di TONI NEGRI.
Ragioniamo su quanto avvenuto in queste ultime tre settimane in Francia. Si può chiamare insurrezione? Dipende da come s’intende la parola insurrezione – certo, comunque la si intenda, qualcosa del genere c’è stato. E probabilmente continua. E non son tanto, a mostrarlo, i violentissimi scontri che ormai da due sabati si verificano nella metropoli parigina. Non sono le barricate, gli incendi di automobili sulle strade del centro parigino a mostrarlo e neppure le jacqueries che qua e là si hanno in Francia e i blocchi stradali che si distendono ovunque. Lo dicono quei due terzi di francesi che approvano il movimento generale che l’aumento del prezzo della benzina ha determinato. E questa approvazione va molto al di là dell’eventuale condanna dei disordini accaduti. Interessanti sono a questo proposito gli accenni di insubordinazione che animano gli stessi comportamenti dei pompieri e dei corpi di polizia.
Certamente, c’è ormai in Francia una moltitudine che insorge violentemente contro la nuova miseria che le riforme neoliberali hanno determinato. Che protesta per la riduzione della forza-lavoro al precariato e per la costrizione della vita civile nell’insufficienza dei servizi sociali pubblici, per la bieca tassazione di ogni servizio del welfare, per i giganteschi tagli alle finanze dei governi municipali ed ora, sempre di più, per gli effetti (che si cominciano a misurare) della Loi Travail, e si preoccupa per gli attacchi prossimi al regime di pensionamento ed al finanziamento dell’educazione nazionale (università e scuole secondarie). C’è in Francia, dunque, qualcosa che insorge violentemente contro la miseria e fa seguire a questo un “Macron, démission!” – un attacco cioè alle scelte del banchiere Macron a favore delle classi dominanti. Gli obiettivi dell’insurrezione sono Macron e le tasse. Non è un movimento sociale tradizionale, quello che si è composto attorno a queste parole d’ordine – non lo è, almeno, nella forma novecentesca, dove un movimento presenta degli obiettivi che le istituzioni dello Stato assumono o rifiutano dopo che sono stati mediati da corpi sociali intermedi. Questo è un movimento moltitudinario che non vuole intermediazioni, che è espressione dell’enorme sofferenza sociale fin qui accumulata.
C’è qualcosa che colpisce soprattutto in questo movimento e che lo rende diverso dalle lotte più dure che la Francia abbia conosciuto negli ultimi anni, per esempio dalla lotta del 2005 dei cittadini delle banlieues. Quella era una lotta che aveva il segno di una liberazione, questa del 2018 ha una faccia disperata. E non parliamo del ’68. Nel ’68, il movimento degli studenti si impiantava su un continuum di lotte operaie. Il ’68 è 10 milioni di operai industriali in sciopero, è una tormenta che si dà sul punto più alto dello sviluppo e della ricostruzione post-bellica. Qui, oggi, la situazione è chiusa. A me, piccolo interprete di grandi movimenti, ricorda la rivolta nelle prigioni più che la gioia del sabotaggio dell’operaio massa. In ogni caso, si tratta di un movimento artificiale, contraddittorio, con diversità territoriali, generazionali, di classe, e chi più ha più ne metta; è unificato dal rifiuto di trattare, di mettersi in gioco dentro le strutture politiche esistenti. È senza dubbio un’insurrezione e per il momento è indecifrabile il suo sviluppo.
