di GIOVANNA FERRARA.

 

Non possono che avere avuto un ruolo determinante sul misticismo rivoluzionario di Gor’kij le barche di legno sui cui tendalini a strisce gialle e bianche si tuffa il cielo più denso del Mediterraneo, quello che avvolge Capri. Quelle visioni sigillano un patto continuo e gaudente tra uomo e natura, quasi fossero amanti avvinghiati dalla paradossale promessa di un presente rigoglioso di piacere che dice: «La gioia cresce in modo meraviglioso, se del mondo ci si compiace tutti insieme».

Romanzi, scritti, riflessioni, parole (e qui c’è la mente) e poi passeggiate sugli scogli, pranzi contadini, le agavi a coprire gli occhi (e qui c’è il corpo). Che si tratti di qualcosa di romantico è una potente verità: un gruppo che dibatte sulla necessità di «costruire Dio»,di tessere cioè una religione terrena di riscatto che non metta al bando i miracoli ma li produca nella forma di una rivoluzione ascritta a un organismo collettivo, è qualcosa che fa tremare di nostalgia per un tempo che aveva così tanta confidenza col possibile. «Se quell’appassionato fermento che agita gli elementi insoddisfatti della società contemporanea, quella sete di vita, di sole, di armonia sociale, di libertà e solidarietà prenderà il sopravvento, l’umanità imboccherà la strada maestra dello sviluppo estetico», scriveva l’«eretico» Lunacarskij a proposito di quell’esperimento che è«la scuola di Capri».

Presenze irreali

Niente toglie a quella nostalgia la considerazione che si trattò di un tempo fatto anche di scissioni e inimicizie, di tristi fini e nuovi inizi. È un tempo sospeso, un tempo che si affaccia ancora ogni volta che ci domandiamo come può comunicare il guizzo individuale con la necessità moltitudinaria della rivoluzione, come salvare il mistico mentre si tenta la biografia del presente, come far agire insieme, all’unisono, esperienza e conoscenza. A Capri Lenin fu soprattutto una presenza irreale. A lui erano destinate le lettere che Maksim Gor’kij e Aleksandr Bogdanov inviavano a Parigi per convincerlo dell’assoluta necessità di fondare a Capri una scuola capace di creare la «cultura proletaria», grazie a un nuovo modo di pensare il rapporto tra intellettuali e operai, basata su un tentativo inedito di unire l’utopismo del primo con lo scientismo del secondo. Lenin si oppose sempre a quel progetto.

Lo riteneva irrazionale, a causa dei facili entusiasmi dello scrittore, e pericoloso per il tentativo del filosofo Bogdanov di strappargli il monopolio sull’«ortodossia» bolscevica dopo la scissione con i menscevichi. Il fallimento del tentativo del 1905 aveva portato i rivoluzionari in giro per il mondo, in Stati e città dove si riorganizzava il sogno, si pubblicavano giornali, si formulavano ipotesi. Nelle maglie di questa rete finì anche questo lussurioso scoglio del Mediterraneo, dal quale forse arrivava il tentativo più filosoficamente periglioso di interpretazione del marxismo.

I sospetti di Lenin non erano farneticanti:qualcosa in quel cielo accadeva ed era strano e difficile da incanalare nella «perfetta ossessione» che inanellò gli eventi fino all’ottobre del 1917. Marx ed Engels, negli ampi locali della scuola di Capri, parlavano con Nietzsche e Dostoevskij. Numi tutelari che indagavano questo nuovo ateismo così lontano dalla monolitica concezione illuministica. «Calcolo e sogno, ragione strumentale e immaginazione chimerica, organizzazione rigorosa e fede arbitraria formavano un sistema ideologico che avrebbe esplicato le sue potenzialità nel corso della lotta rivoluzionaria», si legge nel bel libro, L’altra rivoluzione, dedicato dallo storico Vittorio Strada alla vicenda caprese.

Tra letteratura e politica

Lenin fu nell’isola solo in due brevi occasioni: dal 23 al 29 aprile del 1908 fu ospite a villa Blaesus, sulle curve decentriche di via Krupp,dal cui terrazzo Gor’kij ribattezzava i faraglioni «i faraoni»,in una delle interminabili cene in cui era solito incantare gli ospiti con raffinate riflessioni sulla politica e notevoli suggestioni sulla letteratura. Poi dal primo al 13 luglio del 1910 fu a villa Spinola, di proprietà del medico che in quegli anni scopriva il siero antidifterico. Si trattava di un ex monastero appoggiato solidamente a Monte San Michele, scelto per le ampie stanze e particolarmente adatto al rigido programma educativo.

Di quei soggiorni resta la foto di una partita a scacchi. Bogdanov contro Lenin, formidabile iconoclastia di uno scontro: sullo sfondo il generoso sguardo dello scrittore a osservare i due uomini che incarnavano con gesti e sguardi il bivio di una storia che si svolgeva a migliaia di chilometri da lì. Tutti e tre i personaggi principali di questa scena si incontrarono a Pietroburgo, sempre a casa dello scrittore, nel 1904 per fondare il primo giornale della frazione bolscevica, Vpered. Nel 1905 la frattura: Bogdanov, con il romanzo Stella Rossa e dopo l’uscita del volume filosofico Empiriomonismo, sosteneva che il fallimento rivoluzionario era da ascrivere alla mancanza di una visione del futuro, di una utopia socialista che desse per paradosso concretezza alle formule marxiste.

Per Lenin si trattava di un pervertimento del marxismo, di un allontanamento inspiegabile: «Questo è troppo, questo non è marxismo». Lenin e Bogdanov insieme era il sogno sognatissimo da Gor’kij. Il meno riuscito: tra di loro ci fu solo silenzio e il muovere dei pezzi. Al gruppo di Capri arrivò una ufficiale scomunica da parte del partito cui seguì lo sprezzante commento di Bogdanov: «Lenin è stato vittima di un errore comune a tutti i letterati contemporanei, egli non vede il suo lettore». Questa è una storia sottratta alla storia. Quello che successe dopo, i bilanci di meriti e demeriti, di ispirazioni e furori, le sono estranei. A quel dibattito possiamo ancora partecipare, a quei panorami possiamo ancora accedere, quelle commozioni possono ancora essere nostre, perché «la questione cardinale della primavera prima o poi deve essere risolta».

Questo articolo è stato pubblicato su «il manifesto» del 23 agosto 2017 – Inserto rivoluzionario 1917-2017 n.12

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