Di DONNA HARAWAY

Il saggio Anthropocene, Capitalocene, Plantationocene, Chthulucene: Making Kin (in “Environmental Humanities”, n. 6, 2015, pp. 159–165), che pubblichiamo nella traduzione di Roberta Pompili (una precedente traduzione di Nina Ferrante sulla pagina facebook del Centro Studi Post-coloniali e di Genere Technoculture Research Unit è qui), è all’origine di un percorso che ha portato Donna Haraway al recente Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (qui la recensione di Chthulucene e di Le promesse dei mostri ad opera di Benedetto Vecchi), alle soglie della crisi pandemica del 2020. Non è difficile vedere i legami tentacolari tanto con la precedente riflessione della filosofa, quanto con i suoi ultimi esiti, che sono ancora in progress. Bastava questo incipit di Le promesse dei mostri del 1992 a confermarlo: «La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune». È proprio rispetto a questo luogo comune che Haraway cerca di andar oltre il falso dualismo fra Antropocene e Capitalocene (meglio: fra le letture, parziali, di entrambi i concetti come destino irreversibile) e di porsi un duplice compito: rispondere al vecchio, ma sempre evergreen interrogativo comunista sul “Che fare”, e creare nuovi concetti, cioè nuove connesioni fra cose, parole e pratiche, che dicano questo “che fare” nel suo farsi. Make kin, not kind: creare parentele, non bambini, dice Haraway; concatenazioni, direbbero Deleuze e Guattari; alleanze, direbbe Butler. Forse non è solo, o è più di, un passo, ma: facciamolo [G.D.M.].

Non c’è dubbio che i processi antropogenici abbiano avuto effetti planetari, nell’inter/infra-azione con altri processi e altre specie, fin da quando la nostra specie può essere identificata come tale (alcune decine di migliaia di anni fa); e da quando l’agricoltura si è diffusa enormemente (alcune migliaia di anni fa). Certamente, fin dall’inizio i più grandi trasformatori planetari (e riformatori) di tutti sono stati e sono tuttora i batteri e i loro parenti anche nella loro inter/intra-azione che coinvolge una miriade di tipologie di specie (incluso gli umani e le loro pratiche, tecnologiche e non)[1]. La diffusione di piante attraverso la dispersione di semi è avvenuta milioni di anni prima che l’agricoltura umana si imponesse come uno sviluppo che cambiava il pianeta, così come molti altri eventi storici dello sviluppo ecologico evolutivo rivoluzionario.

Le persone si unirono alla tracotante battaglia presto e dinamicamente, anche prima di diventare le creature che in seguito furono chiamate Homo sapiens. Ma penso che le denominazione di Antropocene, Plantationocene o al Capitalocene abbiano a che fare con questioni relative alla scala, al ritmo/velocità, sincronicità e complessità. La domanda costante quando si considerano i fenomeni sistemici deve essere: quando i cambiamenti di livello diventano cambiamenti in natura, e quali sono gli effetti  bioculturali, biotecnologici, biopolitici,  che incidono sulle persone, storicamente situate (non l’uomo) e combinate con gli effetti di assemblaggi di altre specie e altre forze biotiche/abiotiche? Nessuna specie, nemmeno la nostra arrogante che nei cosiddetti copioni occidentali finge di essere composta da buoni individui, agisce da sola; sono gli assemblaggi di specie organiche e attori abiotici che fanno la storia, le tipologie evolutive e anche le altre tipologie.

Ma esiste un punto critico che come conseguenza cambia il nome del “gioco” della vita sulla terra per tutti e per tutto? È più che un cambiamento climatico; sono anche i carichi straordinari di chimica tossica, di estrazione mineraria, di esaurimento di laghi e fiumi sotterranei e sotterranei, di semplificazione dell’ecosistema, vasti genocidi di persone e altre creature, ecc. ecc., in schemi sistematicamente collegati tra loro che minacciano il collasso del sistema, e ancora dopo il collasso del sistema e ancora dopo il collasso del sistema. La ricorsività può essere una resistenza.

