di FANT “l’amico di Minghella” PRECARIO.

«e di una sensuale vicinanza alle cose del mondo e alle sue deflagrazioni imprevedibili è dotato questo piccolo libro, leggibile per chi crede di conoscere Genova, la immagina o semplicemente da chiunque desideri cantare, e danzare, il proprio giro del vento. Anche se l’orizzonte è grande, i conti per fortuna non tornano mai. Eppure, prima o poi, si arriva sempre al mare» (così, Alessandra Pigliaru, Le intermittenze della memoria abitano in periferia, a proposito di Genova macaia di Simone Pieranni).

Passi la vita a credere che non sei esistito, che tutto è invenzione del tuo incerto trascorrere i giorni fra pippe e rancore, e poi scopri che a pochi metri da te c’è vita, intelligente, potente e che, forse condivide la tua mente affastellata di masserizie e paccottiglia.
Mi dicono: leggi quel libro, lo leggo adeguandomi al diktat del commissario politico.
Scorro veloce le pagine, è bellissimo, come se uno si fosse preso con vent’anni di ritardo la mia vita e ne avesse fatto buon uso, lontano dai paludamenti paludosi che mi appartengono; penso: se fossi, se avessi, se fossimo vivi… Poi capisco l’alternativa, a me negata, all’autore concessa: là vivevano quelli come Minghella.
Il “giro del vento” di chi è nato dentro a quella cortina di ferro terrona che non consente di arrivare al mare – meglio: ci arrivi, ma da “amico di Minghella”, che è cosa ben diversa, muro di Berlino edificato dall’Ovest per evitare commistioni con l’Est, nome che si perde nel ricordo dei nonni ma che nel tempo ha assunto la plastica rappresezione della “terra dei minghella”, un po’ come quelli del CEP ma più brutti, più sporchi, più cattivi.

Facciamo un passo indietro di qualche anno. A Stalinopoli i terroni abitavano tutti nelle case del Conte Cipollina, in Piazza Battistino Rivara. Nella piazzetta giganteggiava il monumento ai caduti della grande guerra, ai lati, il negozio di chi morì d’infarto per difendere lo scagno dalla potenza dell’alluvione del ’70, le “cantine” di un ragazzo del ’99 (al pari di mio nonno), Rocche, il parrucchiere, precursore di Lino Banfi automunito di una Prinz verdolina (che schifava le 600 quando la domenica andava on tour alla Torrazza), il compagno X (di cui non ricordo il nome) titolare un un altro esercizio di alimentari. Una marmetta ricordava i morti del bombardamento aereo da parte degli alleati, ancora visibile negli esiti dei ruderi del mulino.
Tutti i migranti si annidavano in quelle casette basse, prive dei più elementari servizi, pagando canoni salati (ante L. 392/78) a un vecchio piuttosto male in arnese che girava in Topolino e aveva il vezzo di non pagare ciò che acquistava (noblesse oblige).
Minchia, i siciliani erano davvero incazzosi, un mondo a parte fatto di violenza e degrado, con le scarpe a punta da ballerino appannato, la canottiera sporca di sugo e i pantaloni riciclati dall’ultimo morto nella famiglia allargata. I pantaloni a zampa sarebbero venuti dopo, con i vespini truccati e i capelli al vento: ti giattavano tutto, dalla bici, ai soldi per il ghiacciolo, non ti dico quando fu l’ora del motorino… Poi arrivarono le giunte rosse, le case popolari e dietro al benzinaio di Jerry, in un tratto di strada colmo di ruderi del già moribondo movimento operaio, eressero due palazzi mirabili con i tetti in rame (che i terroni, rumeni ante litteram, si portarono via, e il comune rappezzò alla meglio).

Il giro del vento divenne il vero Bronx che Barretta viveva a Capalbio.