Davanti a sé questo movimento ha un governo che non vuole cedere, che non può cedere. È fuori dubbio che Macron stia muovendosi in una situazione chiusa. A fronte di una crisi economica che non riesce a bloccare, aveva puntato su un’alleanza egemonica europea con la Merkel, su una direzione “a due” del processo di unificazione europea, pensando di scaricare su quest’alleanza i costi di una ristrutturazione e di una definitiva uscita francese da una “minorità” economica – difficilmente commisurabile all’orgoglio nazionale e coloniale ancora vivo. Ma questa ipotesi è saltata, comunque è fortemente indebolita. Stiamo rientrando in recessione? Macron e i suoi sanno che è possibile. Sanno comunque che la Merkel ha finito il suo ciclo e che l’ipotesi di partenza del riassetto generale della forma-Stato in Francia è bloccata. Le regole dell’Unione europea le faranno sempre di più i banchieri del nord Europa e la determinazione dell’equilibrio si sta spostando in quelle regioni. Ci sarebbero state e ci sono un paio di possibilità per Macron di uscire dall’impasse nella quale si è messo. Sono soluzioni proposte attorno ad un cambiamento di rotta: per esempio, la reintroduzione dell’ISF (imposta di solidarietà sulle fortune) e cioè la ripresa dell’imposta progressiva sui redditi mobiliari, e l’annullamento della CSG (contribuzione sociale generalizzata) che toglie anche ai salari più bassi quote monetarie… per aiutare poveri! (ad esempio 50 euro su pensioni di 500 euro!) – oltre naturalmente all’abolizione degli aumenti del prezzo del carburante presenti e futuri (in particolare si attendono aumenti di tutte le tariffe dei servizi – elettricità, gas, telefono e probabilmente tasse universitarie – per l’inizio dell’anno prossimo). Non sono possibilità che Macron possa attuare senza rompere con il blocco di potere che lo sostiene. Possono allora esserci soluzioni drastiche come l’instaurazione dell’état d’urgence o la dissoluzione dell’Assemblea nazionale. Si cominciano ad orecchiare voci in proposito…
Ma il blocco per l’azione di Macron è altrove. Di fatto, egli ha distrutto ogni corpo intermedio, ogni rapporto diretto con la cittadinanza e gli è difficile ristabilire qualsiasi rapporto. Basterebbe dunque poco, se non per bloccare il movimento con qualche proposta opportunista e demagogica, almeno per attenuarne l’indignazione (che non è forza sottovalutabile): basterebbe, come si è detto, ritornare sulla tassa contro le grandi fortune e recuperare quei quattro miliardi concessi ai padroni dei padroni per ridistribuirli, in luogo dell’imposizione della tassa carburante. Ma non sta a noi dar consigli a Macron. Fonti autorevoli insistono, come si diceva, su una manovra legale: état d’urgence per bloccare le lotte, accompagnati da “stati generali della fiscalità”. Si ammette così che solo la forza può bloccare le lotte, e che solo un’apertura a riforme fiscali a favore della moltitudine, può impedirne la ripresa. Ma è appunto questa soluzione ad essere impossibile.
Abbiamo già detto della mancanza di intermediazione sociale creata (e voluta) dal governo Macron. Gli corrisponde, in vitro, come in uno specchio, il comportamento dei gilets jaunes: anch’essi rifiutano la rappresentanza e l’intermediazione, la destra e la sinistra, come terreno sul quale arrivare ad una mediazione del conflitto. Lo dimostrano le difficoltà che hanno i partiti di opposizione ad inserirsi in questo gioco. La destra, come noto, pretende di esser fortemente presente in questo movimento. Ma questo può esser vero per quanto riguarda alcune frazioni estremiste, è molto meno vero per quanto riguarda il grande partito della Le Pen. Anche da sinistra si tenta di avvicinare il movimento, purtroppo nei soliti vecchi termini di strumentalizzazione. Anche in Francia vive l’idiota immaginazione che si possano “usare” movimenti di questo genere, utilizzandoli nella lotta contro un governo di destra. È l’ininterrotto sogno di servirsi del Pope Gapon! Ma questo non è mai successo nella storia del movimento operaio, ovvero, quando è accaduto, è stato perché l’organizzazione militante della classe operaia aveva investito la spontaneità e l’aveva trasformata in organizzazione. È forse questo il caso odierno? Quando son solo piccoli gruppi di sinistra che si organizzano negli scontri metropolitani e quando la CGT, completamente estranea a questi movimenti, pateticamente insiste su un rialzo della massa salariale? Ultima riflessione a questo proposito: è possibile la nascita di un movimento come i 5 Stelle in questa situazione? È possibile, è probabile anzi che si facciano da subito tentativi in proposito – non è detto che riescano. Ma di questo avremo tempo di parlare. Ogni soluzione è difficile laddove (come già avvenuto nel laboratorio Italia) destra e sinistra si sono sfasciate attorno ad un “estremismo di centro” mascherato in termini più o meno tecnocratici o “benevolenti”.