Anna Tsing in un recente articolo intitolato “Biologie selvatiche” suggerisce che il punto di flesso tra l’Olocene e l’Antropocene potrebbe essere la spazzatura di gran parte dei refugia da cui è possibile ricostituire diversi insiemi di specie (con o senza persone) dopo eventi importanti (come la desertificazione, o il disboscamento, etc…).[2] Questi argomenti si legano con quelli del Word-Ecology Researcher Network coordinato da Jason Moore secondo cui lo sfruttamento della natura è finito; la natura a basso costo non può funzionare molto più a lungo per sostenere l’estrazione e la produzione nel e del mondo contemporaneo perché la maggior parte delle riserve della terra sono state prosciugate, bruciate, esaurite, avvelenate, sterminate e altrimenti esaurite[3]. Vasti investimenti e tecnologie estremamente creative e distruttive possono dilazionare la resa dei conti, ma la natura economica è davvero finita. Anna Tsing sostiene che l’Olocene fu il lungo periodo in cui i refugia, i luoghi di rifugio, esistevano ancora,  abbondavano persino, per sostenere la riproduzione del mondo [rewordling] nella ricca diversità culturale e biologica. Forse lo sdegno che merita un nome come Antropocene riguarda la distruzione di luoghi e tempi di rifugio per persone e altre creature. Insieme ad altri, penso che l’Antropocene sia più un evento limite che un’epoca, come il confine K-Pg tra il Cretaceo e il Paleogene[4]. L’Antropocene segna una grave discontinuità; ciò che verrà dopo non sarà come ciò che è accaduto prima. Penso che il nostro compito sia quello di rendere l’Antropocene il più breve/sottile possibile e di coltivare l’uno con l’altro in ogni modo in cui possano arrivare epoche immaginabili in grado di ricostruire il rifugio.

In questo momento, la terra è piena di rifugiati, umani e non, senza rifugio.

Quindi, penso che sia usato un nuovo nome, in realtà più di un nome. Pertanto, Anthropocene, Plantationocene[5], e Capitalocene (il termine di Andreas Malm e Jason Moore prima che fosse il mio)[6]. Insisto anche sul fatto che abbiamo bisogno di un nome per le dinamiche e poteri in corso e di cui le persone fanno parte, all’interno delle quali la posta in gioco è la continuità. Forse, ma solo forse, e solo con intenso impegno e lavoro collaborativo e giochi con altri viventi terrestri, sarà possibile una rinascita di ricchi assemblaggi multispecie che includano persone. Chiamo tutto questo il Chululucene: passato, presente e futuro[7]. Questi tempi reali e possibili non prendono il nome dallo scrittore di fantascienza H.P., il mostro misogino dell’incubo razziale di Lovecraft Cthulhu (notate la differenza di ortografia), piuttosto dai diversi poteri e forze tentacolari e assemblaggi [collected things] diffuse su tutta la terra che raccolse con nomi come Naga, Gaia, Tangaroa (sprizzato da papà-pieno-di-acqua), Terra, Haniyasu-hime, Spider Woman, Pachamama, Oya, Gorgo, Raven, A’akuluujjusi e molti altri ancora. Il “mio” Chululucene, anche se gravato dai problematici viticci della sua origine greca, avviluppa una miriade di temporalità e spazialità e una miriade di entità intra-attive – assemblaggi – tra cui il più che umano, altro da umano, disumano e umano-in-quanto-humus. Perfino quando sono resi in lingua inglese come in questo testo, Naga, Gaia, Tangaroa, Medusa, Spider Woman e tutti i loro parenti sono alcuni dei tanti nomi propri di una vena di fantascienza che Lovecraft non avrebbe potuto immaginare o abbracciare – vale a dire, le ragnatele della fabulazione speculativa, del femminismo speculativo, della fantascienza e dei fatti scientifici [8]. È importante quali storie raccontano storie, quali concetti pensano concetti. Matematicamente, visivamente e narrativamente, sono importanti quali figure figurate, quali sistemi che sistematizzano sistemi.