Quando Minghella andava a fare una rametta sopra le “batterie”, munito di vespino 201 cc (così diceva la leggenda, ma dubito sia possibile che un motore 50 potesse reggere tanto dispiegarsi di potenza proletaria, come se tutto il komsomol si fosse dato appuntamento in un solo cilindro) e si metteva a piovere, quello si arrubava la 500 di mio papà, che poi la (sua) mamma andava in banca la mattina e “ci” diceva (a lui), mi spiace signor cassiere, ma Maurizio è fatto così… la macchina è nel giro del vento.

Il giro del vento è anche l’evento della mia conversione al leninismo ombroso e peracottaro, per colpa di una giovane compagna dai docili capelli che mi convinse di come il mio senso di proprietà (il solito Gilerino ciullato dai gabibbi) fosse una merda, come merda era portare avanti il senso del comunismo asfittico ed escludente del PCI.

Eppure mi ricordo una sera, addirittura Battista pensava di prendere misure severe contro i terroni che urtavano il senso estetico dell’operaio professionale/compagno/baldanzoso, e tutti coi lacrimosi venir giù pensando al sol dell’avvenire che diventava passato senza mai essere stato presente.

Però io ero amico dei terroni, ero terrone anch’io, bulletto intriso di prepotenza disco nel cielo di Vesima; però ero anche il figlio del partigiano/compagno/bancario.
Ecco che quella frase, quel libro mi hanno colpito al cuore – e ho capito che Bolzaneto è un non luogo, non è un evento: è un’attitudine. L’impero dell’esclusione, il fuori del dentro assoluto. Tutti abbiamo un blues da piangere e una Bolzaneto nel cuore, un pò la ragazzina dai capelli rossi di Charlie Brown, che non pensa a me perché non sono niente, e come fai a pensare a niente? Oppure come la sifilide che, come appunto si diceva a Bolzaneto se non ce l’hai non sei un uomo (e vallo a spiegare a Metello, che poi era anche il mio professore di diritto processuale penale).

In ogni vita c’e una Bolzaneto: quella del ’44, quella del 2001 – e la mia, quella del 1978, quella degli amici di Minghella, indesiderabili, tanto dai “benestanti” (ancora a fine ’60 i notai, a Bolza usavano quella qualifica nei rogiti) quanto dei prolet (solo) un po’ meno nella merda.
Solo l’autonomia poteva comprenderci, solo l’autonomia poteva considerare quegli esseri adusi alla reclusione, quantomeno territoriale, come elemento di soggettivazione, e allora tutte le Bolzaneto si sarebbero riunite. Ma quell’allora non è mai diventato adesso.

L’Autore, non è di Bolzaneto, è delle “bratte” poco lontano dall’esotica salita Brasile, forse per questo a lui è stato concesso il diritto di fuga. Ma se sei del giro del vento, c’è un cazzo da fare. Resti lì, anche se fuggi, lontano, se fai i soldi, carriera, corri veloce su mezzi potenti, leggi Zizek, sorseggi annoiato romanee conti. Chi viene dal giro del vento ha le stigmate, come padre Pio, ma non gli faranno mai un santuario, nessun rapper lo canterà, neppure se metterai incinte tutte le Sare del mondo ci sarà un Venditti che pigerà un tasto in tuo onore.

I confini stretti e segnati da filo spinato intessuto in fine prosopopea, tutti Minniti a condannare lo sporco, la poca voglia di lavorare, il rifiuto dell’accademia, il ricorso a trite metafore per dispiegare il senso di una vita che parte da Bruce Lee e arriva a Silvia Dionisio.

Il giro del vento è un vento fortissimo, scuote, strappa; ma non sposta. Rende immobili, rimbambisce, solleva la polvere degli anni e te la spalma in faccia, ti ricopre. E ti trovi legnoso, ubriaco di vento, stanco di pace. Quando provi a scuoterti, a scrollarti di dosso il catrame ventoso che ti avvolge, ti vedono, ti guardano: e non sai se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia…
Ma “il capitale” lo sa, prima o poi troverà “il giro del vento” in ogni città.

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