sempre più determinate dai regimi globali emergenti di migration management) in un processo di continua costituzione politica e giuridica dei «mercati del lavoro interni», intervenendo in modo particolarmente incisivo, e spesso violento, ogniqualvolta le logiche di mercato entrano in crisi.

Per citare ancora Bauder (2006, p. 26), «la cittadinanza è un meccanismo giuridico per assegnare i lavoratori e le lavoratrici a posizioni specifiche all’interno di una gerarchia di status». La posizione dei/delle migranti “irregolari” è oggi parte integrante di questo meccanismo giuridico: l’“irregolarità” è al tempo stesso uno dei suoi prodotti e una condizione essenziale del suo funzionamento. È in queste condizioni che pare opportuno proporre, per l’analisi delle condizioni e dei movimenti del lavoro migrante contemporaneo, la ripresa di una categoria marxiana su cui si è a più riprese soffermato nei suoi tardi scritti Louis Althusser (2000), sia pure da un punto di vista diverso da quello qui indicato: dalla sociologia del mercato del lavoro siamo cioè condotti verso una considerazione delle condizioni giuridiche e politiche, sociali e culturali dell’incontro tra forza lavoro e capitale, di un incontro in cui proprio l’autonomia dei soggetti costruiti come «portatori» di forza lavoro offre un punto di vista critico per rendere ragione dei rapporti di dominio e sfruttamento che nell’«incontro» vengono sempre investiti.

La continua ridefinizione di questi rapporti, con la violenza che costitutivamente li segna, trova nel lavoro migrante un punto privilegiato di esercizio. Ma è oggi più in generale un elemento essenziale all’interno di una composizione del lavoro vivo contraddistinta da elementi di profonda eterogeneità: mette in tensione e al tempo stesso mette a valore identità e appartenenze consolidate, “generi” ed “etnie”; si infiltra, scardinandola, nella distinzione tra produzione e riproduzione (come in particolare mostra il lavoro di cura delle donne migranti), tra lavoro “qualificato” e non, tra lavoro cognitivo e lavoro manuale; pone in discussione modelli teorici consolidati, come ad esempio quello che all’interno dell’operaismo è stato costruito attorno alle categorie marxiane di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro sotto il capitale. Non si dà transizione lineare e conclusa una volta per tutte dall’una all’altra, ovvero da una situazione in cui l’intervento del capitale nell’organizzazione diretta del lavoro e della cooperazione è limitato a una in cui è totalmente dispiegato (Hardt – Negri 2009, pp. 229 s.): proprio il lavoro migrante mostra continuamente la compresenza e l’articolazione di modalità di estrazione del plusvalore che sono state a lungo considerate caratteristiche di diverse epoche della storia del capitalismo, in una situazione generale in cui la new economy e i processi di finanziarizzazione convivono con il riemergere in nuove forme della «cosiddetta accumulazione originaria» (Mezzadra 2008, appendice). La teoria dell’autonomia delle migrazioni si propone di contribuire all’analisi di questa situazione evidenziando le tensioni e i conflitti che oggi entrano a determinare la composizione del lavoro vivo, ne producono e riproducono continuamente l’eterogeneità e fanno di cultura e cittadinanza elementi interni agli stessi processi di sfruttamento e valorizzazione capitalistica nella misura in cui sono direttamente investiti in quel terreno di produzione di soggettività in cui la classe operaia contemporanea assume le fattezze di una moltitudine.

6. Lotte

A fronte di una composizione del lavoro vivo caratterizzata da un livello altissimo di mobilità, gli ultimi vent’anni hanno registrato un indiscutibile protagonismo dei/delle migranti nelle lotte sociali e del lavoro. Tra i molti esempi che si potrebbero ricordare (e non mancano ovviamente quelli italiani), basti qui un riferimento alle straordinarie campagne di «sindacalismo sociale» che a partire dal sud-ovest degli Stati uniti hanno mobilitato fin dalla fine degli anni Ottanta decine di migliaia di migranti di origine latino-americana attorno allo slogan Justice for janitors (Alzaga 2011) e al ruolo di lavoratori e lavoratrici migranti nell’ondata di scioperi che, dallo stabilimento Honda di Foshan, ha sconvolto l’ordine industriale nel sud della Cina lo scorso anno (Mezzadra – Roggero 2010). Quella che è stata forse la più grande manifestazione nella storia del movimento operaio statunitense, quella del primo maggio del 2006 a Los Angeles, è stata del resto costruita a partire dal movimento dei/delle migranti latinos di quell’anno, che ha letteralmente reinventato il significato della giornata internazionale del lavoro (notoriamente non festiva negli USA) e ha formulato la proposta di «un giorno senza di noi», ripresa negli anni successivi in Italia e in altri paesi europei (De Genova 2010).