Tutte le migliaia di nomi sono al tempo stesso troppo grandi e troppo piccoli: tutte le storie sono troppo grandi e troppo piccole. Come Jim Clifford mi ha insegnato, abbiamo bisogno di storie (e teorie) che siano abbastanza grandi da raccogliere le complessità e mantenere i bordi aperti e avidi di sorprendenti connessioni vecchie e nuove.[9]

Un modo di vivere e morire bene come creature mortali nel Chululucene è unire le forze per ricostituire i rifugi, per rendere possibile il parziale e robusto recupero e ricomposizione tecnologica biologico-culturale-politica e tecnologica, che deve includere il lutto per le perdite irreversibili. Thom van Dooren e Vinciane Despret me lo hanno insegnato[10]: ci sono già così tante perdite e ce ne saranno molte altre. La rinnovata fioritura generativa non può scaturire da miti di immortalità, o mancare il proprio compito finendo nella morte e nell’estinzione. C’è molto lavoro per Speaker for the Dead di Orson Scott Card[11]. E ancora di più per il mondo di Ursula LeGuin in Always Coming Home.

Io sono compostata, non postumanizzata: siamo tutti compost, non postumani. Il confine che è l’Antropocene/Capitalocene significa molte cose, tra cui che l’immensa irreversibile distruzione è davvero in preparazione, non solo per gli 11 miliardi di persone circa che saranno sulla terra verso la fine del XXI secolo, ma anche per miriadi di altre creature. (Il numero incomprensibile ma sobrio di circa 11 miliardi è plausibile solo se gli attuali tassi di natalità in tutto il mondo dei bambini umani rimarranno bassi: se torneranno a crescere, andrà tutto storto) Il limite dell’estinzione non è solo una metafora, il collasso del sistema non è un thriller: vai a chiederlo a qualsiasi rifugiato di qualsiasi specie.

Il Chululucene ha bisogno di almeno uno slogan (ovviamente, più di uno); continuando a gridare “Cyborgs for Earthly Survival“, “Corri veloce, mordi forte” e “Zitto e allenati”, propongo “Fate parentele, non bambini!” [Make Kin Not Babies!] Fare parentele è forse la parte più difficile e urgente. Le femministe del nostro tempo sono state leader nel svelare la presunta naturale necessità di legami tra sesso e genere, razza e sesso, razza e nazione, classe e razza, genere e morfologia, sesso e riproduzione, riproduzione e composizione delle persone (i nostri debiti qui sono dovuto in particolare ai melanesiani, in alleanza con Marilyn Strathern e la sua parentela etnografica)[12]. Se ci deve essere un’ecogiustizia multispecie, che possa anche abbracciare diverse persone umane, è giunto il momento che le femministe esercitino la leadership nell’immaginazione, nella teoria e nell’azione per svelare i legami di genealogia e parentela, parenti e specie. Batteri e funghi abbondano per darci metafore: ma, a parte le metafore (buona fortuna!), abbiamo un lavoro da mammiferi da fare, con i nostri collaboratori e co-operatori sim-poietici [sym-poietic] biotici e abiotici. Dobbiamo rendere i parenti sim-chthonicamente, sim-poeticamente. Chi siamo e qualunque cosa siamo, dobbiamo farcela – diventare-con, com-porre – con la terra (grazie per questo termine, Bruno Latour in modalità anglofona)[13].

