Di ROBERTO CICCARELLI.

La rinuncia di Amazon a costruire il suo “quartiere generale” a New York è un evento nella recente storia del capitalismo delle piattaforme. È stato prodotto da almeno tre fattori: l’affermazione politica dei movimenti anti-gentrificazione nel Queens e delle reti di organizzazione politica comunitaria (community organizing), vicine all’ala sinistra del partito democratico che ha scosso l’establishment democratico (il sindaco di New York Bill De Blasio e il governatore dello Stato Andrew Cuomo) favorevole all’accordo; l’opposizione al modello di organizzazione del lavoro di Amazon; il frutto anticipato della crisi del mercato immobiliare che sta avanzando negli Stati Uniti.

New York resta una tech city. Google ha annunciato il 17 dicembre 2018 di volere insediarsi a New York, portando 14 mila posti di lavoro, sfruttando gli sconti fiscali offerti da Trump, ma senza chiedere incentivi statali come ha fatto Amazon. La grande mela resta un polo importante dell’industria tecnologica: per Amazon lavorano cinquemila persone, nell’e-commerce e nell’ingegneria del cloud computing. Altre duemila lavorano per Facebook, mille per Salesforce. Senza contare i duemila che lavorano per Goldman Sachs, oltre a quelli delle altre aziende della finanza. Il tech work è un settore ad alto valore aggiunto che ha attratto 5,9 miliardi di dollari nelle start up dell’area metropolitana. A San Francisco, nel terzo quadrimestre del 2018 gli investimenti sono stati pari a 12,8 miliardi di dollari.

Nell’ultimo decennio le università si sono lanciate nella competizione: la Columbia University e la New York University hanno potenziato le facoltà di ingegneria e scienze per attrarre gli studenti, hanno acquisito nuovi edifici per attrarre nuovi investimenti. Nella concorrenza tra East Coast e West Coast l’insediamento di Amazon a New York avrebbe potenziato la trasformazione della città in un mercato tecnologico concorrenziale con la Silicon Valley. Moltiplicando così le disuguaglianze sociali che hanno devastato San Francisco o Seattle.

La considerazione che, più di altre, ha spinto all’aggregazione e all’organizzazione di una campagna che sembrava impossibile, eppure ha prodotto un risultato imprevedibile, è la seguente: Amazon, la più ricca e potente azienda digitale e di e-commerce del mondo, non ha bisogno di incentivi per investire. La promessa di creare da 25 a 40 mila posti di lavoro spalmati su diversi anni non è stata considerata valida a tal punto da riconoscere benefici fiscali importanti. È stata più forte la convinzione di un aumento delle tasse per coprire previsioni sbagliate, la crescita degli sfratti e dell’aumento degli affitti in città, l’aumento delle differenze salariali in una città dove la diseguaglianza tra i redditi è una delle più alte del paese: lo 0,5 del coefficiente Gini. Il 20,4% delle famiglie guadagna più di 150 mila dollari, il 26,5% guadagna meno di 25 mila dollari. La maggior parte dei lavori che Amazon avrebbe portato insistono sul percentile più alto della scala. A New York il salario medio nel settore tecnologico è 147.300 dollari medi all’anno.

In un’economia-mondo come quella tecnologica, dove sono le metropoli a farsi Stati concorrendo tra loro per accaparrarsi investimenti miliardari, la decisione di Amazon resta enigmatica. L’eliminazione del secondo quartiere generale dopo quello di Seattle, proseguendo i nuovi insediamenti a Nashville in Tennessee  e a Arlington in Virginia, potrebbe essere stata motivata dalla crescente incertezza dei mercati finanziari e dalla probabilità di una recessione che si profila appena oltre l’orizzonte e dall’accresciuta resistenza dei concorrenti in tutto il mondo. Le sue azioni, nonostante l’impetuosa ripresa del mercato azionario dalla vigilia di Natale, sono calate di quasi il 20% rispetto al picco di fine agosto 2018. E non esagerare nel costruire un palazzo enorme potrebbe essere stata una mossa per tagliare i costi che l’operazione avrebbe comportato, al netto dei tre miliardi di dollari pubblici promessi in incentivi, ma ancora da intascare.