E allora? Attendiamo di vedere che cosa succederà. Se vi sarà un quarto sabato di lotta indetto dai gilets jaunes. Ma è chiaro che la riflessione dev’essere portata avanti. Permettetemi un’ingenua domanda: come può una moltitudine, caratterizzata dentro movimenti insurrezionali, esser tolta ad una deriva di destra e trasformata in classe, in potenza di trasformazione dei rapporti sociali? Una prima riflessione: se non è trasformata in organizzazione, questa moltitudine è neutralizzata dal sistema politico, diviene impotente. Altrettanto vale per la sua riduzione a destra e, comunque, a sinistra: è solo nella sua indipendenza che questa moltitudine può funzionare. E allora una seconda riflessione: quando si dice organizzazione, non si intende organizzazione partitica – come se solo lo Stato dei partiti potesse dare organizzazione alla moltitudine. Una moltitudine autonoma può funzionare come contro-potere e cioè come prospettiva pesante e lunga nel costringere il “governo del capitale” a concedere nuovi spazi e nuovo denaro per il benessere della società. La struttura organizzativa prevista dalla “costituzione dei partiti”, democratico-americana, ormai difficilmente regge alla sua incorporazione nelle politiche neoliberali. E se, d’altra parte, non c’è più la possibilità di portare la moltitudine al potere, vi è tuttavia la possibilità di tenere sistematicamente aperto un movimento insurrezionale. Una volta questa situazione era chiamata di “doppio potere”: potere contro potere. I fatti francesi mostrano una sola cosa: che non è più possibile chiudere questo rapporto, che la situazione di “doppio potere” starà in piedi, sarà a lungo presente in maniera espressa, palese, come sta succedendo oggi, o in maniera latente. L’attività dei militanti sarà dunque quella di costruire nuove solidarietà attorno a nuovi obiettivi che nutrano il “contro-potere”. È solo così che la moltitudine può diventare classe.
Preistoria
Che cosa succede in Francia? C’è una rivolta di uno strano popolo che in un primo sabato (17 novembre) blocca gli incroci e le rotonde delle strade dipartimentali, gli ingressi delle autostrade, e che si presenta al secondo sabato (24 novembre), assai combattiva, sugli Champs Elysées parigini, elevando barricate e chiedendo di incontrare il Presidente della Repubblica. In un terzo sabato (1 dicembre) i manifestanti investono i quartieri ricchi della metropoli, scontrandosi furiosamente con la polizia, svaligiando boutiques e ristoranti… È una cosa seria? Da dove arriva? Perché Macron non riesce a chiudere questa vertenza che si sta sempre più allargando di sabato in sabato? Ci sarà un quarto sabato?
I gilets jaunes son cominciati rispondendo con un milione di firme ad un invito ad agire contro l’aumento del prezzo del carburante, lanciato sui social. Al milione di firme son seguite 250.000 persone che hanno indossato i gilets jaunes, il primo sabato di lotta. Si tratta di una moltitudine in movimento: sono soggetti connessi orizzontalmente; provengono soprattutto dai settori meno modernizzati del paese, dalle zone periurbane o dal largo centro geografico (ed economicamente periferico) della Francia. Si tratta di classe media impoverita, legata ad organizzazioni produttive tradizionali, recentemente dinamizzate dalle riforme neoliberali e tuttavia meno valorizzanti di quelle dei settori dei servizi urbani e della produzione “cognitiva”.