Noi, che siamo persone umane dovunque, dobbiamo occuparci di urgenze intense e sistemiche; eppure, finora, come ha scritto Kim Stanley Robinson nel 2312, viviamo in tempi di The Dithering (in questo racconto di SF, che dura dal 2005 al 2060 – forse troppo ottimista?) in altri termini uno “stato di agitazione indecisa”.[14] Forse il Dithering è un nome più appropriato di Anthropocene o Capitalocene! Il Dithering sarà scritto negli strati rocciosi della terra, infatti già è scritto negli strati mineralizzati della terra. I sym-chthonici non si nascondono, si compongono e si decompongono: pratiche pericolose e promettenti. Per non dire altro, l’egemonia umana non è un affare sin-chthonico. Come dicono gli artisti ecosessuali Beth Stephens e Annie Sprinkle, il compostaggio è così caldo!

Il mio scopo è fare in modo che  le”parentele” significhino qualcosa di diverso/di più delle entità legate da origini o genealogia. La delicata defamiliarizzazione potrebbe sembrare per un po’ di tempo solo un errore, ma potrebbe (con un po’ di fortuna) essere, sul lungo periodo, la mossa giusta. Produrre parentele è fare persone, non necessariamente come individui o esseri umani. Ai tempi del college la battuta di Shakespeare su parenti e gentilezza [“A little more than kin, and less than kind[15]] mi aveva commossa: la gentilezza non era necessariamente legata ai parenti in quanto familiari; fare parenti e fare bambini (come categoria di cura, parenti senza legami per nascita, parenti laterali, e molto altro) allunga l’immaginazione e può cambiare la storia. Marilyn Strathern mi ha insegnato che il termine parenti [relatives] in inglese britannico significava originariamente “relazioni logiche” [logical relations], e ha acquisito il significato di “membri della famiglia” solo nel XVII secolo: questo è sicuramente tra i fattoidi che amo.[16] Esci dalla lingua inglese, e il selvaggio si moltiplicherà!

Penso che l’allungamento e la ricomposizione delle parentele siano consentiti dal fatto che tutti i terrestri sono parenti nel senso più profondo, ed è arrivato il momento di praticare una migliore cura dei bambini-come-assemblaggi (non delle specie una alla volta). “Parentela” è una specie di parola assemblata. Tutte le creature condividono una comune “carne”, lateralmente, semioticamente e genealogicamente. Gli antenati possono essere degli stranieri molto interessanti; i parenti possono essere estranei (al di fuori di quanto pensassimo fosse la famiglia o le gens), inquietanti, ossessionanti, attivi[17].

È troppo per un piccolo slogan, lo so! Eppure, provateci. A distanza di circa duecento anni, forse gli esseri umani di questo pianeta possono essere di nuovo numerati due o tre miliardi o giù di lì, mentre nel loro percorso contribuiscono al crescente benessere di diversi esseri umani e altre creature come mezzi, e non solo come fini. Quindi, fare parentele, non bambini! È importante che le parentele generino parentele[18].

(Traduzione di Roberta Pompili)

Copyright: © Haraway 2015. This is an open access article distributed under the terms of a Creative Commons License (CC BY-NC-ND 3.0). This license permits use and distribution of the article for non-commercial purposes, provided the original work is cited and is not altered or transformed.

Bibliografia

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Card, Orson Scott. Speaker for the Dead. New York: Tor Books, 1986.

Clifford, James. Returns: Becoming Indigenous in the Twenty-first Century. Cambridge MA: Harvard University Press, 2013.

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Gilbert, Scott F. and David Epel. Ecological Developmental Biology. USA: Sinauer Associates, forthcoming. Hakim, Danny. “Sex Education in Europe Turns to Urging More Births.” http://www.nytimes.com/2015/04/09/business/international/sex-education-in-europe-turns-tourging-more-births.html?_r=0

Latour, Bruno. “Facing Gaïa: Six Lectures on the Political Theology of Nature.” Gifford Lectures, 18-28 February, 2013.

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van Dooren, Thom. Flight Ways: Life and Loss at the Edge of Extinction. New York: Columbia University Press, 2014.

Wilson, Kalpana. “The ‘New’ Global Population Control Policies: Fueling India’s Sterilization Atrocities.” Different Takes Winter 2015, http://popdev.hampshire.edu/projects/dt/87.


