Di AUGUSTO JOBIM DO AMARAL

Se il Brasile si è fatto conoscere come esperimento privilegiato del naziliberalismo in quest’epoca storica, l’attentato avvenuto l’8 gennaio a Brasilia non può che esser letto come il laboratorio più significativo dell’insurrezione fascista mondiale. Il suo impatto senza precedenti sulla storia del Brasile ci induce a una discussione radicale su una serie di questioni fondamentali per comprendere il contesto politico brasiliano.

LULA III

1. Il governo Lula III che si era insediato la settimana prima dei fatti, puntava alla riaffermazione di quelle stesse condizioni che, in certa misura, ci hanno traghettato a questo punto: un discorso improntato all’assunzione della vecchia politica dei patti. Atteggiamento conciliante e pacificante che ben si addice all’esercizio primordiale della politica come negoziazione. Nessuno disprezza la clamorosa vittoria ottenuta alle urne e la sconfitta ad “ampio fronte” di Bolsonaro, tuttavia ancora non ci rendiamo conto che quello che abbiamo guadagnato è soprattutto tempo. Non che questo sia poco, tanto più quando si parla del Brasile, dove la quotidianità delle persone è scandita dalla gestione delle politiche di morte. Compriamo tempo per salvare vite umane. L’elezione ha avuto luogo con un margine di un punto percentuale. E non è affatto azzardato affermare che questo sia dovuto a una certa vittoria della destra oligarchica (intendendo i poteri tradizionalmente costituiti del Brasile, sia nella legislatura che nella magistratura – senza dimenticare Grupo Globo, il canale mediatico egemonico, fino a ieri anti-PT), che ha reso strategicamente insopportabile il mantenimento di Bolsonaro e ha sostenuto Lula. Inoltre, quando è entrato in carica, nonostante l’audace agenda climatica introdotta nel suo discorso del 1° gennaio (e alquanto difficile da raggiungere data la compiacenza all’interno dello stesso governo con il settore dello sviluppo e dell’agroalimentare; e ancora più difficile quando Marina Silva, attuale ministra dell’Ambiente, nel suo primo grande impegno internazionale, al World Economic Forum di Davos, porta nella delegazione brasiliana l’amministratore delegato di Vale, azienda responsabile delle tragedie ambientali di Brumadinho e Mariana), la parola d’ordine di Lula è stata il “ritorno”, la ripresa nella giusta direzione e, in fine, il “risveglio dall’incubo”. La premessa si basa sul ritorno al passato di un momento politico, in opposizione all’“antipolitica” di Bolsonaro. Ricordiamo che, secondo questa stessa sbrigativa lettura politica, anche i moti del 2013 rientravano nel campo avverso alla politica, e infatti repressi come si deve da una sinistra che ha funzionato ancora una volta come forza dell’ordine. Anche le giornate di giugno 2013, guarda caso, furono etichettate come terroriste. Il bolsonarismo non è venuto da Marte. Le condizioni che lo hanno reso possibile sono costitutive non solo della gestione del crollo della modernità evidente nei governi di Lula e Dilma (con conquiste notevoli), ma delle fondamenta stesse del colonialismo schiavista e militarizzato del Brasile. Non è stato difficile vedere che in meno di una settimana dall’insediamento del nuovo Presidente non c’era normalità a cui tornare – la società brasiliana, a ben vedere, è divisa e tale rimarrà – e che, se Bolsonaro ha perso elettoralmente, la forza del fascismo è lungi dall’arretrare e guida ancora, con protagonismo, l’elettorato politico brasiliano.

CAMPIDOGLIO BRASILIANO?

2. Passiamo ora ai fatti che hanno segnato l’invasione e la distruzione degli edifici del quartier generale dei tre poteri nella capitale Brasilia. Solo questo basterebbe a distogliere il ragionamento da un presunto “Campidoglio brasiliano”, per quanto allettante possa essere l’approssimazione. Il caso brasiliano è molto più grave. Anche se il torrente di una comune internazionale fascista è facile da percepire e mette sullo stesso piano Stati Uniti e Brasile, insieme a molti altri fronti, i parallelismi si fermano qui. Se volessimo azzardare un altro tipo di coincidenza, più profonda, dovremmo osservare la base sociale su cui queste nazioni, in modi diversi, finiscono per essere ancorate: la schiavitù e il necessario assembramento di forze di controllo per gestire queste popolazioni e cioè, la polizia. Tale condizione di comune infamia ci dà forse qualche indizio per comprendere come mai sia ​​i moti fascisti sia le resistenze abolizioniste contro la polizia – molto più corpose negli Stati Uniti per una serie di fattori – si facciano spazio privilegiato in entrambi i paesi.

