di GIROLAMO DE MICHELE.

Nico Piro è un giornalista con una lunga esperienza di inviato sul campo: non un’opinionista con l’elmetto griffato, per intenderci. È stato, ad esempio, in Afghanistan, ma anche nel Donbass; ha ricevuto numerosi riconoscimenti: premi giornalistici nei quali risuonano i nomi di Ilaria Alpi, Maria Grazia Cutuli, Giancarlo Siani. Collabora con Emergency dai tempi in cui Gino Strada non era una sorta di santo laico – ora che è morto e non può più parlare –, ma una voce scomoda per quello che diceva, per quello che faceva, e anche per chi gli era accanto. Una voce che continua a risuonare nelle pratiche cui ha dato il via, e anche in questo prezioso libretto, Maledetti pacifisti. Come difendersi dal marketing della guerra (People, 2022, pp. 160): che è, a dispetto delle poche pagine, un libro importante. Ho scritto “un” libro, ma sono almeno due: il secondo, come annunciato dal titolo, è una vibrante difesa dell’idea di pacifismo e del valore della pace; il primo, è una narrazione puntuale di come si è creato un ambiente nel quale la guerra può essere venduta “come una partita di calcio dove se accade un infortunio si tira fuori il cartellino rosso”. Nel quale, a partire dal fabbisogno di combustibili fossili, l’etica è diventata un optional (qualcuno ricorda I tre giorni del Condor?). Piro si inserisce di fatto all’interno di una narrazione, avviata da Italo Calvino con le sue Lezioni americane, sulla “peste del linguaggio” che si manifesta da tempo “come perdita di forza conoscitiva e di immediatezza, come automatismo che tende a livellare l’espressione sulle formule più generiche, anonime, astratte, a diluire i significati, a smussare le punte espressive, a spegnere ogni scintilla che sprizzi dallo scontro delle parole con nuove circostanze”. Non per caso Calvino, che proseguiva una riflessione avviata da Pasolini e Sciascia, chiamava in causa anche la nuova (negli anni Ottanta) comunicazione audiovisuale, dunque il mezzo della televisione, all’epoca non ancora sottomessa alla dittatura dell’audience e delle entrate pubblicitarie: oggi, scrive Piro, l’emorragia di pubblico dai media generali, incapaci di rinnovamento e innovazione genera una concorrenza diffusa aggravata da una classe dirigente “di un paio di generazioni, perennemente al comando, in onda o in prima pagina”, poco incline e ancor meno interessata al cambiamento. La soluzione per combattere a basso costo la guerra dell’audience è “opinionizzare l’informazione”, sulla strada inaugurata dall’emittente americana Fox News, mentre sulla carta stampata si moltiplicano le collaborazioni a basso costo, i contratti di solidarietà, il pensionamento dei cronisti di lungo corso e la riduzione degli spazi di approfondimento. Il risultato, dai canali televisivi ai quotidiani, è “il circo dei talk show”, basato su una elementare catena del valore: “si fanno affermazioni divisive, gli articoli vengono condivisi sui social, ci si spacca tra favorevoli e contrari, tra je suis… e indignati un tanto al chilo”. In questa situazione, allo scoppio del conflitto, seguendo dinamiche già sperimentate, la tv si rifugia nella formula della par condicio, alla quale segue la formula “uno di destra e uno di sinistra”, che nel caso del conflitto russo-ucraino significa “uno contro la Russia e uno a favore della Russia”. Tutto questo non serve a riflettere criticamente sulla guerra, ma a creare una polarizzazione necessaria, perché l’informazione è come un detersivo: deve lavare più bianco; e poco importa se lo slogan corrisponda o meno alla realtà: l’importante è che venda.

Polarizzata l’opinione pubblica, la guerra può essere venduta come un valore condiviso, poiché in un mondo polarizzato bisogna necessariamente schierarsi da una parte: lo slogan “c’è un aggressore e un aggredito” (variante: Davide contro Golia, e poco importa se Davide abbia in questo momento uno degli eserciti più armati del mondo), nella sua elementare ovvietà, serve a questo. Ovvero, a reiterare che le questioni sono semplici – con buona pace di chi cerca di ricordare che non ci sono tutti i cattivi da una parte e tutti i buoni dall’altra: lo stesso Nico Piro, avendo la colpa di aver fatto un servizio giornalistico nel Donbass filorusso, dal 2019 non ha il permesso di entrare in Ucraina. La stesa guerra viene “normalizzata”: collocata “a debita distanza”, affinché lo spettatore sia libero di distrarsi; raccontata da esperti che non rendono mai pubbliche le fonti cui attingono, rendendo indistinguibile il confine fra leak (diffusione non voluta di informazioni riservate), fonte personale e campagna di PsyOp, cioè la propaganda di guerra. Il tutto all’interno di frame definiti da slogan o frasi ad effetto; ad esempio, prospettando un nuovo scenario dove “non è il momento di smettere” (slogan già usato nella “guerra alla droga” degli anni Ottanta: e sappiamo come non è andata a finire), senza porsi il problema del “dopo” e delle conseguenze: l’importante è rinnovare il messaggio “che la guerra è tutto sommato un male gestibile e sopportabile”.

L’emergenzialità della guerra diventa la normalità: “chi chiede pace viene apostrofato come qualcuno che vuole la resa degli ucraini e la vittoria dei russi”. La pace può essere pensata solo come conseguenza della guerra, come un suo sottoprodotto: è una delle molte modalità della cultura dello scarto. La pace cessa di avere un valore autonomo, con una propria dignità: anche per generazioni che ieri sfilavano con le bandiere della pace, o che prima ancora avevano manifestato per il Cile. Schierarsi diventa una scelta di valori: “l’atlantismo come categoria superiore che ingloba tutti i princìpi fondativi dell’Italia”, con la stessa acriticità con la quale sul finire del secolo scorso si è accettata la globalizzazione, e prima ancora, negli anni Trenta, l’avvenuta unificazione del mondo senza mettere a critica il fatto che queste visioni unificanti del globo erano il prodotto di un modello politico e culturale (occidentale e capitalistico) sulle restanti aree del globo.

Diventa allora importante recuperare strumenti, allestire casamatte, per combattere la battaglia culturale della controinformazione: considerare il racconto che ci viene offerto per quello che è, ovvero un prodotto, e distinguere la sostanza dal suo rivestimento. Forse dovremmo tutti riguardare Blow up di Antonioni, anche per ricordarci di quando il grande cinema non era solo una sequenza di effetti speciali nei quali niente ci sorprende e nulla ci fa pensare: “fare un passo indietro rispetto alla valanga di informazioni che ci piove addosso, prendere un respiro profondo e provare a identificare la trama della narrazione come si fa per una serie tv, identificarla come tal e e smontarla, chiederci dove porta la storia, dove il regista vuole che i nostri occhi guardino, dove gli sceneggiatori vogliono indirizzare le nostre emozioni”.

E ricordarci ogni giorno le parole di Gino Strada: “come le malattie più gravi, anche la guerra deve essere prevenuta e curata. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, uccide il paziente”.

questo testo è stato pubblicato sul quotidiano on line periscopio

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