Pubblichiamo qui l’intervento di Marco Codebo alla giornata genovese “Emilio Quadrelli – non c’è resto che tenga”.

Di MARCO CODEBO

L’altro bolscevismo: Lenin l’uomo di Kamo, l’ultimo libro pubblicato da Emilio Quadrelli, discute il rapporto fra classe e partito rivoluzionario in tre diversi contesti: La Russia rivoluzionaria dai primi del ‘900 fino al 1917, l’Italia degli anni Sessanta e Settanta del Novecento e infine il nostro presente dentro il mondo post-globalizzazione.

Nell’analisi di Emilio, l’elemento chiave è la discussione della soggettività. Le varie entità prese in esame nel libro, siano esse collettive, come la classe e il partito, o singole, come Kamo e Lenin, sono trattate in quanto soggettività. Soggettività è il risultato del governo di se stessi, dell’arte di sé. Quando si autogoverna, una forza singola produce affezioni su se stessa, è autonoma, autoregolante. Gilles Deleuze ci dice che è come piegata su se stessa, che ha creato uno spazio-tempo che è fuori dal potere: questo significa essere soggettività. Credo sia importante sottolineare come nella soggettività sia insita un’idea processuale. La soggettività non è statica, è sviluppo, movimento. Concetto chiave se consideriamo soggettività che, come accade in Lenin l’uomo di Kamo, sono osservate nel loro divenire storico.

Prima di affrontare i contenuti di Lenin l’uomo di Kamo, vorrei fermarmi un attimo sul piano dell’espressione per discutere un tratto chiave della scrittura di Emilio, la citazione. Comincerei, com’è logico, dal titolo. La prima parte, L’altro bolscevismo è una citazione da Die “andere” Arbeiterbewegung (1974), le prime tre parole del titolo di un libro di Karl Heinz Roth e Angelica Ebbinghaus. Era una storia del movimento operaio tedesco alternativa a quella proposta dalla socialdemocrazia. L’edizione italiana, intitolata L’altro movimento operaio, esce nel1976. La seconda parte del titolo del libro di Emilio, Lenin l’uomo di Kamo, cita invece Kamo l’uomo di Lenin, uscito in Italia nel 1974. Era una traduzione di Kamo l’homme de mains de Lenin, di Jacques Baynac, pubblicato due anni prima a Parigi. Invertendo i rapporti fra Kamo e Lenin nel titolo, Emilio anticipa uno dei punti chiave della sua analisi, il primato della classe sul partito. Questo perché le soggettività dei due sono rappresentative di altrettante soggettività collettive, la classe nel caso di Kamo e il partito in quello di Lenin. Aggiungo che qui Emilio fa un passo nell’eresia. Kamo è un bandito georgiano, rapinatore e persino gigolò: dal punto di vista sociologico, un rappresentante del proletariato illegale. Nel marxismo tradizionale è un lumpen, un marginale. Qui invece è la classe, punto.

Nel corpo del testo, si trovano citazioni sparse un po’ dappertutto. Vorrei presentarne due, che si distinguono sia per frequenza, sia per rilevanza concettuale: “linea di condotta” e “partito dell’insurrezione”.

“Linea di condotta”è il titolo del saggio introduttivo di Operai e capitale, di Mario Tronti, il manifesto dell’operaismo italiano, uscito nel 1966. È lì che Tronti espone il principio cardine dell’intervento operaista: “La catena va spezzata non dove il capitale è più debole ma dove la classe operaia è più forte”. Scegliendo quel titolo, Tronti, come lui stesso riconosce verso la conclusione del suo saggio, stava a sua volta citando da un dramma di Bertolt Brecht, Die Maßnahme (1930), in italiano, appunto, La linea di condotta.