Tornando alle invasioni, i palazzi che in Brasile sono stati attaccati erano vuoti, era domenica e tutto era annunciato da tempo. Non c’era bisogno di alcuna premonizione per sapere quel che stava per succedere. Non che le dimensioni e l’originalità del risultato non abbiano sorpreso tutti. Tuttavia, l’escalation di violenza andava avanti da almeno due mesi. Accampamenti di protesta che chiedevano l’intervento militare erano sparsi per tutti gli stati della federazione con la larga connivenza della polizia e dei comandi di tutte le forze armate. Alla vigilia di Natale, era stata piazzata una bomba, non esplosa, alle porte dell’aeroporto di Brasilia che, secondo l’indagato arrestato, avrebbe dovuto interrompere la cerimonia di insediamento del nuovo presidente programmata per i giorni seguenti. Un giorno dopo l’inaugurazione di Lula, lunedì 2 gennaio, Brasilia era già diventata teatro di guerra con automobili e autobus incendiati, l’esplosione di bombole di gas e il tentativo di invadere la sede della Polizia Federale. Naturalmente nessuno è stato colto in flagrante dalle forze dell’ordine, perché in fondo si tratta sempre del solito Stato democratico in normale funzionamento. A nemmeno dieci giorni dagli attentati dell’8 gennaio a Brasilia, sedici sabotaggi di varie linee di trasmissione elettrica hanno avuto luogo in tutto il Brasile. Sì, continuano a darsi le condizioni per eventi anche peggiori.

Le autorità incaricate di proteggere i luoghi degli attacchi dell’8 gennaio erano l’ex ministro della Giustizia di Bolsonaro, Anderson Torres, incaricato al comando della Polizia Militare del Distretto Federale (in Brasile ogni stato ha la sua) dopo essere stato nominato, il 2 di gennaio, come Segretario alla Sicurezza dal Governatore del Distretto Federale Ibaneis Rocha. Sarà nella casa dello stesso Anderson Torres che, due giorni dopo gli attentati, il 10 gennaio, mentre gli veniva notificato un mandato di cattura, verrà ritrovata, tra i suoi documenti, la bozza di un Decreto di “Stato di Difesa” con l’obiettivo di invalidare la vittoria di Lula su Bolsonaro intervenendo presso il Tribunale Elettorale Superiore.

Più impressionante, quindi, è sapere come, nonostante fosse stato ampiamente pubblicizzato sui social media lo spostamento, l’8 gennaio, di oltre 120 autobus verso Brasilia rivendicando un intervento militare, il nuovo ministro della Giustizia del governo Lula, Flávio Dino, che aveva già chiesto un contingente della Forza di Sicurezza Nazionale per proteggere una possibile invasione del suo edificio ministeriale, sia riuscito a mantenere un dialogo e, peggio, a coltivare una certa fiducia nell’atteggiamento del governatore del Distretto Federale e del suo Segretario. D’altra parte, non dimentichiamo il ruolo fondamentale del Ministro della Difesa nominato da Lula, José Múcio Monteiro, responsabile dell’impiego congiunto delle Forze Armate. Lo stesso che aveva dichiarato, senza alcuna vergogna, che gli accampamenti bolsonaristi nelle caserme di tutto il paese erano manifestazioni legittime e democratiche. A entrambi, dopo quanto accaduto l’8 gennaio, sono stati confermati i propri incarichi e così anche il sostegno del presidente Lula. L’ultimo dettaglio giornalistico importante da ricordare è che, anche dopo il saccheggio degli edifici, per più di due ore e con l’ampio compiacimento delle forze dell’ordine, nella stessa notte dell’8 gennaio, quando si tentava di smantellare il campo golpista installato di fronte alla Caserma Generale a Brasilia dove erano tornati gli invasori, l’Esercito ha allestito una barriera di carri armati impedendo che venisse di fatto smobilitato poiché vi si trovavano parenti di soldati. Lo smantellamento è avvenuto solo con gli arresti della mattina del giorno seguente.

Tocca precisare che la responsabilità diretta della sicurezza del Palazzo del Planalto è dell’Ufficio di Sicurezza Istituzionale (GSI) che nella giornata ha deciso di non rafforzare la sicurezza del luogo, anche se avrebbe potuto contare con il Battaglione della Guardia Presidenziale e con il 1° Reggimento di Cavalleria delle Guardie. Chiamato fino a poco tempo fa “Casa Militar”, e sempre retto da un Ministro di caserma, il GSI è anche responsabile dell’ABIN (Agenzia Brasiliana di Intelligence). Cioè, in Brasile abbiamo ancora un servizio segreto civile guidato dai militari che non è stato modificato da nessun presidente dopo la ridemocratizzazione, e nulla indica che una semplice epurazione abbia un risultato effettivo. Per inciso, è stato lo stesso Lula a rinunciare ai servizi del GSI proprio in occasione della sua cerimonia di insediamento. Da questi fatti, oltre all’urgenza dell’immediata estinzione del GSI e di ogni ingerenza nell’intelligence civile da parte di ordini militari, emerge una domanda, tra le tante: perché gli stessi Ministri sia della Giustizia – con ingerenza diretta nella Polizia Federale – che della Difesa – con il comando delle Forze Armate – non hanno agito con prudenza e mobilitato preventivamente i loro contingenti e si sono fidati del governo del DF? E, pur non avendo agito con cautela, perché, quel giorno, dopo quasi tre ore di demolizione, le forze armate non sono state immediatamente convocate? O se sono state chiamate con urgenza, perché non hanno obbedito?

Sĺ, HANNO VINTO!

