Riprendiamo quest’intervento di Infosex – Esc Atelier, pubblicato su Dinamopress, che restituisce bene il senso del percorso apertosi con le due giornate del 26 e 27 novembre di Nonunadimeno

di INFOSEX – ESC ATELIER

26 novembre 2016: Roma è tornata a essere bella. Donne di tre generazioni differenti hanno aperto e attraversato una manifestazione oceanica, moltitudinaria, di oltre duecentomila corpi sessuati che hanno rotto e diradato la nebbia della prima mattina, il grigio, l’asfissia e l’immobilismo che ormai sembravano regola, battito monotono e irreversibile, del quotidiano. Il sole splende di nuovo, le strade pulsano di vita, desiderio, gioia, quei corpi si intrecciano, confondono, compongono: è marea. Non quella evocata per puro esercizio retorico o strana licenza poetica – slogan spesso tanto più arroganti quanto più frustrati –, ma marea vera, che si riappropria della presa di parola pubblica, dello spazio comune, impersonale, inappropriabile e, perciò stesso, profondamente ed eminentemente politico. Del resto si sa, con le donne non c’è Uno che tenga, che esso sia il Sovrano o il Popolo. Una moltitudine dunque, ma non indistinta, piuttosto parziale e (orgogliosamente) differenziata, quella che si è ingrossata e ha preso forma in questi mesi – ma forse dovremmo dire anni – di lavoro, il più delle volte invisibile, nei centri e negli sportelli anti-violenza, nei quartieri, negli spazi sociali, nelle scuole e nelle università, quella che è scesa in piazza lo scorso sabato per dire basta alla violenza maschile sulle donne.

Ma per leggere e interpretare cosa si è dato il 26 novembre a Roma e già prima nelle piazze di tutto il mondo occorre allargare lo sguardo e partire da lontano, ripercorrere lo sviluppo e l’intimo intreccio tra antiche strutture patriarcali, modi di produzione e governo dei corpi. Forse il maggiore contributo della critica femminista all’analisi marxiana della genesi dei modi di produzione capitalistici è stato quello di ampliare lo schema fondamentale della cosiddetta accumulazione primitiva. Le recinzioni messe in atto agli albori della modernità non hanno riguardato primariamente ed esclusivamente le terre, i primi spossessati non sono stati i contadini, ma i corpi delle donne. Con essi, i loro saperi e poteri, un modello altro di comunità. Meglio: la traccia, a mezzo di violenza, di un confine netto tra produzione e riproduzione, la recinzione delle donne – per dirla con Ivan Illich – nello spazio chiuso del focolare domestico è stato ciò che ha reso possibile il lavoro di fabbrica e, quindi, lo sviluppo capitalistico. Presupposto per troppo tempo non detto delle enclosures è stata la “caccia alla streghe”, questo il grande insegnamento di Silvia Federici e, con lei, di un certo femminismo.

Come è noto la storia non ha un decorso lineare e ascendente, ma procede per salti e discontinuità, arretramenti e giri a vuoto, arresti e improvvise accelerazioni. E mai come oggi, in una rinnovata fase di ristrutturazione capitalistica, non solo l’idea di progresso torna a mostrare il suo volto propriamente ideologico, ma l’eterogeneità temporale che caratterizza la produzione contemporanea – quella che tiene insieme hi-tech e nuove forme di lavoro schiavile – subisce una radicale intensificazione. Nuova accumulazione originaria che porta necessariamente con sé processi di rifeudalizzazione, quindi di inusitata ed efferata combinazione di arcaico e (post)moderno, brutale ricolonizzazione dei corpi stessi che, ancora una volta, colpisce in primo luogo le donne.

Bisogna partire da qui se, materialisticamente, si vuol comprendere il fenomeno della violenza di genere come fenomeno strutturale e non emergenziale. Bisogna partire da qui per capire e cogliere il senso profondo che lega le forme specifiche di sfruttamento del lavoro femminilizzato alle ultime e diverse proposte di legge che ambiscono, con rinnovata efferatezza, a controllare e catturare la facoltà riproduttiva delle donne, a distruggere l’accesso all’aborto, a limitare drasticamente la libertà di scelta. Perché ai processi di nuova accumulazione primitiva, spossessamento ed espulsione corrispondono sempre nuove tecniche di disciplinamento e governo dei corpi. Bisogna perciò, una volta di più, partire da qui per afferrare la straordinarietà e la centralità delle lotte delle donne che si stanno dando in tutto il mondo: dall’Argentina alla Polonia, dal Messico alla Turchia, dal Cile all’Islanda, dal Brasile all’Italia.

