È in uscita il 24 febbraio la raccolta di saggi di Dipesh Chakrabarty La sfida del cambiamento climatico. Globalizzazione e Antropocene (a cura di Girolamo De Michele, traduzione dall’inglese di Carlotta De Michele, Ombre Corte, pp. 168). Anticipiamo qui le pagine finali dell’introduzione.

Di GIROLAMO DE MICHELE

L’essenza dell’essere umano è nella sua possibilità di essere, non in quel che è. Che un mondo possa essere da lui creato o possa essergli strappato via deriva da questa condizione sempre aperta, priva di determinismo e di teleologismo. In questo senso, il migrante che prende congedo dalla propria condizione per avventurarsi nell’apertura delle possibilità che il viaggio gli dischiude esprime al massimo grado la dignità dell’umano: il rifiuto di irrigidirsi nell’atto, e la rivendicazione di una apertura di possibilità conforme a quella dignità dell’umano che il pensiero umanistico pensò non come imperialismo totalizzante dell’umano, ma come apertura multiversa in ogni direzione del mondo. Rivendicare, difendere, affermare la dignità dell’umano significa affermare l’umano come possibilità, contro ciò che costituisce/da cui è costituito l’umano attuale. Umano come possibilità significa possibilità di essere altro: di riconoscere una radicale alterità al cuore dell’umano. Un’alterità che può alludere anche a un divenire-altro dell’umano, sia come direzione futura, sia come riconquista di quel divenire-animale che, nella lettura deleuziana esemplificata dai grandi quadri di Bacon, rappresenta il sostrato comune, la zona d’indiscernibilità fra i viventi umano e non-umano – da cui la stessa possibilità di provare il sentimento della pietà verso la carne macellata.

In conclusione, mi limito qui a indicare alcuni temi già presenti nel campo di un’ecologia radicale che assume la desoggettivazione, il depotenziamento dell’Ego ipertrofico umano come proprio terreno: per indicare alleanze concettuali e recuperare filiazioni; per dire, scherzando, ma non troppo, che l’ecologismo radicale non ricomincia da zero, ma da tre.

Il primo è la riflessione ecosofica condotta da Félix Guattari a cavallo degli anni ottanta e Novanta, concernente la messa in discussione del modo “in cui si vive su questo pianeta, nel contesto dell’accelerazione dei mutamenti tecnico-scientifici e del considerevole incremento demografico”. Si tratta, scrive Guattari, di mettere a fuoco «i problemi del razzismo, del fallocentrismo, dei disastri tramandati da un’urbanistica che si pretendeva moderna, di una creazione artistica liberata dal sistema del mercato, di una pedagogia capace di inventare i suoi mediatori sociali ecc. Questa problematica altro non è, in fin dei conti, che quella della produzione di esistenza umana nei nuovi contesti storici».

In una battuta, di determinare quali processi di soggettivazione, nel quotidiano e nel sociale, opporre alle pratiche di assoggettamento e dominio del capitale che passano attraverso i processi di devastazione ambientale: una ecosofia sociale, che possa “sviluppare delle pratiche specifiche che tendano a modificare e a reinventare i modi di essere all’interno della coppia, della famiglia, del contesto urbano, del lavoro ecc.”; e una ecosofia mentale che reinventi il rapporto del soggetto con il corpo, con le fantasie, con il tempo che passa, con i ‘misteri’ della vita e della morte”, in cerca di “antidoti all’uniformazione massmediatica e telematica, al conformismo delle mode, alla manipolazione delle opinioni da parte della pubblicità, dei sondaggi ecc.”.

La prospettiva guattariana ci è indispensabile per la sua capacità di tenere insieme campi disciplinari diversi, in un frangente nel quale le crisi economiche, sociali ed ecologiche vanno comprese assieme, pena l’incomprensione delle ragioni di fondo di ciascuno di questi processi. Al tempo stesso, ci vengono utili le prospettive concettuali di Kathryn Yusoff e Donna Haraway, che nominano i processi di desoggettivazione che configurano nuove alleanze (nel senso in cui Judith Butler usa questo termine) infra-umane, ma anche con ciò che umano non è.

Il concetto di “vita geologica” di Yusoff (non a caso lettrice di Blanchot), ovvero di una “soggettività geologica”, richiede un doppio compito: il primo è “un compito locale di decolonizzazione (di lingue, categorie, determinismo ontologico)” che mira a sostanziare l’inumano in termini politici come costitutivo del biopotere; il secondo “è non locale: si estende oltre ogni formazione dell’umano in una poetica di relazione con il cosmo e la terra”, alludendo a “modi di soggettivazione non-umana [modes of inhuman subjectification]”.