3. Un’altra questione importante riguarda il dibattito sull’eventuale vittoria delle forze fasciste negli eventi dell’8 gennaio. Tanto per cominciare, chi immagina che il “golpe sia stato un fallimento” pecca di una miopia istituzionale che poco capisce cosa sia successo e cosa stia succedendo. Da sempre la strategia bolsonarista, anche se priva di un leader o di autoconsapevolezza, è contrassegnata da distanza, disallineamento e asimmetria con il piano istituzionale. La sua dinamica è anti-istituzionale. Questo era il modo bolsonarista di governare per eccellenza. Bolsonaro – paradossalmente, ma non senza una certa dose di intelligenza – ha portato avanti una sorta di governo contro lo Stato usato più volte come capitale politico per legalizzare l’eccezione come risposta al (presunto) attacco contro di lui da parte di tutti (i livelli istituzionali), compresi settori interni al governo stesso. Pertanto, il lavoro di demolizione dell’8 gennaio non è stato fatto per “prendere il potere” – al di là che per l’ovvio fatto che il quartier generale era vuoto. Quello che contava – e da qui il suo clamoroso successo – era mettere sulla difensiva lo stesso governo eletto e, soprattutto, mobilitare le sue truppe in un modo senza precedenti, dimostrando la forza di cui sono capaci. Ancora meno credibile sarebbe l’ipotesi dell’indebolimento della sua base parlamentare o dei suoi governanti statali – al di là delle apparenze. Al contrario, è proprio la dimostrazione di una tale potenza che deve portare a una maggiore vigilanza. Non facciamoci ingannare dai giochi di scena e dai discorsi di chi ripudia gli atti provenienti dai suoi stessi fronti eletti. Abbiamo eletto il parlamento più reazionario di tutta la storia democratica brasiliana e i governatori dei tre maggiori stati brasiliani hanno sostenuto Bolsonaro. Questo non va ignorato. Ingenuo sarebbe credere che abbiano preso una certa distanza, se non come falsa spavalderia. In futuro, torneranno ad essere i primi a sanzionare opportunamente eventuali insurrezioni fasciste. Supponiamo, quindi, senza sminuire l’avversario: sì, gli eventi dell’8 gennaio sono stati una vittoria per il fascismo; a meno che per perdita politica non si intenda una distanza irrisoria, puntuale e momentanea presa da alcuni suoi eletti (deputati, senatori e governatori) invece di una qualsiasi disarticolazione del suo fronte popolare, che tende a diventare ancora più radicale. Insomma, se possiamo essere più apprensivi e dire che il fascismo brasiliano si è dimostrato più potente dopo l’8 gennaio, questa è la prova più diretta che, anche senza aver insediato un nuovo governo – che sembra essere l’argomentazione di alcuni che sottolineano il “fallimento” – l’obiettivo primario non è mai stato la presa del controllo istituzionale, bensì intensificare la continua irrorazione della violenza diffusa delle milizie, sempre pronte a riterritorializzarsi nei contesti più diversi. Finché ci saranno le condizioni, non dobbiamo mai smettere di pensare che potrebbe nascere anche qualcosa di peggio di Bolsonaro.

DIVISIONE NON PACIFICABILE

4. Come già detto, la società brasiliana rimane divisa e questo non finirà per magia. Dopo gli atti inediti nella storia del Brasile che hanno distrutto la Praça dos Três Poderes, anche così, quasi il 20% della popolazione ha pensato che l’invasione fosse normale e quasi il 40% ha sostenuto o capito che quanto accaduto era giustificato. La risposta non può che venire da una precisa forza popolare attiva contro un’invidiabile potenza e organizzazione fascista. Innanzitutto una forza che sappia intravede in questo il momento più opportuno per fronteggiare una volta per tutte alcuni nervi scoperti della condizione brasiliana. Per prima cosa, e per evitare inganni, dobbiamo avere ben chiaro che siamo immersi in almeno due grandi tendenze che possono essere verificate in termini politici mondiali, non solo in Brasile – e del resto, sarebbe ingenuo svincolare completamente questo paese da un rapporto di forze globale. Da un lato, come già accennato, siamo di fronte a un’internazionale reazionaria ben radicata nel laboratorio brasiliano nella sua fase insurrezionale, con temi classici e loro variabili d’ordine: Dio, Patria e Famiglia. Dall’altro lato, si è affermata una tendenza, di cui occorre fare una necessaria critica dei suoi limiti, relativa alle democrazie liberali e alle loro dinamiche di reincanto istituzionale. In altre parole, per cercare di affrontare l’attuale stato di cose, possiamo o ripetere l’argomento per cui “le istituzioni continuano a funzionare normalmente” e che “ha vinto la democrazia”, cioè rannicchiarci nel sovranismo giuridico delle democrazie liberali, nascondendo che stiamo sostenendo un diverso tipo di ordine o, al contrario, avere l’ambizione e fare lo sforzo di esporci a una potenza creativa più grande. La nostra povertà è in un certo senso anche politica. Il nostro limite, non di rado, è immaginativo, travestito da responsabilità. C’è un’insopportabilità ammorbidita da un micidiale falso realismo che riconduce solo alle stesse coordinate. Vediamo il nostro futuro sequestrato da un adesso svuotato, e dimentichaimo che un dopo non esiste. L’adesso è ciò abbiamo, e questo si caratterizza per quello che facciamo per produrre il domani.