[1]           Intra-action è un concetto che ci è stato dato da Karen Barad, Meeting the Universe Halfway (Durham, NC: Duke University Press, 2007). Continuo a usare anche l’interazione per rimanere leggibile al pubblico che ha ancora chiaro il cambiamento radicale richiesto dall’analisi di Barad, ma di chi è probabilmente linguisticamente fuori dalle mie abitudini promiscue.

[2]           Anna Tsing, “Feral Biologies,” paper for Anthropological Visions of Sustainable Futures, University College London, February 2015.

[3]           Jason Moore, Capitalism in the Web of Life (NY: Verso, 2015). Molti dei saggi di Moore sono disponibili all’indirizzo https://jasonwmoore.wordpress.com/.

[4]           Devo a Scott Gilbert, per averlo fatto notare durante la conversazione di Ethnos e altre interazioni ad Aarhus Università nell’ottobre 2014, che l’Antropocene (e Plantationocene) dovrebbero essere considerati un evento di confine, come il confine di K-Pg, non un’epoca. Vedi la nota 5 in basso.

[5]           In una conversazione registrata per Ethnos all’Università di Aarhus nell’ottobre 2014, i partecipanti hanno generato collettivamente il nome Plantationocene per indicare la devastante trasformazione di diversi tipi di fattorie, pascoli e foreste curati dall’uomo in piantagioni estrattive e chiuse, facendo affidamento sul lavoro degli schiavi e altre forme di lavoro sfruttato, alienato e solitamente trasportato spazialmente. La conversazione trascritta sarà pubblicata come “Gli antropologi parlano dell’antropocene”, in Ethnos. Si veda il sito Web di AURA, http://anthropocene.au.dk/. Gli studiosi hanno da tempo capito che il sistema schiavilstico della piantagione era il modello e il motore del sistema di fabbrica basato su macchine avide di carbonio, spesso citato come punto di flesso per l’Antropocene. Coltivate anche nelle circostanze più difficili, gli orti-giardini degli schiavi non solo fornivano cibo umano fondamentale, ma anche rifugi per piante, animali, piante a biodiversità, funghi e terreni. Gli orti degli schiavi sono un mondo sottoesplorato, soprattutto se paragonato ai giardini botanici imperiali, per i viaggi e le propagazioni di una miriade di creature. Generatività semiotica del materiale in movimento in tutto il mondo per l’accumulazione di capitale e il profitto: il rapido spostamento e la riformulazione di germe plasmatica, genomi, talee e tutti gli altri nomi e forme di organismi parti e di piante, animali e persone sradicate — è un’operazione che definisce Plantationocene, Capitalocene e Antropocene insieme. Il Plantationocene continua con una ferocia sempre maggiore nella globalizzazione attraverso la produzione delle fabbriche di carne, la monocoltura agroalimentare e le immense sostituzioni delle foreste multispecie e dei loro prodotti che sostengono allo stesso modo creature umane e non umane con le colture come la palma da olio. I partecipanti alla conversazione di Ethnos includevano Noboru Ishikawa, Anthropology, Center for South East Asian Studies, Kyoto University Anthropology; Anna Tsing, Anthropology, University of California at Santa Cruz; Donna Haraway, History of Consciousness, University of California at Santa Cruz; Scott F. Gilbert, Biology, Swarthmore; Nils Bubandt, Department of Culture and Society, Aarhus University; e Kenneth Olwig, Landscape Architecture, Swedish University of Agricultural Sciences. Gilbert ha adottato il termine Plantationocene per argomenti chiave nel suo Coda nella seconda edizione del suo libro di testo ampiamente usato, Scott F. Gilbert e David Epel, Ecological Developmental Biology (USA: Sinauer Soci, di prossima pubblicazione).