La stessa tensione, col suo caratteristico linguaggio immaginifico, esprime Donna Haraway nel proporre un superamento sia dell’Antropocene che del Capitalocene: di farla finita con “questo Antropos i cui progetti incendiari per accelerare le estinzioni merita addirittura un nome per un’intera era geologica”; di disfare il Capitalocene “su basi relazionali, così da comporre in forma di storie e figure di filo Fs semiotico-materiali qualcosa di più vivibile, qualcosa di cui Ursula K. le Guin andrebbe fiera”. Soprattutto, di farla finite con le narrazioni nelle quali «troppo volentieri sia l’Antropocene che il Capitalocene si lasciano andare al cinismo, al disfattismo, alle previsioni autoassertive e autoriferite del tipo “è troppo tardi, i giochi sono fatti” […]. sono discorsi in cui sia l’autocommiserazione disperata che i punti fermi tecno-teocratici della geoingegneria sembrano contagiare ogni immaginazione condivisa possibile».

Si tratta di pensare, per Haraway, il Chthulucene: pensare “cosa succede quando l’eccezionalismo umano e l’individualismo limitato – questi vecchi adagi della filosofia e dell’economia politica occidentali – diventano impensabili”. Creare non filiazioni, ma parentele fra i viventi, umani e non: «lo Chthulucene incompiuto deve raccattare la spazzatura dell’Antropocene, la tendenza allo sterminio del Capitalocene e sfrangiare, tagliuzzare e stratificare a più non posso come un giardiniere matto, creando così un ammasso di compost molto più caldo e accogliente per tutti i passati, i presenti e i futuri ancora possibili».

Concludendo la sua conferenza sulla storia e il cambiamento climatico, Amitav Ghosh prefigura la fine di un’epoca: «Nella misura in cui rappresentano la totalità delle azioni umane nel corso del tempo, gli eventi dell’odierno clima in mutamento rappresentano anche il capolinea della storia. Perché, se tutto il nostro passato è racchiuso nel presente, allora la temporalità stessa si svuota di significato. […] Gli eventi climatici della nostra era sono dunque il distillato di tutta la storia umana: esprimono l’interezza del nostro essere nel tempo».

In qualche modo, il senso della fine di un’epoca – storica, se non geologica – è una diffusa percezione. Ma, come nella folgorante affermazione di Gramsci sulla crisi del ’29, abbiamo la sensazione di trovarci in un tempo nel quale “il vecchio muore, e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.

Un caro Maestro, in anni altrettanto stupidi e bui degli attuali, indicava la necessità di accettare con dignità e forza il desolato orizzonte di crisi cui conclude la modernità dell’Occidente, sapendo tuttavia che attraverso il disperato soffrirne è ancora possibile il suo rivoluzionamento. Oggi il deserto e la desolazione sono non soltanto metafore, ma una concreta possibilità futura; e la sofferenza è il patire comune nel quale si contagiano le passioni delle diverse figure del povero: nella morte per carestia agli angoli delle metropoli o nei villaggi sperduti, per annegamento nelle inondazioni o nei mari attraversati dalle barche dei migranti, per epidemia nelle brande gettate in terra davanti agli alberghi di lusso vuoti, o in un corridoio d’ospedale, o nel chiuso delle case nelle quali si resta imprigionati per mancanza di posti nei luoghi di cura; o per disperazione, con una corda, un proiettile, un volo nel vuoto. Una rinnovata, radicale ecologia della mente e dei corpi sofferenti deve porsi il problema di pratiche e percorsi comuni che rovescino le prassi del capitalismo neo-liberale, estrattivo, finanziario che hanno creato un mondo indegno di essere vissuto. Fuori dalla tana del Bianconiglio c’è un mondo intero di cui riappropriarsi: non per restaurare una qualche perduta età dell’oro, ma per costruire una nuova alleanza nel comune dell’umano, con la terra e i suoi abitanti. Sarebbe facile dire che è il compito di una generazione: non perché non lo sia, ma perché potrebbe non essercene un’altra, di generazione. All’interno dell’attuale generazione, delle sue divisioni e stratificazioni, la povertà che accomuna i corpi e lo spirito della più parte rende ancor più percepibile quella condizione di costitutiva debolezza – che non è mancanza, ma al contrario affermazione di una possibilità di essere altro –, del non poter badare da soli a sé stessi, che rende ogni umano e ogni vivente degno di cura e protezione. La prospettiva ecologica è una prospettiva all’altezza di questa condizione.

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