AMNISTIA, MAI PIÙ: PER LA FINE DELLA POLIZIA

5. Sforzandosi di far circolare qualcosa di nuovo nell’orizzonte politico brasiliano, e nella direzione di quanto gridato fin dall’insediamento di Lula e ovviamente accentuato dopo l’8 gennaio, sta acquistando notevole peso un manifesto collettivo di “Anistia Nunca Mais” (“Amnistia, Mai Più”, https://www.change.org/p/amistia-nunca-mais), avendo come punto di partenza la volontà di non ripetere quanto stabilito con la Nuova Repubblica in Brasile: un’autoamnistia. Parte, cioè, in opposizione alla Legge sull’amnistia brasiliana emanata all’inizio della formale apertura democratica del paese (Legge 6.683/79), in realtà, una legge imposta dai militari che rappresenta un oblio unilaterale dei crimini contro l’umanità commessi dal regime dittatoriale, poiché nessun crimine o pena dei perseguitati dal regime si è estinto. È bene ricordare che fu proprio la Corte Suprema brasiliana, già in regime democratico nel 2010, ad avallare la costituzionalità di quella legge: vertice della Magistratura nazionale che oggi, stranamente, è diventato depositario delle speranze di progressisti nazionali forse di poca memoria – basti pensare alla complicità dell’STF con l’impeachment della presidente Dilma Rousseff, con il coro contro i soprusi nell’“Operazione Lava-Jato” e con l’arresto dell’attuale presidente Lula, solo per citare alcuni recenti casi emblematici.

Tornando al punto, questo nuovo impulso di “Anistia Nunca Mais” intende forzare il dibattito pubblico e l’azione del nuovo governo, attraverso un “Tribunale Popolare” ispirato al Tribunale Russell, a uno sforzo per non dimenticare i crimini commessi dal governo Bolsonaro durante il periodo della pandemia di Covid-19, e cerca di stimolare la discussione sulla “smilitarizzazione dello Stato brasiliano”. Agende legittime che possono istigare una forza popolare attiva necessaria e che, soprattutto, portano alla discussione alcune strategie tattico-pragmatiche riguardo a questioni fondamentali.

Se i fatti dell’8 gennaio, chiaramente, conducono in primo luogo all’esplicita conferma che la Polizia Militare (PM) brasiliana funziona come una fazione armata da sciogliere immediatamente, è soprattutto per poter fronteggiare, subito, quello che la polizia stessa significa in termini politici concreti e prendere sul serio un’iniziativa diretta per farla finita con le forze di polizia in Brasile, non solo la PM. Bisogna radicalizzare l’agenda, anche se uno scioglimento “lento, graduale e sicuro” (come amavano dire i generali all’“apertura” del regime dittatoriale) della PM potrebbe essere una valida tattica. Quindi è della polizia che si tratta. Nel caso brasiliano, la sua tradizione politica è diventata ancora più ovvia con l’adesione della cosiddetta Polizia Stradale Federale – federale, ma formalmente civile – a importante incubatrice del bolsonarismo, per non parlare del numero record di poliziotti di ogni genere emersi come candidati negli ultimi anni, culminando ora nella complicità della forza di sicurezza più pagata del Paese, la PMDF. Tutto ciò non esclude la questione urgente circa l’idoneità di questi professionisti e il requisito del licenziamento completo se si candidassero, senza alcuna possibilità di allontanamento o di congedo.

È evidente che la Polizia Militare, in quanto forza ausiliaria dell’Esercito, come determinato dalla nostra Costituzione, è una particolare escrescenza brasiliana, in quanto consente loro di svolgere con protagonismo l’ostentata attività di polizia della popolazione al di fuori dalle unità militari. Tuttavia, perdiamo la giusta attenzione politica se ci limitiamo a investire in essa per dimenticare la sua miserabile situazione. Ciò che è marcio, ora ancora più chiaramente, è stato colto già molto tempo fa. È necessario non lasciarsi ingannare dal manto democratico ed esaminare ciò che del fascismo poliziesco è andato aumentando. Il nocciolo sta nella perenne possibilità della polizia di colonizzare coestensivamente la politica. Sintomo di un’eredità ancora presente che un “Anistia Nunca Mais” non può ignorare.

È il potere della polizia ad essere il colpo di stato permanente. Proprio per questo è il principale operatore della colonizzazione della politica attraverso l’indistinzione tra violenza e diritto. Di qui il clamoroso fallimento di ogni sforzo di umanizzazione che non produce altro che l’allargamento del controllo e la depoliticizzazione della discussione, con le continue iniezioni di legittimità operate dalle sue riforme. Dovremmo aver già imparato in Brasile, prima di qualsiasi altra nazione, che il ruolo della polizia è quello di gestire, attraverso la sicurezza, le disuguaglianze di ogni tipo (razza, classe e genere). Non è mai stata, non è e non sarà mai diversa da questa realtà: la polizia esiste principalmente come produttrice di disuguaglianza reprimendo i movimenti sociali e gestendo il comportamento delle popolazioni razzializzate o di coloro che perdono in qualsiasi assetto economico e politico in vigore. Indipendentemente dalla buona volontà di chiunque, membro o meno, amministratore o accademico appassionato di riforme o meno, il suo segno indelebile è il colonialismo e la schiavitù. Affrontiamolo, insomma, come indice della bruciante insopportabilità della condizione brasiliana. E tutto questo non si fermerà con la punizione di alcuni membri delle forze dell’ordine rafforzata dall’argomentazione delle “mele marce”. La polizia in Brasile deve smettere di esistere. Parliamo di come accadrà.