[6]           Ho saputo che il termine Capitalocene era già usato nelle comunicazioni personali via e-mail di Jason Moore e Alf Hornborg alla fine del 2014; Malm quando era ancora studente ha proposto il termine in un seminario a Lund, in Svezia, nel 2009. Personalmente ho usato il termine in modo indipendente nelle lezioni pubbliche a partire dal 2012. Moore sta curando un libro intitolato Capitalocene (Oakland CA: PM Press, di prossima pubblicazione 2016), che avrà saggi di Moore, Malm, me stessa ed Elmar Altvater. Le nostre reti collaborative si addensano.

[7]           Il suffisso “–cene” prolifera! Rischio questa sovrabbondanza perché sono nel cuore della radice significati di –cene / kainos, ovvero la temporalità del denso, fibroso e grumoso “ora”, che è antico e non.

[8]           Os Mil Nomes de Gaia/i Mille nomi di Gaia è stata la conferenza internazionale generativa organizzato da Eduardo Viveiros de Castro, Déborah Danowski e i loro collaboratori nel settembre 2014 a Rio de Janeiro. Alcuni interventi erano in portoghese e alcuni in inglese: molti dei discorsi realizzati nella conferenza possono  essere visti su https://www.youtube.com/c/osmilnomesdegaia/videos. Il mio contributo su Anthropocene e Chthulucene è stato realizzato attraverso Skype ed è disponibile all’indirizzo https://www.youtube.com/watch?v=1x0oxUHOlA8.

[9]           James Clifford, Returns: becoming indigenous in the Twenty-first Century (Cambridge MA: Harvard University Press, 2013).

[10]          Thom van Dooren, Flight Ways: Life and Loss at the Edge of Extinction (New York: Columbia University Press, 2014). Vinciane Despret, “Ceux qui insistent,” in Faire Art comme on fait societé, ed. Didier Debaise, et al. (Paris: Réel, 2013). Per una serie di importanti saggi di Vinciane Despret, tradotti in inglese, vedi Angelaki 20, no. 2, forthcoming 2015, Ethology II: Vinciane Despret, edited by Brett Buchanan, Jeffrey Bussolini, and Matthew Chrulew, prefazione by Donna Haraway, “A Curious Practice.”

[11]          Orson Scott Card, Speaker for the Dead (NY: Tor Books, 1986).

[12]          Marilyn Strathern, The Gender of the Gift: Problems with Women and Problems with Society in Melanesia (Oakland CA: University of California Press, 1990)

[13]          Bruno Latour, “Facing Gaïa: Six Lectures on the Political Theology of Nature,” Gifford Lectures, 18-28 February, 2013.

[14]          Kim Stanley Robinson, 2312 (London: Orbit, 2012). Questa straordinaria narrativa di fantascienza ha vinto il Nebula Award come miglior romanzo.

[15]          Hamlet, atto I, scena II, v. 65: è la prima battuta che recita Amleto entrando in scena (n.d.c.).

[16]          Marilyn Strathern, “Shifting Relations”, articolo per il seminario sui mondi emergenti, Università di California a Santa Cruz, 8 febbraio 2013. Fare parentele è una pratica popolare in aumento e nuovi nomi stanno anche proliferando che indicano questa pratica. Vedi Lizzie Skurnick, That Should Be a Word (NY: Workman Publishing, 2015) per “Kinnovator”, una persona che fa famiglia in modi non convenzionali, a cui aggiungo Kinnovation. Skurnick propone anche il termine “clanarchist”. Queste non sono solo parole; sono indizi e suggerimenti per i terremoti nel fare parentele che non si limitano agli apparati della famiglia occidentale, eteronormativi o meno. Penso che i bambini dovrebbe essere rari, nutriti e preziosi; e parenti dovrebbero essere abbondanti, inaspettati, duraturi e preziosi.