“Partito dell’insurrezione” sono le ultime tre parole di un distico a rima baciata, “Stato e padroni fate attenzione/nasce il partito dell’insurrezione”, che compare per quattro volte all’interno dell’Inno di Potere Operaio, composto nel 1971 da autori ignoti. La base musicale è data dalla Warszawianka, un canto di protesta polacco del 1905, che ha fatto da base musicale ad altre canzoni di lotta del secolo scorso, la più nota delle quali è “A las barricadas”, inno anarchico del tempo della guerra di Spagna.

Ognuna delle due citazioni ricorre sedici volte in Lenin l’uomo di Kamo. Lo status speciale delle due espressioni, il loro provenire da altri testi, è messo ogni volta in evidenza, pur con una variante stilistica: mentre “linea di condotta” è sempre scritto fra virgolette, “partito dell’insurrezione” è ogni volta in corsivo.

Nel testo, “linea di condotta” compare quando sono in discussione le scelte strategiche che si presentano davanti a una soggettività, singola o collettiva che sia, nei momenti di crisi politica. Nel caso del partito, è la capacità di scegliere la giusta “linea di condotta” che dà la misura della sua qualità rivoluzionaria. “Partito dell’insurrezione”, invece, è sinonimo di partito rivoluzionario. In altri termini, il partito rivoluzionario o è “dell’insurrezione” o non è.

L’evidente dato che vorrei sottolineare è che il frequente ricorrere di queste due citazioni dimostra come Emilio affronti un periodo di Storia che va dagli inizi del ‘900 fino al nostro tempo con strumenti elaborati dall’operaismo italiano degli anni Sessanta e Settanta del secolo breve. Tanto nella Russia degli anni Dieci e Venti del secolo scorso, quanto nel nostro presente, il contesto oggettivo, in termini di organizzazione della produzione materiale e della vita sociale, appare radicalmente diverso da quello dell’Italia fra il 1960 e il 1980. Eppure, ci dice Emilio con le sue ripetute citazioni, il tipo di soggettività anticapitalista pensata in quegli anni dagli operaisti era in grado di produrre antagonismo in entrambi i contesti, nella Russia appena entrata nel capitalismo come nella nostra età del capitale globale.

Torniamo ora al contenuto di queste pagine intrise di linguaggio operaista. Il rapporto fra classe e partito, nei tre periodi storici di cui si occupa Lenin uomo di Kamo, è affrontato nei termini di una relazione fra due soggettività che agiscono all’interno di una precisa divisione dei compiti. Al partito tocca la tattica, alla classe la strategia. Le due soggettività interagiscono dialetticamente. Si parte dalla prassi prodotta dalla classe – per capirci la conflittualità di tutti i giorni – per passare poi alla sua traduzione in programma da parte degli intellettuali legati al partito: questo è il momento della tattica. Si torna poi alla classe in un ultimo passaggio, quello della prassi qualificata, oggi si direbbe prassi 2.0, che la classe può mettere in opera una volta assicurata la coerenza rivoluzionaria della sua pratica di lotta.

Due precisazioni sono necessarie a questo punto, una sulla qualità degli intellettuali che militano nel partito e sono decisivi per l’elaborazione del programma, l’altra sul tipo di conoscenza che è a loro necessaria a questo fine. Sul primo punto l’argomento di Emilio si colloca nel solco della tradizione leninista. L’intellettuale di partito è un rivoluzionario di professione. Emilio tiene però ad aggiungere che questo intellettuale è populista, nel senso di una sua totale dedizione alla causa del popolo. Ma è populista anche storicamente, perché nella Russia dei primi del ‘900, questa figura appare all’interno di Narodnaja Volja, “Volontà del popolo”. Questa organizzazione, fondata nel 1879, aveva rotto con la precedente tradizione populista, indirizzata al riscatto dei contadini, per concentrare invece la sua militanza nelle città e nei quartieri operai.