LA TRAPPOLA DELLA PUNIZIONE

6. D’altra parte, il dibattito su “Amnistia, Mai Più” deve evitare di essere catturato dalla logica punitiva che rilegittima il sistema penale. È da un desiderio abolizionista che deve sorgere. Non per compiacimento con il fascismo occasionale di Brasilia – né con gli oltre 1500 arrestati (solo dopo gli attentati, poiché sul fatto non furono più di cinque) dalle forze dell’ordine o dalle masse mobilitate con i loro collaborazionisti e organizzatori – ma per evitare di rinvigorire ciò che il potere punitivo ha sempre prodotto: violenza, risentimento, sentimenti di ingiustizia, nonché responsabilità localizzate e programmate per rafforzare le vulnerabilità. Ancora, pensare che qualche futuro effetto benefico possa derivare dalla punizione, in vista della riproduzione di disuguaglianze concrete attraverso la selezione stigmatizzante di alcuni membri del corpo sociale, significa ignorare il fallimento e l’insostenibilità di qualsiasi scopo positivo della punizione statale. Nessuna insurrezione fascista è stata impedita punendo qualcuno. Nessun regime fascista ha mancato di affermarsi per paura di essere punito. Al contrario, spesso aveva la legge a suo favore. Serviranno, i detenuti, per affermare, ancora una volta, che “le istituzioni funzionano normalmente”? In qualche modo, sì, funzionano come al solito. È noto che i parenti e altre persone privilegiate furono allontanate anche prima degli sgomberi dei campi. È noto, per occhi che voglion vedere, chi ha finanziato, ad esempio, il mantenimento e il trasporto della folla nelle varie città del Brasile. Per assimilare i detenuti preventivi degli oltre 1500 arrestati negli attentati di Brasilia, che stanno entrando nel sistema, il sistema carcerario del DF ha posto sotto monitoraggio elettronico i detenuti che dovrebbero già essere conformi a regimi di semi-libertà, dimostrando che il numero di detenuti è quello che è stato deciso politicamente e dimostrando, soprattutto, chi saranno.

Depoliticizzeremo la questione cruciale o attraverso la distorsione della discussione con l’argomento di un “garantismo di occasione” (cioè “diritti umani anche per golpisti umani”), oppure con dosi di “punizione necessaria” per i “terroristi”. Vale la pena notare che entrambe le dimensioni sono quelle più naturalmente utilizzate dai settori della sinistra come reazione all’8 gennaio. Quanto stiamo vivendo assume toni ancora più surreali quando assistiamo a un Generale come l’ex vicepresidente Hamilton Mourão, ora eletto Senatore, noto difensore della dittatura militare, che chiede il rispetto dei diritti umani dei detenuti per gli attacchi a Brasilia l’8 gennaio, mentre la sinistra chiede sempre più la “punizione esemplare dei terroristi” come dichiarato dal presidente Lula. Essere ristretti a questo tipo di circolo vizioso è pericoloso. Soprattutto quando, ancora una volta, settori della sinistra grideranno all’ordine, rivendicando potere punitivo. Finiremo nella stessa servitù punitiva: una per eccesso di godimento di fronte al dolore altrui, l’altra legata agli inganni delle passioni tristi e alle gioie compensative di una punizione adeguata.

Si ripete la comune afasia della sinistra incapace di elaborare un linguaggio se non riprendendo dalla grammatica del suo nemico. Il “terrorismo”, a sua volta, sembra essersi affermato come concetto base nel lessico per classificare gli attentati. Dimentichiamo che la categoria non è solo legale. Anche se volessimo forzare il quadro controverso degli atti nella legge antiterrorismo (legge 13.260/2016), perderemmo ancora una volta la principale questione politica che mette in gioco più della classificazione penale. Andando dritti al sodo: sin dalla sua sanzione da parte di Dilma Rousseff, come condizione per la promozione di grandi eventi (Mondiali e Olimpiadi) e nell’ambito delle manifestazioni di piazza del 2013 e 2015, sappiamo bene a quali soggetti e movimenti veniva applicata quella legge. Se non ci ricordiamo, possiamo chiedere ad alcuni governatori di partiti di sinistra che non hanno esitato a usare la PM per sfratti o contro proteste di insegnanti e studenti. In altre parole, stiamo contribuendo sempre di più a sbloccare uno strumento da sempre utilizzato contro chi chiede punizioni esemplari per i terroristi.

Il trattamento stesso riservato agli eventi dai principali media nazionali, come il caso del canale televisivo Rede Globo, potrebbe essere un buon punto di partenza per analizzare a cos’altro serve questo tipo di semantica. A poco più di 10 giorni dai fatti, mentre scrivo questo testo, è già possibile vedere la transizione tra le espressioni usate: prima “manifestazioni”, poi “bolsonaristi radicali” e successivamente “terroristi”, o ancora, più comunemente al giorno d’oggi, “golpisti”. Chiamare queste pratiche “terroristiche” rimanda anche a una sorta di rispecchiamento tra opposti, visto che i terroristi c’erano sia nel 2013 che adesso, di destra e di sinistra. Ancora più problematico è quello che conta sia per l’espressione “bolsonaristi radicali” che per “golpisti”. Entrambe, in qualche modo, isolano, mimetizzano e immunizzano il bolsonarismo, confrontandosi solo con un’espressione più ristretta ed estrema di esso. Ancora una volta, funziona l’argomento delle “mele marce”, ignorando il fatto che questo tipo di presa di posizione violenta, reazionaria e golpista fa parte del fascismo bolsonarista. Allo stesso modo, il termine “golpisti” finisce per confonderli con un qualsiasi spettro politico. È anche importante osservare in tempo reale la riconfigurazione di narrazioni – ora legate anche alle forze dell’ordine – all’interno del registro, già evidenziato, della “difesa delle istituzioni”. I video registrati, solitamente forniti dalla polizia stessa, della “resistenza eroica” che ha impedito il completo saccheggio degli edifici da parte dei suoi agenti il ​​giorno degli attentati, sono già ampiamente diffusi. Dopo la palese connivenza strutturale delle forze di sicurezza pubblica e militare, si imposta letteralmente il rinnovo dell’amnistia, anche se solo attraverso la salvaguardia di parte delle istituzioni.