[17]          “Gens” è un’altra parola, patriarcale che sta per origine, con cui le femministe giocano. Origini e fini non si determinano reciprocamente. Kin e gens sono compagni di cucciolata nella storia delle lingue indoeuropee. Per promettenti momenti comunisti intra-d’azione, puoi dare un’occhiata a http://culanth.org/fieldsights/652-gens-afeminist-manifesto-for-the-study-of-capitalism, di Laura Bear, Karen Ho, Anna Tsing e Sylvia Yanagisako. La scrittura è forse troppo secca (anche se i messaggi di riepilogo aiutano) e non ci sono succosi esempi per fare in modo che questo Manifesto seduca il lettore viziato; ma i riferimenti danno enorme risorse per fare tutto ciò, soprattutto in quanto sono frutto di etnografie a lungo termine, intimamente impegnate, profondamente teorizzate. Vedi in particolare Anna Tsing, The Mushroom at the End of the World: on the Possibility of Life in Capitalist Ruins (Princeton NJ: Princeton University Press, di prossima pubblicazione 2015). La precisione dell’approccio metodologico in “Gens: a Feminist Manifesto for the Study of Capitalism” è nel suo indirizzo a quegli aspiranti marxisti o altri teorici che resistono al femminismo e che quindi non si impegnano nell’eterogeneità dei mondi della vita reale, ma rimangono su  categorie come mercati, economia e finanzializzazione (o, aggiungerei, riproduzione, produzione e popolazione) in breve, presumibilmente categorie adeguate di economia politica socialista o liberale e non femminista). Vai, Honolulu Revolution Books e tutti i tuoi parenti!