Il secondo punto, il tipo di conoscenza necessaria agli intellettuali di partito, ci riporta all’operaismo come riferimento teorico delle riflessioni di Emilio. Per capire come qui funzioni il rapporto con la teoria operaista, bisogna porsi una domanda: come fanno gli intellettuali del partito a scegliere in maniera corretta il programma che meglio traduce la spontanea conflittualità della classe in pratica politica rivoluzionaria? La risposta è la loro conoscenza della composizione di classe, un termine coniato da Romano Alquati. Come spiega Sergio Bologna in un articolo uscito quattro anni fa su Machina, l’idea della composizione di classe è nata dalla consapevolezza che un’enorme complessità si nascondesse dietro al termine “classe operaia”: affrontare tale complessità in termini di composizione di classe significa cominciare a capirla e analizzarla, a decomporla dal punto di vista tecnico, culturale e politico, per rovesciarla infine in elemento di conflitto.

Tradotto in termini politici, questo approccio metodologico permette di cogliere, all’interno della classe, la presenza di strati più o meno avanzati. Di solito li si indica con i termini di sinistra e destra operaia. Ma l’operaismo immette nell’analisi un particolare quid: la qualità politica di un settore di classe viene a trovarsi in relazione diretta con la sua maniera di rapportarsi al lavoro in fabbrica. Per esempio, secondo questa impostazione, negli anni Sessanta in Italia, la figura operaia più avanzata era quella che lavorava alla catena di montaggio ed era perciò libera da quel particolare rapporto personale col lavoro che caratterizzava gli operai e le operaie professionali.

L’intellettuale rivoluzionario, scrive Emilio, sa leggere in maniera corretta la composizione della classe e calibra su questa lettura l’elaborazione del programma. La classe, insomma, è per sue innate caratteristiche un composto, il gioco delle cui componenti tocca conoscere ai rivoluzionari. Armato di questa conoscenza, il partito riesce ogni volta a cogliere il punto più alto della soggettività operaia e a trasformarla in coscienza politica. Quello che conta è rompere la falsa unità della classe e conferire un ruolo guida alle scelte e ai comportamenti degli strati più avanzati.

In questa pratica Lenin è decisivo. Nel racconto di Emilio, Lenin è un titano, è il rivoluzionario che rifiuta qualsiasi visione deterministica della Storia, l’idea che la Storia debba continuare in eterno ad andare avanti come ha sempre fatto. Quella leniniana è invece una dialettica dove non è solo possibile ma necessario esercitare una rottura nel corso della Storia, un’opzione, questa, che passa attraverso il dispiegamento della soggettività antagonista prodotta dall’azione coordinata di classe e partito.

All’interno della soggettività rivoluzionaria, dopo il 1905, Lenin vede decisivo il contributo dei popoli oppressi dal colonialismo, alleati naturali del proletariato rivoluzionario della metropoli. Quest’alleanza sarà possibile solo se si rompe la falsa unità di classe in occidente e si scaricano così i settori di classe riformisti legati agli interessi borghesi. Solo in questo modo si può scardinare il sistema-mondo creato dall’imperialismo. Qui il Lenin di Emilio è barbaro, anti-europeo. E non è neppure trontiano: non ha nessuna intenzione di andarsene in Inghilterra.

Nella Russia del 1905, dentro la soggettività rivoluzionaria, Kamo e quelli come lui diventano centrali. Sono, prima di tutto, i quadri militari indispensabili nell’insurrezione e nella guerra partigiana che nel biennio successivo si sviluppa in Russia. E in secondo luogo rappresentano lo strato di classe protagonista di due anni di ribellione. In linguaggio operaista, i Kamo sono il settore avanzato della classe, la componente più anti-padronale della composizione di classe in Russia. Funzionare come partito dell’insurrezione, che è il compito dei bolscevichi dal 1905 in poi, è possibile solo se gli intellettuali di professione mettono i Kamo al centro del programma.