PER L’ABOLIZIONE DELLA GESTIONE MILITARIZZATA DELLA SOCIETÀ BRASILIANA

7. Il dibattito, dunque, è necessariamente più ampio e dovrebbe, oltre che abbandonare la convinzione di un effetto positivo che si innesca attraverso il dolore penalmente inflitto, anche riflettere su quanto già segnala la questione della polizia. Non si tratta esattamente di “demilitarizzare lo Stato brasiliano”, nonostante risulti essenziale il licenziamento di oltre seimila militari di alto rango (un numero maggiore che durante la dittatura militare che ha occupato il governo Bolsonaro nel 2021); nonostante l’identificazione delle imprese che hanno finanziato queste mobilitazioni sia una misura pienamente realizzabile (forse in riparazione si propone la loro nazionalizzazione, cosa non inedita, vedi ciò che è stato fatto con alcune imprese dopo la seconda guerra mondiale in Inghilterra e in Francia, o la delega dell’amministrazione a un consiglio dei lavoratori); nonostante l’immediata rimozione dell’alto comando delle tre forze alla riserva (si scelga il modello: o Charles de Gaule prima o Gustavo Petro oggi) così come di tutti i comandanti militari responsabili dell’omissione di fronte agli accampamenti bolsonaristi in tutti gli stati della Federazione, sia una misura di minima logica data l’insubordinazione; nonostante gli atti segreti che coinvolgono i militari – riguardanti soprattutto l’appropriazione indebita di denaro pubblico – vengano ripetutamente divulgati senza alcuna finalità di epurazione delle forze, ma come misura di prova della loro storia di incompetenza amministrativa.

Sebbene una tattica corretta abbia a che fare con lo smantellamento dello spazio di manovra dei militari in politica, bisogna perseverare e cercare di spostare l’agenda all’estremo, in modo che risultino chiare le ragioni dell’estinzione e della dissoluzione, attraverso una demolizione “lenta, graduale e sicura” delle Forze Armate in Brasile. A meno che non venga data la possibilità di discuterne. I militari sono l’amalgama che organizza, anche attraverso le loro espressioni poliziesche, la costante colonizzazione della politica brasiliana. Non occorre esaminare la formazione e l’educazione delle tre forze per capire come esse si riconoscano come potenza moderatrice della Repubblica e garanti di chiunque – per quanto qualche wishful thinking ermeneutico o altro sogno dogmatico abbia la buona volontà ( o illusione) di imporre qualche forza nella gestione interpretativa della Costituzione. I militari si sono sempre sentiti i salvatori della nazione di fronte a qualche nemico interno, reinventabile a seconda del contesto. Vedevano la tortura come legittima per difendere il paese dalla minaccia comunista e, secondo loro, dovremmo esserne ancora grati. Qualsiasi strategia pragmatica in questa direzione deve contemplare, per le Forze Armate così come per il contingente di polizia: il loro progressivo definanziamento con effetto di restringere le tecnologie a loro disposizione; l’abbandono radicale di ogni idea per cui più militarizzazione/polizia significhi maggiore sicurezza; e, soprattutto, l’intensa riduzione dell’ambito delle loro attività. Tutto questo, mantendendo l’attenzione sulle pratiche che cercheranno di riappropriarsi dei loro punti di forza, come nuovi meccanismi di formazione, trasparenza e supervisione – come se remunerazione più alta, investimenti, diversità, ecc non abbiano solo provocato il tentativo di conferir loro maggiore legittimità istituzionale.

Siamo molto lontani, quindi, dalla direzione dettata dalla dichiarazione di “Intervento federale” nella pubblica sicurezza del DF del presidente Lula. Ancora una volta si rinvigorisce la strategia di pulizia delle forze, della minoranza disfunzionale, sulla base della quale basterebbe un’epurazione e un comando diverso senza alcuna trasformazione fondamentale. Il problema del fascismo brasiliano viene affrontato proprio attraverso la via che più lo alimenta: la militarizzazione della società brasiliana, la sicurezza come registro di governo. La contingenza ci lascia in eredità questa enorme opportunità per poter, per lo meno, affrontare la discussione. L’esperienza terribile sembra non essere stata sufficiente.