I movimenti di base nel Queens

La contestazione del mega-piano di insediamento a Long Island City nel Queens è iniziata prima dell’accordo con la città e lo Stato di New York, nell’anno in cui Amazon ha scatentato un’impressionante gara tra le città e gli stati americani che si sono svenati nell’offrire miliardi di incentivi per convincerla a insediarsi sul proprio territorio.

La costruzione della lotta, l’intreccio delle coalizioni tra movimenti di base e sindacati, non privo di contraddizioni, tra gli eletti democratici e le alleanze tra i lavoratori che contrastano lo strapotere del capitalismo digitale negli Stati Uniti è un modello di azione politica. Lo è ancora di più considerato il fatto che, a sentire i sondaggi, la maggioranza della popolazione di New York si è detta favorevole all’insediamento di Amazon.

Nello schema del pro-contro vale la capacità di organizzarsi da parte di una minoranza. E un fatto: una coalizione politica si è organizzata e ha vinto. Ma questo non basta. Avrebbe potuto vincere un’altra componente favorevole alle modalità scelte dalle autorità politiche, tra l’altro del partito democratico. Dalle prime reazioni, in una manifestazione del 16 febbraio 2019 che ha celebrato la vittoria, si è compreso che gli attivisti sono consapevoli di avere iniziato un nuovo percorso. Intendono convincere la maggioranza su un uso diverso dei tre miliardi di dollari di incentivi statali. “Questo significa investire in alloggi, in transito, nell’istruzione, nello sviluppo della forza lavoro” ha detto Fahd Ahmed, un organizzatore di Desis Rising Up & Moving, un gruppo che sostiene i residenti dell’Asia meridionale a basso reddito nel Queens, un quartiere dove è in corso il più grande sviluppo di edilizia pubblica della nazione, Queensbridge Houses, a pochi isolati dal sito proposto a Amazon.

Da metà novembre 2018 una coalizione di associazioni si è mobilitata porta a porta sulla base di una campagna e di una serie di principi. Il titolo della dichiarazione è esplicito: Fuck Off Amazon – No AmazonHQ2 Principles of Engagement & Statement.

La coalizione che l’ha firmata è composta dalla Brooklyn College Student UnionCraash HunterCUNY StruggleDecolonize This PlacePolitics RebornQueens Anti-Gentrification Project, Sunset Park for a Liberated Future, Take Back The Bronx. Ciascuna di queste sigle è una rete di reti sociali, piattaforme politiche territoriali che usano gli strumenti digitali per creare e amplificare la partecipazione ispirata ai beni comuni urbani, ai diritti civili e sociali, alla redistribuzione della ricchezza sociale.

È interessante passare al setaccio la composizione politica delle reti associative che si sono mobilitate per chiedere l’uso dei tre miliardi di dollari pubblici per finanziare l’edilizia sociale, le università e le scuole, il welfare della città e dello stato di New York. Sono organizzazioni fluide e trasversali, risultati della confluenza di gruppi metropolitani che intrecciano le istanze della giustizia sociale con quelle anti-razziste e anti-sessiste e una politica di “decolonizzazione” nelle arti, soprattutto la poesia, tra le comunità, anche palestinesi, che convivono nel Bronx e nel Queens.

Un esempio è Decolonize this place composta da Aida Youth Center—Palestine, AKA Exit, Al-Awda NY,  Black Poets Speak Out, Bronx Not For SaleChinatown Arts Brigade, Common Practice New York, Direct Action Front for PalestineEl SalónGlobal Ultra Luxury Faction (G.U.L.F.)Hyperallergic, Insurgent Poets Society, Jive Poetic, Mahina Movement, NYC Stands for Standing Rock Organizing Committee,  Queens Anti-Gentrification ProjectTake Back The BronxTidal: Occupy Theory, Occupy StrategyWing On Wo & Co.Woman Writers Of ColorWorking Artists and the Greater Economy (W.A.G.E.)Comité Boricua En La Diáspora, Justice for Akai Gurley Family.