[18]          La mia esperienza è che quelli a cui tengo caro come “il nostro popolo”, a sinistra – o qualunque nome possiamo ancora usare senza apoplessia – sente il neoimperialismo, il neoliberalismo, la misoginia e il razzismo (chi può biasimarli?) nell’impegno “Not Babies” di “Make Kin Not Babies”. Immaginiamo che la parte “Make Kin” sia più semplice ed eticamente e politicamente su un terreno più solido. Non vero! “Make Kin” e “Not Babies” sono entrambi difficili; essi entrambi richiedono la nostra migliore creatività emotiva, intellettuale, artistica e politica, individualmente e collettivamente, tra differenze ideologiche e regionali, tra le altre differenze. Il mio senso è quello “Il nostro popolo” può essere parzialmente paragonato ad alcuni negazionisti cristiani del cambiamento climatico: le credenze e gli impegni sono troppo profondi per consentire il ripensamento e il refeeling. Per la nostra gente rivisitare ciò che è stato di proprietà della destra e dei professionisti dello sviluppo come “l’esplosione demografica” può essere percepito come andare verso il lato oscuro. Ma la negazione non ci servirà. So che “popolazione” è una categoria statale, il tipo di “astrazione” e “discorso” che rifà la realtà per tutti, ma non per il beneficio di tutti. Penso anche che le prove di vario genere, epistemologicamente e affettivamente comparabili alle varie prove di rapidità del cambiamento climatico, mostrano che le richieste avanzate da 7-11 miliardi di esseri umani non possono essere sopportate senza immenso danno per tutti gli esseri umani e non umani della terra. Questa non è una semplice faccenda causale; l’ecogiustizia non permette un approccio ad una sola variabile per il ripetuto sterminio, immiserimento, ed estinzione sulla terra di oggi. Ma incolpando capitalismo, imperialismo, neoliberismo, modernizzazione, o qualche altro “non noi” per la continua distruzione palmata con numeri umani non funzionerà neanche. Questi problemi richiedono un lavoro difficile e senza sosta; ma richiedono anche gioia, gioco e capacità di respons/ability con altri inaspettati. Tutte le parti di questi problemi sono troppo importanti per la Terra per lasciare mano alla destra o ai professionisti dello sviluppo o a chiunque altro come al solito nel campo delle imprese. Eccoci  parentele strane: non nataliste e fuori categoria! Dobbiamo trovare il modo di celebrare bassi tassi di natalità e decisioni personali e intime per rendere le vite fiorenti e generose (incluso una parentela innovatrice e duratura, una kin/innovazione) senza fare più bambini – urgentemente e soprattutto, ma non solo, nelle ricche regioni ad alto consumo e che esportano miserie, nazioni, comunità, famiglie e classi sociali. Dobbiamo incoraggiare la popolazione e le politiche che affrontano tematiche demografiche spaventose a proliferare parenti non nativi, tra cui immigrazione non razzista, politiche ambientali e di sostegno sociale per i nuovi arrivati ​​e “nati allo stesso modo” (istruzione, alloggio, salute, genere e creatività sessuale, agricoltura, pedagogie per coltivare altre creature umane, tecnologie e *innovazioni sociali per mantenere gli anziani sani e produttivi, etc etc.). Il “diritto” personale inalienabile (che parola per una materia corporea così consapevole!) alla nascita o non alla nascita di un nuovo bambino non è in discussione per me; la coercizione è sbagliata a tutti i livelli immaginabili in questa materia, e così in ogni caso tende a ritorcersi contro, anche se si qualcuna può sostenere una legge o una abitudine coercitiva (io non posso). D’altra parte, cos accadrebbe se la nuova normalità dovesse diventare un’aspettativa culturale che almeno ogni nuov* bambin* ha tre genitori impegnati a vita (che non sono necessariamente amanti l’uno dell’altro e che non vorrebbero la nascita di nessun altr* bambin* dopo, sebbene essi possano vivere in famiglie multi-bambini, multi-generazionali)? E se le pratiche di adozione gravi per e da parte degli anziani diventassero comuni? E se le nazioni che sono preoccupate per i bassi tassi di natalità (Danimarca, Germania, Giappone, Russia, America bianca, altro) riconoscessero che la paura degli immigrati è un grosso problema e che i progetti di purezza razziale e le fantasie guidano il risorgere delle politiche pronataliste? Che cosa succederebbe se le persone in tutto il mondo si cercassero innovazioni non nataliste per gli individui e per i collettivi nei mondi queer, decolonial e indigeni, anziché europei, euroamericani, o negli ambienti ricchi o di estratttivi di ricchezza cinesi o indiani? Per ricordare come le fantasie di purezza razziale e il rifiuto di accettare gli immigrati come cittadini a pieno titolo guidano effettivamente adesso la politica nel mondo “progressista” “sviluppato”, vedi Danny Hakim, L’educazione sessuale in Europa si trasforma per sollecitare più nascite. Rusten Hogness ha scritto in un post di Facebook il 9 aprile, 2015, “Cosa c’è di sbagliato nella nostra immaginazione e nella nostra capacità di guardarci l’un l’altro (umano e non umani) se non riusciamo a trovare modi per affrontare i problemi sollevati cambiando la distribuzione delle classi di età nella società senza più fare bambini? Dobbiamo trovare il modo di celebrare i giovani che decidono non avere figli, non aggiungere nazionalismo al già potente mix di pressioni pro-nataliste su di loro”. Il pronatalismo in tutte le sue potenti forme dovrebbe essere messo in discussione quasi ovunque. Continuo ad utilizzare il “quasi” a promemoria delle conseguenze del genocidio e del traffico forzato di persone, uno scandalo ancora in corso. Il “Quasi” è anche un pungolo per ricordare l’abuso di sterilizzazione contemporanea, i mezzi di contraccezione scandalosamente inappropriati e inutilizzabili, la riduzione di uomini e donne a cifre nelle politiche di controllo della vecchia e nuova popolazione e altre pratiche misogine, patriarcali ed etniche/razziste integrate negli affari in tutto il mondo. Ad esempio, vedi Kalpana Wilson, “The ‘New’ Global Population Control Policies: Fueling India’s Sterilization Atrocities,” Different Takes Winter 2015, http://popdev.hampshire.edu/projects/dt/87. Abbiamo bisogno di supportarci l’un con l’altro nell’assumere il rischio cosi grande riguardo a tutte queste questioni­.

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