Riuscire a far circolare la forza di idee come queste significa lottare contro una mancanza di realismo che evita di affrontare l’eredità storica delle Forze Armate in Brasile: non hanno mai compiuto niente di ciò che si erano prefissate, se non l’essere complici della violenza, dalla Colonia all’Impero, e come promotori e guardiani della Repubblica. Anche il disastro delle morti gestite durante la pandemia ha avuto le loro impronte digitali. Passando in rassegna capitoli come il genocidio operato nell’unica “guerra vinta” (del Paraguay nell’Ottocento); o il “ritardo” nella partecipazione alle forze alleate durante la seconda guerra mondiale, nel 1942, a causa della flagrante simpatia per le forze naziste da parte del presidente Getúlio Vargas e del suo ministro della Difesa e futuro dittatore Marechal Eurico Gaspar Dutra; o le missioni di pace ad Haiti, meglio note per i massacri guidati dal generale Augusto Heleno, nominato da Lula tra il 2004 e il 2005 (futuro ministro di Bolsonaro), passando in rassegna tutto ciò, depositare qualsiasi credito o fiducia in questo registro risulta nient’altro che un’esca istituzionale. Sarà invece importante non rinunciare a pensare ad altri modelli di organizzazione della difesa e della sicurezza proprio per non cedere e rimanere ostaggi delle forme attuali. I loro compiti costituzionali di protezione delle frontiere, di lotta al traffico illegale di armi e droga – per non parlare dell’imbarazzante situazione di connivenza delle forze armate con l’estrazione e la deforestazione illegali, ancora più evidente negli ultimi anni, nonostante il loro budget sia stato il quarto nel 2022, superando gli investimenti in salute e istruzione – bastano a confermare che “Amnistia Mai Più” significa affrontare di petto anche questo, avendo ben chiaro che tale condizione di non riconciliazione non passerà.

INFINE, FASCISMO!

8. Per quanto ci si possa restringere ad analisi congiunturali in termini di organizzazione statale, ciò che il laboratorio dell’insurrezione fascista che caratterizza il Brasile ci consente di fare, tra l’altro, è poter chiamare le cose con il loro nome: fascismo. Ad nauseam, si è giustamente insistito sull’argomentazione di Foucault nel non trattare mai il fascismo solo come un fenomeno storico o situato in un rigido regime politico statale, ma come un regime libidico che pianifica le nostre energie, cioè un modo di vivere e una forma di condotta della nostra esistenza; ancor di più, come presenza immanente nelle forme di vita egemoniche all’interno delle società liberali; qualcosa che abita tutti, ossessiona i nostri spiriti e la vita di tutti i giorni. Non intenderla in questo modo significa fare di tale condizione qualcosa di accidentale, un travisamento, perdendo di vista il fatto che si tratta del modo in cui i processi di soggettivazione si sono svolti e si svolgono, in larga misura, fino ad oggi, in cui gli individui sono stati costituiti nella modernità. Questa figura rappresenta un momento importante nell’autocritica della civiltà di Freud che Reich seppe sfruttare così bene per definire un regime fascista del desiderio: è il progresso stesso, impresso dalle istituzioni alla fonte immanente delle nostre regressioni attraverso la razionalità moderna. Dunque, quanto abbiamo visto l’8 gennaio, con la relativa reazione istituzionale, per quanto scioccante possa sembrare, non è, come facilmente vorrebbe il buon senso, il riflesso della lotta della civiltà contro la barbarie. È esattamente il contrario: quella era l’espressione bruciante della civiltà stessa, ciò che la civiltà sa produrre benissimo, rovine. La barbarie, sì, è lo stato di cose in cui viviamo, la violenza naturalizzata e razionalizzata astutamente con le argomentazioni più raffinate. Solo così porteremo al centro l’allerta di incendio benjaminiana e cominceremo a costruire il “vero stato di eccezione” della sua ottava tesi.

D’altra parte, prendere sul serio il contesto in cui viviamo significa assumerlo come rivoluzionario. Quest’ultimo da intendersi, con Reich, come un misto di “emozioni rivoluzionarie” e “concetti sociali reazionari”; in ogni caso, che ha come principio la rivoluzione, anche se, come afferma Bataille, “negata fin dal dominio interno esercitato militarmente dalle milizie”. Senza dubbio, ciò è straziante per l’ego dei rivoluzionari ortodossi che sognano l’epifania dell’emancipazione finale. A mio avviso, tuttavia, questa sembra essere la condizione per uscire immediatamente da ciò che generalmente domina il discorso critico sul fascismo, fortemente radicato in Brasile, definito proprio da Safatle come una “lettura carente del fascismo”. Non solo perché non riesce ad analizzarne le fondamenta, ma perché cerca di spiegarlo con ragioni legate a una presunta mancanza o deficienza. Così si moltiplicano i commenti sulle deficienze cognitive (solitamente ingannati da “fake news”) o morali (guidati da “odio” o “risentimento”), raggiungendo il massimo del pregiudizio nelle letture patologizzanti. La malattia, vale la pena ricordarlo, rivela di solito molto di più su quale sia il tipo di salute a cui aspiriamo, sul tipo di normalità a cui erroneamente vogliamo tornare. I sintomi sociali devono essere problematizzati.

Quindi, preferiamo non insistere su una presunta superiorità morale, né che stiamo semplicemente parlando di pazzi guidati da false notizie. C’è qualcosa di più fondamentale nella dimensione molecolare dei flussi di desiderio che lì vengono mobilitati. Pensiamo, invece, che siano più fruttuose le lezioni classiche, a partire da Spinoza (o prima da la Boetie) e seguite da alcuni come Deleuze, per cui le masse non sono state ingannate, desideravano il fascismo! In sintesi, l’illusione delle masse non basta a spiegarla. Ricorda Deleuze nella sua classica citazione: le masse “desideravano il fascismo in un certo momento, in determinate circostanze, e questo è ciò che deve essere spiegato”. Arrivano al punto di volere non solo per gli altri, ma anche per se stessi. Qui il punto centrale, esse vogliono prima ancora di giustificarsi. I meme prodotti intorno alle immagini di persone che pregano per pneumatici e muri di caserme, o addirittura di qualcuno incollato al paraurti di un camion per chilometri, possono anche essere comiche, ma non mancano di esprimere impegno ed entusiasmo invidiabili. Ciò che formerà il substrato e darà sostanza alle azioni sarà solo l’effetto di qualcosa che ci fa fare, ci altera e ci trasforma in anticipo. Da qui l’importanza degli affetti in politica, non come meri stati sentimentali, ma come forza vitale che ci spinge in avanti.