Un nuovo movimento femminista globale è nato da queste premesse, lo abbiamo visto a Rosario, Varsavia, Città del Messico, Istanbul, Santiago, Reykjavík, Sao Paolo, Roma. Il suo metodo è fatto di solidarietà, di creazione di nuove forme di mutuo sostegno e auto-difesa, di traduzione – Ni Una Menos, Non Una Di Meno, Not One Less –, nella consapevolezza che la partita in gioco ha a che fare con la riconfigurazione del comando capitalistico che, in quanto tale, si muove e agisce al di là dei confini nazionali. Un nuovo femminismo che è finalmente combinazione virtuosa e alleanza reale non solo tra diverse generazioni, ma anche e soprattutto tra diversi femminismi. Che ha rimesso al centro l’intersezionalità come pratica per immaginare forme di resistenza all’altezza dei dispositivi di controllo e di sfruttamento contemporanei, i quali sollecitano e intensificano la produzione delle differenze per estrarne valore. Riprendendo e riattualizzando le suggestioni del Black Feminism, del femminismo decoloniale e queer, si tratta di andare oltre l’idea di un ipotetico essenziale femminile, di praticare l’intersezione delle differenze e delle lotte delle e dei subaltern* del mondo per sovvertire i meccanismi di sussunzione e cattura e imporre nuove pratiche di liberazione e autodeterminazione.

In tal senso la marea che è scesa in piazza il 26 è stata (e vuole essere) una marea parziale, di parte – la “parte dei senza parte”, direbbe Rancière –, che ha intrecciato e combinato assieme le rivendicazioni delle donne con quelle delle soggettività transfemministe, delle e dei migranti, delle studentesse e degli studenti, delle e dei precari. La produzione contemporanea, infatti, fa leva sulla cosiddetta femminilizzazione del lavoro, categoria con la quale si intende non solo la generalizzazione a tutta la forza lavoro di ciò che storicamente ha caratterizzato il lavoro femminile – intermittenza, supplementarietà, gratuità –, ma anche la messa a valore delle forme di vita, delle capacità di cura e relazionali e, quindi, il divenire labile del confine tra produzione e riproduzione, il divenire immediatamente produttivo della riproduzione.

È dalla materialità delle loro vite che le donne in tutto il mondo si stanno sollevando, affermando un nuovo ordine del discorso rispetto al problema della violenza di genere: violenza allora non è solo quella fisica, il cui ultimo e tragico esito è il femminicidio, ma quella generata da un sistema complessivo di produzione e sfruttamento che utilizza strutture arcaiche e patriarcali, di segmentazione e segregazione sociale. Si articola ed esprime sui luoghi di lavoro, attraverso le molestie e le discriminazioni, la disparità salariale, i sotto-compensi, il lavoro gratuito, attraverso l’assenza di un welfare universale e individualizzato capace di garantire l’indipendenza economica e quindi una reale possibilità di autodeterminazione, nelle strutture sanitarie pubbliche, nelle “crociate anti-gender” tra i banchi di scuola, negli sgomberi e nel definanziamento dei centri anti-violenza e dei presidi delle donne. Ancora, violenza è quella che vuole le donne vittime, silenziose e addomesticate, che pretende di tappare le loro bocche, di oscurarle mediaticamente quando queste tornano a gridare, ad affermare la propria potenza e libertà.

Ed è da qui, dalla parzialità dei corpi delle donne su cui è inscritta la coesistenza e l’intreccio di produzione e riproduzione che può ripartire un movimento radicale, capace di farsi moltitudine, in grado di opporsi alle più complessive logiche e politiche neoliberali, all’intensificazione dello sfruttamento, al controllo della vita in quanto tale.

Fiere di essere incompatibili con questo sistema, le donne si sono rimesse in movimento: a Roma, lo scorso 27 novembre, la marea si è raccolta in un’assemblea che ha visto la partecipazione di oltre 1500 persone e ha iniziato il lavoro di scrittura dal basso di un Piano Femminista contro la violenza che tenga conto della complessità e dell’ampiezza del discorso al riguardo e, quindi, delle nostre rivendicazioni su salute, libertà di scelta, lavoro e welfare, educazione e formazione, nuovi modelli di mutualismo e auto-difesa. Rivendicazioni che non si inscrivono semplicemente ed esclusivamente nella cornice delle politiche istituzionali, ma che vogliono farsi – e già sono – immediatamente strumento di lotta e trasformazione.

Per questo è stato accolto anche a Roma, come ormai in 22 paesi in tutto il mondo, l’appello delle argentine che lancia lo sciopero globale delle donne per il prossimo 8 marzo 2017. Il mondo dovrà fare esperienza di cosa significa “un giorno senza di noi”, senza le donne, senza quella parzialità che è diventata paradigma dei modi contemporanei dello sfruttamento. Si tratterà allora di capire cosa vuol dire oggi bloccare la produzione e la riproduzione globali, la messa a valore delle cosiddette soft skill, dei nostri stili di vita, dei generi che ci vengono imposti, del lavoro invisibile e gratuito. Uno sciopero sociale e politico, quindi, che sia anche innanzitutto sciopero dai generi, blocco e sovversione dei meccanismi di cattura e controllo delle differenze e delle soggettività. Reinventare la pratica dello sciopero a partire dalla parzialità femminista, questa è la sfida, ricostruire il comune dello sciopero muovendo dal punto di vista di questa moltitudine differenziata, tornare a far male al capitale, a inceppare l’ingranaggio, con la tensione di chi vuole e pretende un cambiamento radicale. Da oggi la marea ritorna in movimento, al grido di “Se la nostra vita non vale, producete senza di noi!” inonderà le strade di tutte le capitali globali, bloccherà il mondo.

Chi ha paura della marea, di questa marea, inizi a tremare.

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