Ciò nonostante, nel dibattito teorico-politico sul significato dei movimenti e delle lotte dei/delle migranti, il riferimento al lavoro non è stato in questi anni preminente: accanto al razzismo, sono stati prevalentemente i diritti umani (in particolare per quel che riguarda l’attivismo e i conflitti attorno e contro i confini) e la cittadinanza i criteri essenziali di analisi utilizzati. Un concetto come quello di «parte dei senza parte», introdotto da Jacques Rancière in La Mésentente (1995) ma anticipato in un articolo di due anni prima contro le leggi Pasqua, è parso a molti descrivere con grande precisione l’insorgenza nel 1996 del movimento francese dei sans-papiers, destinato a diffondersi in un gran numero di paesi europei negli anni successivi – dalla Grecia all’Italia, dalla Spagna alla Svizzera (Suárez-Navaz et al., eds, 2007). Proprio in quanto soggetti costruiti in termini privativi (identificati cioè dal fatto di essere senza qualcosa), i sans-papiers sembravano i naturali candidati a produrre quella soggettivazione della parte non «calcolata» all’interno di uno specifico regime di «polizia» (di distribuzione e amministrazione delle parti e dei ruoli sociali) da cui, nella prospettiva di Rancière, dipendono l’azione politica e la reinvenzione dell’universale. Ne derivava un forte investimento sulla possibilità che le pratiche e le lotte dei/delle migranti costituissero dispositivi di approfondimento e di radicalizzazione della democrazia, a cui faceva per esempio eco negli Stati Uniti un importante libro di Bonnie Honig, Democracy and the Foreigner (2001).

Pur con rilevanti differenze di impostazione e di accenti, all’interno di questo “orizzonte d’aspettativa” si sono collocate negli ultimi anni pratiche politiche di straordinaria importanza nonché lo stesso innovativo lavoro condotto sul tema della cittadinanza da studiosi come Étienne Balibar ed Engin Isin, pervenuto a fissarsi provvisoriamente nelle figure di una «cittadinanza insorgente» (Balibar 2010) e di una «cittadinanza attivistica» (Isin 2008). Come ho già ricordato, la teoria dell’autonomia delle migrazioni ha contribuito a questo dibattito, ponendo in particolare l’accento sulle pratiche di cittadinanza dei/delle migranti, sull’insieme dei movimenti e delle lotte attraverso cui, nel quotidiano, i/le migranti pongono le condizioni per quelli che Isin definisce «atti di cittadinanza», aggiungendo che essi «inevitabilmente implicano una rottura con gli habitus» (Isin 2008, p. 18). Se questo accento posto sulle pratiche è parte di un più generale tentativo di costruire un concetto di lotte sociali più ampio di quelli tradizionali, nella prospettiva dell’autonomia delle migrazioni sono comunque di grande importanza tutti i momenti in cui i/le migranti rivendicano ed esercitano direttamente, a prescindere dal loro status giuridico, i propri diritti. Agendo come «cittadini illegali» (Rigo 2007) o come «cittadini non autorizzati e tuttavia riconosciuti» (Sassen 2006, pp. 294-296), essi affermano senza mediazioni la politicità del ruolo cruciale che giocano nel mondo del lavoro e nel più generale tessuto della cooperazione sociale. Come tuttavia ha scritto Judith Butler a proposito del movimento statunitense del 2006, i/le migranti che scendono in piazza esercitano indubbiamente diritti che non hanno sotto il profilo giuridico, ma ciò non significa «che conquisteranno quei diritti: nella mobilitazione possiamo vedere il momento aurorale della rivendicazione dei diritti, il suo esercizio, ma questo non ci dice ancora nulla sulla sua efficacia» (Butler in Butler – Spivak 2007, p. 64).

Questo riferimento all’«efficacia» può sembrare banale, e in qualche modo incongruo a fronte della ricchezza dei dibattiti sulla democrazia, sulla cittadinanza e sui diritti che ho sinteticamente richiamato attraverso i nomi di Rancière, Honig, Balibar e Isin. A diversi anni dall’avvio di quei dibattiti, tuttavia, mi pare indispensabile tentare un primo bilancio (auto)critico, e considerata l’importanza che in esso hanno avuto le condizioni, i movimenti e le lotte dei/delle migranti «irregolari» il criterio dell’«efficacia» non può che avere un ruolo di primo piano in questo bilancio. Anche per Isin, ad esempio, il movimento francese dei sans-papiers è stato fondamentale per mettere a punto la sua teoria della dimensione «attivistica» della cittadinanza, centrata sull’importanza cruciale del «diritto a rivendicare diritti» (Isin 2009). Il punto non è, evidentemente, rinunciare all’insieme delle acquisizioni di questi anni sul tema della cittadinanza, e in particolare sul rapporto tra cittadinanza e migrazioni, sulla base della constatazione di quanto poco efficace la mobilitazione permanente dei sans-papiers sia stata in Francia e altrove dal punto di vista della conquista e della fissazione giuridica dei diritti non solo rivendicati ma effettivamente esercitati dai/dalle migranti “irregolari”.