Politics Reborn è un’esperienza utile per comprendere la natura dell’attivismo politico che ha segnato il clamoroso rovescio nella recente storia del capitalismo delle piattaforme. Si tratta di un gruppo fondato da volontari che si sono riuniti per sostenere la campagna presidenziale 2016 di Bernie Sanders. È guidata da Donnie e Jo-Ann Whitehead, tra gli organizzatori di comunità più esperti nel sud-est del Queens. La loro casa a St. Albans nel Queens  è stata usata come base elettorale di Sanders. Hanno aiutato Barack Obama a vincere la maggioranza nel quinto distretto congressuale di New York nella Primarie democratiche del 2008 contro Hillary Clinton.

Sono l’espressione di una tipologia di movimenti di base [grassroots] americani che agiscono nelle città. Elaborano le istanze, fanno pressione sugli eletti, contribuiscono alla loro campagna elettorale e, talvolta, li aiutano a vincere. Com’è accaduto nelle elezioni di MidTerm del 2018 che hanno segnato l’ingresso nel Congresso americano di una nuova generazione di attivisti come Alexandria Ocasio-Cortez.

Il Cuny struggle è un collettivo di studenti dell’università newyorkese che chiede di usare gli ingenti fondi per pagare “salari decenti ai docenti, sistemare le sue infrastrutture, e non aumentare le tasse”. “L’amministrazione pensa che va bene che i soldi dei contribuenti vadano a finanziare un eliporto per la persona più ricca del mondo [una delle condizioni imposte dal proprietario di Amazon Jeff Bezos al sindaco di New York De Blasio, ndr.] invece che per il CUNY. L’amministrazione pensa che sia giusto inviare gli studenti in un’azienda che sfrutta i suoi lavoratori e aiuta la polizia e le forze dell’ordine a identificare e sorvegliare le persone e sviluppare la tecnologia di riconoscimento facciale piuttosto che cercare veramente di proteggere e sostenere gli studenti privi di documenti”.

Il Queens anti-gentrification project lavora da anni contro le speculazioni immobiliari a Woodside, Jackson Heights, Sunnyside e in tutto il Queens. “Ci opponiamo a tutti i progetti che mirano ad attrarre sviluppatori immobiliari aumentando la densità abitativa e il valore del terreno – scrivono gli attivisti – Crediamo nei diritti degli inquilini e nel diritto dei quartieri di mantenere la continuità da una generazione all’altra”. Sono almeno due le ragioni per opporsi all’operazione di Amazon a New York: la speculazione immobiliare avrebbe contribuito ad aggravare il processo di gentrificazione a cui è soggetta l’area e le politiche anti-sindacali di Amazon.

“New York è nel bel mezzo di una crisi abitativa e dei senzatetto che peggiora ogni anno. Gli affitti sono alle stelle, i quartieri si stanno imborghesendo, l’edilizia pubblica è in completo degrado – aggiungono gli attivisti – Invece di affrontare questa crisi attraverso investimenti pubblici per gli immigrati e la classe operaia, la città ha mantenuto una politica di spostamento accelerato attraverso le sue devastanti politiche di zonizzazione, in particolare il programma di inclusione obbligatoria degli alloggi e attraverso partenariati pubblico-privato”.

La pressione creata da questi movimenti sugli eletti democratici al Senato e alla Camera, come sui vertici della città e dello Stato di New York ha portato gli eletti del distretto come il senatore Michael Gianaris a rilasciare dichiarazioni contrarie alle sovvenzioni. Gianaris è stato nominato a far parte di un consiglio di stato che avrebbe avuto il diritto di veto sui piani di sviluppo di Amazon. Questo è stato, probabilmente, il colpo decisivo che ha costretto Amazon al ritiro.

Nel 2017 Gianaris ha firmato una lettera a Bezos, insieme al consigliere comunale Jimmy Van Bramer. A cavallo delle elezioni di Midterm, che hanno rivelato un significativo spostamento a sinistra del partito democratico a New York, entrambi sono diventati fieri avversari dell’accordo che solo un anno prima avevano chiesto a Amazon. A loro favore ha giocato la scelta di De Blasio e Cuomo di accordarsi con Amazon senza coinvolgere a dovere gli organi istituzionali della città.

La sconfitta di Seattle

L’affermazione di principi di politica urbanistica anti-capitalista e anti-liberista (no allo scambio tra urbanizzazione e sgravi; no allo scambio tra compensazioni urbanistiche e investimenti nelle infrastrutture pubbliche da parte dei privati, ad esempio) va considerata rispetto a quello che è accaduto a Seattle nell’ultimo quinquennio.

