di EURONOMADE.

 

Trasformare il #Greferendum in rottura democratica e costituente per l’Europa.

La settimana che oggi si apre sarà decisiva, non solo per definire i rapporti tra la Grecia e l’Unione Europea, a partire dalla sua permanenza e a quali condizioni nello spazio monetario dell’Eurozona, ma anche e soprattutto per decidere il destino dello spazio politico europeo da qui in avanti.

Nella notte tra venerdì 26 e sabato 27 giugno è infatti svanita l’illusione – coltivata da quelle che oggi vengono eufemisticamente definite come le “Istituzioni Europee”, più prosaicamente “i creditori”, più precisamente ancora la Troika composta da Commissione, Banca Centrale e Fondo Monetario Internazionale – di poter ridurre a “miti consigli” l’attuale governo greco, costringendolo ad accettare il pacchetto di misure da essi proposto – il “generoso” programma che Wolfgang Münchau ha definito sul Financial Times “una versione economica dell’inferno dantesco”.

oxiE mai come ora è indispensabile riuscire a squarciare il velo d’ignoranza con cui i media mainstream coprono la “crisi greca”: la chiamata alle armi della propaganda nutre con odioso razzismo culturale e antropologico, a volte sottile, più spesso grezzamente volgare, la menzogna per cui la materia del contendere starebbe in “impegni da rispettare”, “debiti da onorare”, “pari trattamento” rispetto agli altri popoli d’Europa che andrebbe infine imposto ai riottosi (e, a seconda delle versioni, “pigri” e/o “infidi”) greci.

Il gioco delle cifre, snocciolate ad uso e consumo della propaganda stessa e peraltro puntualmente ricostruite nella loro realtà dall’ultimo prezioso Rapporto della Commissione per la verità sul debito greco, serve a nascondere la natura prettamente e integralmente politica dello scontro in atto. Del resto, al di fuori delle tecnocrazie di Bruxelles e dei governi europei, non vi è alcun dubbio né sulla necessità di una radicale ristrutturazione del debito greco né sul fallimento dell’austerity negli ultimi cinque anni.

La posta dei negoziati della scorsa settimana e, come emerso in ultima analisi, di ogni atteggiamento tenuto dai “creditori” nel corso degli ultimi quattro mesi, era ed è la necessità di piegare ai propri diktat il governo greco espressione della vittoria elettorale di Syriza, o di lavorare affinché il fallimento delle trattative si traducesse in una sua sconfitta politica e nella sua sostituzione con nuove, diverse e più compatibili maggioranze parlamentari.

Non vi era infatti alcuna distanza incolmabile con le ultime proposte formulate da Atene in materia di graduale innalzamento dell’età pensionabile e di incremento dell’imposizione fiscale indiretta. Ma ciò che risultava inaccettabile per i negoziatori dell’Eurogruppo e del FMI erano le misure fiscali che andavano a colpire i patrimoni più consistenti, i profitti e le rendite, finanziando così sia il raggiungimento dei saldi indicati dalle “Istituzioni”, sia le politiche ridistributive delineate dal programma di Salonicco e tradottesi nei primi interventi “umanitari”, approvati dal Parlamento di Atene e implementati fin dalla scorsa settimana, a partire dal riallaccio delle utenze di acqua ed energia elettrica e dagli aiuti al reddito per oltre trecentomila famiglie drammaticamente impoverite dalla crisi.

E il carattere quasi “ideologico” delle rigidità negoziali è limpidamente leggibile nel ruolo svolto, a fianco del FMI, dai governi conservatori e ultra-liberisti del Sud e del Nord Europa, ai cui occhi sono apparsi intangibili i pilastri delle politiche di austerity imposte negli ultimi sei anni, anche e soprattutto nei loro singoli contesti nazionali nei termini di un attacco strutturale al reddito, diretto e indiretto, della precarizzazione e dell’impoverimento di massa in settori crescenti della composizione sociale.