Fin qui la prima parte del libro di Emilio, quella sulla Russia rivoluzionaria. Le ho dedicato uno spazio sproporzionato rispetto alle altre due perché la riflessione teorica vi occupa un ruolo centrale, di gran lunga più importante di quello che le è attribuito nelle altre due sezioni di Lenin l’uomo di Kamo. Nella seconda parte, dedicata agli anni Sessanta e Settanta del Novecento in Italia, Emilio abbandona la forma del saggio teorico per adottare quella della storia orale. Cinque interviste a militanti, tutte e tutti in varia misura “irregolari”, presentano altrettanti punti di vista soggettivi sui conflitti sociali di quegli anni, all’interno come all’esterno del carcere. Le riflessioni e i commenti alle interviste proseguono la discussione avviata nella prima parte del libro.

Nell’Italia ribelle di sessant’anni fa, il rapporto fra le due soggettività che interessano Emilio è del tutto sbilanciato a favore della classe. È questa soggettività, infatti, a guidare le lotte del ventennio rosso, mentre il partito, come tutti sappiamo non esiste. A rigor di logica, questo lo dico io non Emilio, di partiti ne esistevano anche troppi, tutti accomunati dalla loro incapacità di discutere di strategia con la classe.

In quel contesto, tocca agli operaisti ritradurre Lenin. Sono loro che individuano la composizione di classe più avanzata negli operai e nelle operaie della catena di montaggio. Si tratta di forza lavoro composta in gran maggioranza da immigrati e immigrate dal sud. Ma quel settore, tiene a precisare Emilio, proveniva in realtà da una colonia interna, perché tale era stata l’Italia Meridionale dall’unità del paese in poi. Questo proletariato di colonizzati interni è, di nuovo, la classe dei Kamo. Il ventennio rosso italiano è prodotto dal movimento dei Kamo dentro e fuori le fabbriche, dentro e fuori le prigioni. I tratti salienti di questo movimento sono:

  • Il rifiuto del lavoro in fabbrica.
  • la pratica dell’illegalità sul territorio come avventura che si contrappone all’alienazione operaia.
  • Il rifiuto della prigione e il programma di “liberare tutti” come articolazione della lotta al lavoro salariato.

Se i Kamo rimangono al loro posto di lotta, chi invece viene a mancare, negli anni Settanta Italiani, sono gli intellettuali. In assenza di un partito dell’insurrezione, il ceto politico-intellettuale abbandona la lotta. Lo fa in fabbrica quando l’organizzazione della violenza operaia diventa il passaggio obbligato verso la guerra civile. Lo fa in carcere quando si rende necessario dare forma organizzata alla violenza prigioniera.

Quando la questione della violenza operaia e proletaria non è più rimandabile “Lenin” scompare, scrive Emilio, e tutto rimane sulle spalle di Kamo. Ma la fratellanza dei detenuti è sconfitta quando le organizzazioni, non solo quelle di stampo mafioso come la Camorra e i Casalesi ma anche quelle combattenti come le Brigate Rosse e Prima Linea arrivano a contare più dei singoli. Come Emilio ha raccontato in quel fantastico libro che è Andare ai resti, per la lotta nelle prigioni lo spartiacque è l’assassinio in carcere di Francis Turatello (17 agosto 1981). Lì finisce l’epoca dei Kamo.

Per quanto riguarda il nostro presente, oggetto della terza e ultima sezione di Lenin l’uomo di Kamo, il tratto decisivo è, come ovvio, la globalizzazione. È questo un dato di fatto irreversibile: nessun ritorno è possibile allo stato nazionale. Come Lenin, nel 1905, fu capace di ridefinire i compiti dei comunisti nella nuova fase dell’imperialismo apertasi con la guerra russo-giapponnese, così oggi va ridefinita una nuova soggettività di classe, capace di posizionarsi al di là del movimento operaio storico e della sua tendenza a situarsi all’interno dello stato nazione.

Ma una soggettività anticapitalista all’altezza dei tempi non può accontentarsi di rimodulare l’internazionalismo. Altri confini storici devono essere superati per produrre una soggettività all’altezza dei tempi, capace di esprimere antagonismo sui tre terreni interconnessi del genere, della razza e della classe.