In questa città, sede di giganti come Boeing o Starbucks, Amazon ha contribuito al processo di gentrificazione dei quartieri, aumentando gli affitti per una forza lavoro qualificata proveniente da tutto il paese. È stato uno dei fattori che ha aumentato l’impoverimento delle classi medie e lavoratrici locali. Il numero dei senza tetto è aumentato in maniera drammatica: 12 mila persone nel 2017.

Il consiglio comunale di Seattle ha cercato di approvare una “tassa Amazon” da fare pagare alle multinazionali con almeno 20 milioni di dollari di reddito lordo annuo imponibile. Ai dipendenti sarebbe stata applicata un’aliquota di 26 centesimi all’ora nel 2019 e nel 2020, pari a 275 dollari a testa. Il gettito fiscale sarebbe stato destinato alla costruzione di alloggi a prezzi accessibili e alla fornitura di servizi per i senzatetto.

Nel 2006, Seattle aveva aumentato un’imposta sulle ore di lavoro dei dipendenti. Le aziende erano tenute a pagare un’imposta trimestrale basata sul totale delle ore di lavoro dei dipendenti in città. L’imposta è stata assurdamente, ma non casualmente, abrogata nel 2008 durante la recessione. Dieci anni dopo, nel maggio 2018, viste le conseguenze devastanti delle politiche fiscali che hanno premiato le multinazionali, il consiglio comunale ha cercato senza riuscirci di riattivare l’imposta sulle ore di lavoro (chiamata “Head Tax”, conosciuta come la “tassa Amazon”) per affrontare la crisi abitativa.

Nel giugno 2018 il provvedimento è stato ritirato a seguito di una furibonda campagna, finanziata dalle aziende. Lo slogan era: “Nessun lavoro con le tasse”. Negli Stati Uniti è stato uno scandalo perché nessuno ha contestato gli incentivi che la città di Seattle, e lo Stato di Washington, assegnano a queste mega-imprese. Due milioni e novecentomila dollari alla Boeing solo nel 2013, ad esempio. La spinta decisiva che ha prodotto questo clamoroso rovescio è stata data dalla minaccia di Amazon di interrompere la costruzione di una torre e di un grattacielo in città. Sul piatto c’erano altri settemila posti di lavoro.

Questa storia è stata decisiva per la crescita dell’opposizione alla speculazione di Amazon a New York. Ciò che ha indignato i cittadini è stata la subalternità del governatore dello Stato di New York. Andrew Cuomo ha detto che, se la trattativa fosse andata a buon fine, avrebbe cambiato il suo nome in “Amazon Cuomo”. Non lo ha fatto. In compenso ha accettato di sospendere i poteri pubblici che decidono sull’uso del patrimonio urbanistico.

La convinzione per cui Amazon avrebbe portato posti di lavoro non era certa. Lo si è visto a Seattle dove una buona parte dei lavoratori qualificati sono arrivati da fuori. Ciò ha portato all’aumento degli affitti che ha penalizzato gli abitanti esclusi dal mercato del lavoro, o impiegati in settori a basso reddito. La conferma è arrivata dalla previsione sull’aumento dei prezzi immobiliari fino al 50 per cento nelle zone vicine alle della metropolitana di Long Island City. La più grande operazione urbanistica del nuovo secolo avrebbe avuto un impatto preoccupante a New York.

La battaglia di New York vista dai sindacati

Nelle argomentazioni della coalizione metropolitana usate contro Amazon erano presenti le osservazioni critiche sulle condizioni di lavoro e l’opposizione dell’azienda all’organizzazione sindacale dei suoi lavoratori. Il riferimento non è casuale. I sindacati hanno esercitato una pressione sui vertici politici della città e dello Stato per ottenere da  Amazon ciò che non ha concesso altrove. Un incontro decisivo a tal proposito è avvenuto poche ore prima della resa dell’azienda negli uffici di Andrew Cuomo.