A me pare tuttavia che un limite possa e debba essere individuato nei dibattiti in questione, e che questo limite consista, nella sua forma più radicale, in un’immagine della temporalità della politica, diffusa nel pensiero critico contemporaneo anche al di là dei temi legati alle migrazioni, che la pone esclusivamente nei termini di una rottura a cui si tende ad attribuire la natura di un evento: non è soltanto Rancière a enfatizzare «la singolarità di un momento politico» capace di «interrompere la temporalità del consenso» (Rancière 2009, pp. 7-9); con le dovute differenze mi pare che qualcosa di analogo valga anche per concetti come quello di «cittadinanza insorgente» (Balibar) e di «atti di cittadinanza» o «cittadinanza attivistica» (Isin). Non si vuole certo qui sminuire l’importanza di singoli momenti di insorgenza e rottura, ma un’altra temporalità delle lotte, diversa (nei termini proposti da Rancière) tanto da quella dell’evento quanto da quella del «consenso», è almeno altrettanto importante. La si può provvisoriamente chiamare, riconducendo all’interno delle lotte la dialettica tra «insurrezione» e «costituzione» che contraddistingue secondo Balibar (1993) l’intera politica moderna, temporalità insorgente della costituzione: con questa formula mi riferisco in primo luogo, molto semplicemente, alle pratiche materiali che creano le condizioni di possibilità dell’insorgenza e dell’attivismo attraverso conflitti e forme di solidarietà; a quelle pratiche, per rimanere all’esempio del movimento francese dei sans-papiers, che resero possibile prima e dopo il 1996 l’esercizio del “diritto di restare” da parte dei/delle migranti irregolari, indipendentemente dalla conquista “formale” di questo diritto.

È poco più di uno spostamento di prospettiva (di sguardo), e non risolve certo il problema dell’«efficacia»: ma porre l’attenzione su queste pratiche, in cui il confine tra la condizione dei/delle migranti “irregolari” e “regolari” spesso si confonde, può risultare preliminarmente utile per identificare nuovi spazi al cui interno tentare di costruire eterogenee coalizioni e basi comuni per un incontro tra le lotte e i movimenti dei/delle migranti e altri soggetti in lotta. Pensare insieme dall’interno delle lotte «insurrezione» e «costituzione», destituzione degli assetti di potere dati (di quelli che con Rancière possiamo chiamare regimi di «polizia») e invenzione di nuova istituzionalità, è del resto un compito di portata più generale, che si pone oggi con particolare urgenza a chi prenda sul serio il problema politico essenziale che ci è consegnato dall’eterogeneità costitutiva della composizione contemporanea del lavoro vivo: lo scarto che esiste tra le lotte necessariamente parziali che quell’eterogeneità tende a determinare e la natura comune delle potenze (il linguaggio, la cooperazione, il sapere, la “vita”) sul cui sfruttamento si fonda il capitalismo contemporaneo. È a fronte di questo scarto che si consuma il progressivo esaurimento del lessico dell’universale, nonché dei concetti e degli istituti politici in cui si è tradotto: le nuove istituzioni di cui abbiamo bisogno possono essere intanto immaginate come dispositivi capaci di agire positivamente quello scarto, di tradurre i processi di soggettivazione che si determinano all’interno delle lotte moltiplicandone la potenza e organizzando efficacemente la riappropriazione (che non può che essere una reinvenzione) del comune. Le lotte e i movimenti dei/delle migranti qualificano con un segno di parte la crisi dell’universalismo a cui si è fatto cenno, nella misura in cui si mostrano irriducibili tanto ai meccanismi di integrazione predisposti dal linguaggio dei diritti, dallo Stato e dalla cittadinanza quanto alle immagini tradizionali della ricomposizione e dell’unità di classe. E apportano così un contributo di primo piano quantomeno all’impostazione del problema cruciale di fronte a cui oggi ci troviamo.

* Pubblicato in “Outis. Rivista di filosofia (post)europea”, 1/2011, pp. 27-49

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  1. Riprendo qui in parte un mio saggio pubblicato in inglese: The Gaze of Autonomy. Capitalism, Migration, and Social Struggles, in Squire, ed, 2011, pp. 121-142.