Si diceva che l’agitazione è cominciata dalla rivendicazione di un abbassamento del prezzo del carburante, recentemente imposta da Macron ed ipocritamente legata alla spesa necessaria per rispondere ai mutamenti climatici. Quella rivendicazione si è subito allargata da un lato alla richiesta di un abbassamento generale delle tassazioni sul lavoro e sulla circolazione, alla richiesta di un aumento del potere di acquisto a fronte dell’aumento del costo della vita, ad una protesta contro l’ingiustizia fiscale ed in particolare contro l’eliminazione da parte di Macron delle tasse sulla grande ricchezza. “Macron banchiere, Macron dimissioni!” Ceto medio impoverito, dunque, periferico rispetto alla metropoli, e abitante nella Francia centrale, nei grandi spazi che questa presenta e nelle piccole città. Gente che lascia allo Stato due terzi del salario, tra mutuo della casa, imposte dirette, spese dei servizi pubblici e… prezzo del carburante. Perché l’automobile è il mezzo di lavoro principale per andare al lavoro, su un territorio dove i mezzi pubblici di comunicazione sono insufficienti, o per lavorare in servizi di alta mobilità (artigianali, infermieristici, di trasporto, ecc.). Il governo non solo ti mette le tasse sul “mezzo di lavoro” ma ti prende in ostaggio dicendoci che si tratta di pagare per un dovere civico: la difesa della vita nel mutamento ecologico. La risposta: “Macron ci parla della fine del mondo, il nostro problema è la fine del mese!” Basterà il congelamento delle misure fiscali, tra cui la tassa sul carburante, annunciato questo pomeriggio dal primo ministro Édouard Philippe a disinnescare questa miccia accesa o arrestare l’incendio?
Il movimento è interessante da analizzare. Nei blocchi stradali che presto si sono estesi alle grandi superfici di distribuzione nelle zone periferiche del paese, il movimento si presenta coeso e con aspetti localmente “parrocchiali” (vale a dire con organizzazione locale coesa). Quando invece investe la metropoli, si tratta di una vera e propria moltitudine, orizzontale, colorata e… incendiaria. Un movimento comunque “senza testa” (lo dicono gli avversari), vale a dire senza dirigenti, che si dichiara “né di destra né di sinistra”, che polemizza con la rappresentanza politica che considera in sé corrotta, e soprattutto si definisce anti-Macron. Strana conversione di grandi strati di popolazione che, in poco tempo, sono passati dall’elezione populista e centrista di Macron (che era riuscita a fare il vuoto dei partiti e delle opposte ideologie) ad una simmetrica protesta nei suoi confronti – effetto “specchio” populista.
Infiltrazioni di destra? È possibile. Bisogna sempre ricordare che in Francia movimenti analoghi hanno avuto a destra la loro primavera, come per esempio il poujadismo negli anni ’50. Ma non si deve esagerare – anche se è certo che gruppi estremisti di destra si muovono agevolmente nelle manifestazioni. Contatti con la sinistra? Non palesi al momento, anche se gli insoumis di Mélenchon hanno tentato l’intervento e la CGT ha ora aperto un contenzioso con il governo sulla massa salariale. Tuttavia, non sembra, al momento, che qualsiasi iniziativa di sinistra abbia la capacità di inserirsi e/o di dirigere il movimento. Inutile ripetere che in Francia il movimento anti-fiscale ha sempre avuto caratteristiche piuttosto di destra che di sinistra: il problema non è questo. È piuttosto che il ras-le-bol generale che è manifestato da questo movimento e dalla virtuale convergenza di lotte – anti-fiscali, ma anche attorno al welfare ospedaliero, al tema delle pensioni: problemi tutti aperti – e che comincia a configurarsi, scuote il paese dal basso all’alto (tra il 60 e l’80 % circa è favorevole ai gilets jaunes). Si noti bene che la convergenza delle lotte era stata ampiamente richiesta e cercata dai sindacati nei due lunghi periodi di lotta, prima sulla Loi Travail e poi attorno alla vertenza dei ferrovieri. Non era avvenuta. Si determinerà ora a destra? Non credo che questo sia ora il problema. La risposta comincerà ad apparire dopo il “quarto sabato”.
Segnaliamo l’intervista a Toni Negri per l’Huffpost, disponibile qui