L’irrigidimento dei governi membri del Consiglio ha essenzialmente a che fare con lo sguardo da essi rivolto sia allo sviluppo delle lotte sociali, sia alle prossime scadenze elettorali in Spagna, come potenzialmente in Portogallo, Irlanda e altrove ancora. Se l’esito del negoziato fosse stato, anche minimamente, interpretabile come un successo del governo di Atene, sarebbe stato l’intero palco a cadere: sarebbe stato posto finalmente in questione il dogma per cui non vi è vita possibile fuori dalla cornice di quell’austerity che si è fatta dispositivo biopolitico di permanente regolazione dell’organizzazione sociale dello sfruttamento. E si sarebbe, negli incubi in particolare dei governanti spagnoli e di tutti gli oligarchi d’Europa, aperta la strada alla vittoria di Podemos e delle forze con essa coalizzate nelle elezioni generali dell’autunno prossimo.

Ma proprio nel momento in cui il governo Tsipras appariva con le spalle al muro, costretto all’inevitabile capitolazione, è intervenuta quella “mossa del cavallo” capace di spiazzare completamente gli avversari e di rilanciare in avanti la partita, svelando proprio i termini tutti politici dello scontro in atto.

Il quesito del referendum, e anche in questo caso è necessario impegnarsi per squarciare il velo della propaganda, non riguarda affatto la scelta sull’appartenenza o meno all’Eurozona, sul mantenimento della moneta unica o il ritorno alla valuta nazionale, ma precisamente la decisione sull’accettazione o meno delle insostenibili e umilianti proposte formulate dai “creditori”. Ovvero la possibilità di una decisione politica, dal basso, radicalmente democratica, sull’esistenza di un’alternativa.

Allo stesso modo dev’essere letto il coraggio con cui da domenica sera è stato affrontato il ricatto terroristico formulato dall’Eurogruppo, e nei fatti avallato dalla BCE col contenimento degli interventi a favore della liquidità del sistema creditizio greco (ELA): la decisione di introdurre il controllo politico sui movimenti di capitale, tradottasi nella contemporanea chiusura della Borsa di Atene e degli sportelli bancari in tutto il Paese, garantendo comunque il pagamento di salari e pensioni, esprime la determinazione a contendere ai “creditori” il terreno della paura.

È infatti intorno a questo sentimento politico originario, alla sua produzione e diffusione, e – all’opposto – al suo rifiuto e alla capacità di rovesciarlo nel campo nemico, che si gioca buona parte dell’azzardo su cui ha scommesso la leadership di Syriza e con essa le più significative reti di movimento in Grecia. Prevarrà la propaganda che, descrivendo un panico virale che per il momento si diffonde solo nei desideri delle oligarchie politiche d’Europa, minaccia per milioni di greci (e di conseguenza per tutti gli sfruttati del Continente) un destino ancora più incerto e miserevole dell’attuale realtà sociale? O vincerà chi sta provando a giocare sul terrore, che si è diffuso fin dalla mattina di lunedì sui mercati finanziari globali, di doversi confrontare con un imprevisto soggettivo elemento politico di instabilità che rischia di incrinare i precari equilibri fin qui raggiunti nella gestione capitalistica della crisi?

Non possiamo prevedere come andrà a finire. Siamo ben avvertiti dello squilibrio e della durezza dei rapporti di forza. Siamo consapevoli che lo stesso esito della consultazione referendaria di domenica 5 luglio è molto incerto. Così come molteplici sono gli scenari che possono aprirsi al suo indomani. Ma una cosa la sappiamo di sicuro: la partita che si sta giocando intorno alle urne del dimopsifisma greco ci riguarda tutti. È una, la prima delle “porte strette” attraverso cui deve passare quella rottura costituente che, per lo spazio politico europeo, stiamo da tempo invocando e indagando. La sfida che riguarda tutte e tutti in Europa, quante e quanti militano nei movimenti sociali, nelle organizzazioni sindacali, in formazioni politiche di vecchio e nuovo conio, sta nel trasformare la consultazione del 5 luglio in un “referendum europeo”, in un pronunciamento di massa per l’alternativa democratica al regime della crisi e dell’austerity. “È tempo che la paura passi dall’altra parte” si leggeva su uno striscione che aprivano la manifestazione di Blockupy a Francoforte lo scorso 18 marzo. Proviamoci.

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