Ecco perché possiamo rischiare di dire che, in qualche modo, loro vedono benissimo il problema: l’esaurimento di un ordine che non sanno elaborare, attivando una risposta profondamente sbagliata e distorta. Percepiscono, per così dire, qualche verità con le ragioni sbagliate. Per affrontare tutto ciò, non sarà possibile ignorare questo impulso alla creazione, che dev’essere recuperato attraverso trame mutanti che generino nuovi desideri, contagino e facciano circolare nuovi mondi. È nell’intrinseca immanenza dell’esistente che la potenza si trasforma, così, in azione e in comune e da una molteplicità etica anarchica.

COSA PUÒ IL NOSTRO CORPO POLITICO?

9. Il bivio in questi momenti è sempre brusco. Ed è segnalato nel caso brasiliano da una domanda fondamentale: le forze di sinistra saranno disposte, nei fatti, a spezzare la dinamica per cui si ergono a garanti di istituzioni in rovina? Sapremo uscire da una condizione di parassitismo liberale che impedisce la radicalizzazione delle agende e che condanna le sinistre a essere gestori di politiche pubbliche accessorie? Le opportunità si restringono quando un atteggiamento codardo condanna la necessità di costruire nuovi modelli a favore del rafforzamento funzionale delle istituzioni collassate per i loro migliori aggiustamenti.

Potrebbe facilmente emergere qualche confutazione che farebbe sembrare irreali le percezioni presentate finora. Direi che irreale è, invece, il modo in cui sosteniamo l’ingiustificabile in ogni momento. Irreale è lo stato attuale delle cose. La questione risulta, quindi, non come organizzare la rivolta, ma come fare a non ribellarsi tutto il tempo. Questo passa attraverso il modo in cui intendiamo il politico. Non basterà intenderlo solo come estensione del possibile. La lezione della sorpresa dei recenti attentati– insurrezionali, anche se organizzati e pianificati – ce lo insegna in maniera pedagogica. Ed è da qui che traggono la loro forza politica. Sarà una sinistra destinata ad essere amministratrice del possibile che continuerà a stupirsi dell’impossibile compiuto dalle forze fasciste.

Recuperare le fondamenta di questa scena politica richiederebbe qualcosa di più che allargare l’area del possibile, anche se l’allargamento della sfera del possibile implica rendersi conto che, oltre alle esigenze legate all’evoluzione prevedibile della realtà presente, c’è una dimensione sempre liberabile dalle sue forme. Se è l’esperienza stessa del possibile che deve essere espressa, in una sorta di allargamento che nasce proprio da questi movimenti e ritmi altri che, a un certo punto, dilatano il pronunciabile e il visibile, questa potenza di modellazione dell’immaginario, che è sempre possibile in ogni momento, non può che provenire da un altro campo che gli dia senso: la zona di un evento che attraversa obliquamente ogni orizzonte possibile.

Questa potenza di “futuro”, per così dire, della capacità di creare futuri possibili che sfuggano a tendenze finite e percepiscano capacità comuni, non cessa di essere messa in discussione da ciò che incide sui suoi meccanismi di emergenza. Per pensare adeguatamente al suo regime di possibilità, cioè alla struttura di questi spazi di possibilità, la questione non può essere rivolta solo al “possibile”. Al contrario, la domanda non mancherà di essere convocata dall’impossibile. Questa è la richiesta, come nel motto del maggio ‘68: “sii realista, pretendi l’impossibile”. Affinché questa differenza politica radicale possa realizzarsi e farsi atto, affinché l’evento non sia amputato, è dell’impossibile di cui si parla, qualcosa che attraversa asimmetricamente, che non mi aspetto che arrivi, irriducibile a qualsiasi orizzonte di proiezione. I limiti del possibile dipenderanno sempre da ciò che a un certo punto è impensabile, indicibile, irrappresentabile e inconcepibile, anche se legato ad esso in una contaminazione inestricabile: possibile e impossibile in un’asimmetria complementare. Alla fine, questa contaminazione è sempre lì. C’è impossibile nel possibile. Momenti come quello che stiamo vivendo in Brasile possono essere lo stimolo per l’apertura oltre il prevedibile, il concordato, il politicamente proiettabile, e possibile.

Questo non si traduce in garanzia di nulla. Questa perseveranza porta con sé buone e cattive notizie. La potenza dell’impossibile, dell’evento in arrivo, può sempre portarle entrambe. Ma solo coloro che si espongono hanno una certa potenza; e maggiore è la potenza, maggiore è la capacità di essere influenzato dal nuovo, anche sotto lo sforzo che dovrà affrontare di fronte a qualsiasi tipo di pressione. Guadagneremo complessità e portata solo a prezzo di una maggiore affettazione, proprio quella che può farci soffrire. Quanto possiamo, solo le nostre forze lo diranno. La guerra è appena iniziata.

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