Con i rappresentanti dell’azienda erano presenti gli esponenti del sindacato del commercio al dettaglio Retail, Wholesale and Department Store Union che organizza 2.500 persone a Staten Island, i Teamsters e della A.F.L.-C.I.O e altre cinquanta sigle. Avrebbero discusso sulla non ostilità dell’azienda contro i sindacati, né contro i lavoratori che avrebbero cercato di organizzarsi; su un processo elettorale sindacale equo e sull’accesso del sindacato ai lavoratori. Amazon avrebbe anche accettato queste condizioni, ma la rinuncia all’operazione avvenuto il giorno dopo, a San Valentino a seguito di una riunione aziendale di 11 ore, ha dimostrato il contrario.

L’opposizione sindacale al progetto di Amazon era esplosa a gennaio quando la presidente del consiglio comunale di New York Corey Johnson aveva domandato a Brian Huseman, vicepresidente delle politiche pubbliche di Amazon, se l’azienda avrebbe mantenuto un atteggiamento neutrale con i lavoratori organizzati in un sindacato. Huseman ha risposto “No”.

Un atto di arroganza che ha irrigidito i sindacati in una città dove è stato a lungo impedito a Walmart, un’altra azienda non sindacalizzata, di aprire una sede. Questo atteggiamento ha rafforzato la coalizione anti-speculazione che è riuscita politicamente a incrinare l’asse con i vertici politici della città e dello Stato e con due sindacati favorevoli all’accordo: il potente sindacato 32BJ Service Employees International Union e il Building and Construction Trades. Per il primo la rinuncia di Amazon è stata “una perdita per la città”. “Penso che se i sindacati non mostrano solidarietà reciproca, allora il movimento sindacale è destinato a fallire e le condizioni di lavoro continueranno a peggiorare” ha risposto Stuart Appelbaum, capo della Retail, Wholesale and Department Store Union.

Il problema non erano i 25 mila posti di lavoro in sé, ma il modo di organizzare il lavoro di Amazon che crea una disparità enorme tra i colletti bianchi e i lavoratori esecutivi all’interno di un sistema che moltiplica il precariato. È su questo che i favorevoli all’accordo hanno perso la battaglia e i sindacati si sono spaccati. Il merito dei movimenti del Queens è stato quello di inserirsi in questa contraddizione, spostando a proprio favore l’orientamento politico. A loro favore può anche avere giocato la sottovalutazione della situazione da parte di Amazon. L’azienda non ha lanciato una contro-campagna, ad esempio. Sembra che i contatti con i vertici politici siano stati affidati a un solo lobbista che faceva la spola tra New York e Washington. I movimenti hanno usato a loro favore questo atteggiamento singolarmente remissivo da parte di un’azienda molto aggressiva sulla comunicazione.

La campagna sindacale è stata battente. La Retail, Wholesale and Department Store Union ha pubblicato un dossier che ha descritto l’attitudine anti-sindacale di Amazon. Nell’analisi del National Council for Occupational Safety and Health, ad esempio, ha inserito l’azienda nella “sporca dozzina” di quelle che mettono a rischio i lavoratori con le loro pratiche insicure. Sette lavoratori sono morti nei magazzini di Amazon dal 2013 – tra cui tre nell’arco di cinque settimane in tre sedi diverse nel 2017.

Quando un gruppo di dipendenti Whole Foods di proprietà di Amazon ha lanciato una campagna sindacale nel 2018, l’azienda ha pubblicato un video di formazione aziendale intitolato “Formazione del lavoro” per i dirigenti. Il video, raccontato dal sito Gizmodo, contiene le sfumature usate dall’azienda, nei suoi comunicati e nelle argomentazioni dei lavoratori nominati “ambasciatori” del marchio sui social network. “Non siamo contro i sindacati, ma non siamo nemmeno neutrali”.  “Non crediamo che i sindacati facciano l’interesse dei nostri clienti, dei nostri dipendenti e dei nostri collaboratori e cosa più importante dei nostri azionisti”. Alla luce di queste regole il video fornisce consigli ai manager sull’individuazione dell’attività sindacale e li incoraggia a limitarla aggirando la legge nazionale sui rapporti di lavoro. Amazon ha reagito sottolineando che la retribuzione media negli Usa è pari a 15 dollari, straordinari esclusi, ai quali si aggiungono benefit per gli impiegati a tempo pieno.