Il compito di produrre questa soggettività è tanto più urgente perché i conflitti sociali oggi hanno luogo in uno scenario radicalmente differente da quello del secolo breve. In quel tempo ormai lontano, le due parti avverse, borghesia e proletariato, si riconoscevano reciprocamente. Nell’era globale funziona invece il paradigma dell’esclusione. Davanti alla borghesia ci sono solo anormali e canaglie. La loro emarginazione è parte dell’espulsione delle masse dalla scena pubblica e quindi dalla politica.

Nelle società dell’era globale il modello coloniale è stato imposto anche alla metropoli. Per verificarlo, basta guardare le città. Negli agglomerati urbani il confine non è più fra città borghese e città operaia, ma fra individui da una parte e masse senza volto dall’altra. I campi di concentramento per migranti sono la traduzione di questa situazione in termini disciplinari. In tale contesto, i Kamo non sono spariti, sono semplicemente andati a stare in banlieue.

Quel che oggi occorre è un’internazionale dei subalterni. Per uscire dalla mortale alternativa fra l’esaltazione dell’era globale come progresso e l’impossibile sogno di un ritorno al passato, la proposta leniniana è di assumere il punto di vista di classe più avanzato e definire così su base internazionale un nuovo popolo. Questo popolo, scrive Emilio, esiste oggettivamente oltre i confini dello Stato Nazionale e di ogni confine è irriducibilmente nemico. Oggi bisogna organizzare il popolo che è figlio diretto dell’imperialismo globale. Come sempre, leggere la nuova composizione di classe è il presupposto per produrre un’ipotesi rivoluzionaria all’altezza dei tempi.

Se Lenin uomo di Kamo finisce qui, vorrei aggiungere ancora un’osservazione a proposito del termine usato per definire il possibile soggetto di una nuova internazionale: popolo. Curiosamente, per individuare qualcosa di là da venire, viene adoperata una parola che arriva da un passato abbastanza lontano. Popolo come soggettività politica, in senso moderno, è concetto antico almeno come la Rivoluzione Francese.

Credo che il problema non sia solo di Emilio. Michael Hardt e Toni Negri, quando vogliono indicare l’antagonista dell’Impero, parlano di Moltitudine, una singolarità prodotta dalla cooperazione fra gruppi e individui. Nel 2011, al tempo di Occupy Wall Street, David Graeber si inventò lo slogan “We are the 99%” per dare un nome all’avversario del Capitale Finanziario responsabile della Recessione del 2008. Mi sembra che in tutti e tre i casi ci sia un evidente sforzo di individuare una soggettività che trascenda i limiti storici e culturali della classe. Forse però, il fatto che siano in circolazione tanti termini diversi dice che non sono le parole il problema, ma la cosa; si sente che una nuova soggettività deve esserci, ma quale essa sia, questo sfugge ancora. Manca un evento come il Quarantotto parigino. Marx scommette sul proletariato quando con Engels pubblica Il Manifesto nel febbraio del 1848. Che il termine avesse un mucchio di senso per definire una soggettività politica rivoluzionaria lo confermano prima la rivoluzione che pochi giorni dopo scoppia a Parigi e soprattutto, di lì a quattro mesi, l’insurrezione di giugno e le bandiere rosse che sventolano nei quartieri operai in rivolta. Come ha scritto Tronti, in quelle giornate “il proletariato occupava di colpo il centro della Storia come partito indipendente”. Rimane aperta la discussione se Marx ci avesse acchiappato o avesse avuto una fortuna sfacciata.

Dentro a questo quadro di incertezza, inevitabile nel tempo complicato in cui viviamo, Emilio rimane testardamente coerente nella sua ricerca della rottura. Come il Lenin che ci ha raccontato lungo più di un secolo di storia, Emilio non è uno che sta a guardare il corso inevitabile degli eventi: è sempre lì a cercare la contraddizione su cui far leva per lanciare il partito dell’insurrezione.

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