Bernie Sanders e Elizabeth Warren, due pesi massimi dei Democratici, hanno scritto una lettera chiedendo di acquisire il video.  Sanders ha promosso un disegno di legge volto a costringere aziende come Amazon a pagare ai lavoratori salari più alti. Lo “Stop Bad Employers by Zeroing Out Subsidies Act”, detto anche “Stop Bezos Act” – tassa i datori di lavoro come Amazon quando i loro dipendenti richiedono prestazioni federali. La campagna ha avuto successo: a partire da novembre 2018 Amazon ha aumentato il salario minimo a 350 mila lavoratori.

Sull’orientamento dell’azione politica della coalizione anti-gentrificazione e dei sindacati ha pesato anche la previsione di un taglio dell’occupazione in un settore lavorativo tradizionale a New York, quello della vendita al dettaglio del fai da te [brick-and-mortar retail]. Tra il 2014 e il 2016 questo settore ha perso 200 mila posti di lavoro, mentre il concorrente diretto Amazon li ha aumentati. La perdita netta sarebbe di 169 mila unità , sostiene l’Institute for Local Self Reliance.  Il suo potere di mercato ora rivaleggia, o supera, quello di Walmart, ed è destinato a crescere: Entro cinque anni, un quinto del mercato al dettaglio americano, pari a 3.6 trilioni di dollari, si sarà spostato online. Amazon intende occuparne due terzi.

L’organizzazione del lavoro in Amazon

La mobilitazione dei sindacati a New York è dovuta al fatto che Amazon, come piattaforma digitale, è un sistema di organizzazione della forza lavoro dentro e fuori i magazzini. Agisce, in primo luogo, sostituendo i rapporti tradizionali con il nuovo sistema della flessibilizzazione della prestazione e della trasformazione dei lavoratori, soprattutto degli autisti che consegnano la merce, in “auto-imprenditori”.

Dal 2015 Amazon Flex permette a chiunque abbia più di 21 anni, patente di guida e un’auto di diventare autista per le consegne. Basta passare un controllo dei precedenti penali, scaricare un’applicazione. In due ore è possibile iniziare a  ritirare i pacchi dai centri di Amazon, prendere gli ordini da ristoranti e negozi che partecipano al servizio e consegnarli ai clienti. È lo stesso modello adottato da Uber per il trasporto privato non di linea, ma il modello è più ambizioso.

Amazon ha costruito una propria infrastruttura di consegna. Ha più di 20 centri di smistamento e dozzine di centri di consegna sparsi nelle città americane e in tutto il mondo. L’idea è sostituire, o perlomeno affiancare, il sistema nazionale delle Poste, e annientare i concorrenti. Nel corso degli ultimi tre anni, la quota dei pacchi consegnati da UPS e altri è sceso dal 49 al 36 per cento. La strategia si regge sull’outsourcing della forza lavoro.

Amazon si rivolge a corrieri regionali che, a loro volta, stipulano contratti con autisti freelance per effettuare consegne. Dal 2014 al 2016 la loro quota di consegne è triplicata dal 5 al 15 per cento. Sono questi i corrieri che effettuano le consegne con i sistemi Prime e Prime Now in un’ora o due. Sono in grado di farlo, perché i subfornitori scaricano i costi sulle spalle dei loro autisti che in molti casi sono trattati come dipendenti, ma ai quali sono negati i benefici e la sicurezza del rapporto datore di lavoro – dipendente. Questo tipo di classificazione errata permette a tutte le aziende della piramide della fornitura di risparmiare sull’assicurazione infortuni sul lavoro e sulle imposte sui salari, sulla retribuzione degli straordinari. Gli stessi lavoratori sono gravati da maggiori spese, tra cui l’imposta sul lavoro autonomo e l’assicurazione sanitaria.

Amazon è un potente agente della grande sostituzione in atto nel lavoro. Non quello dei posti di lavoro con i robot, o con i droni, ma quella ben più concreta della trasformazione del lavoro salariato in lavoro a tempo parziale, interinale, a termine, a partita Iva o dell’auto-impresa. Gli effetti sono evidenti nell’economia degli Stati Uniti dove il processo è più avanzato. Tra il 2005 e il 2015 questi lavori sono cresciuti dal 10 al 16 per cento della forza lavoro. La crescita dell’occupazione, registrata già sotto la presidenza Obama, e proseguita nei primi due anni di Trump, conferma il dato.

In questa strategia non è esclusa la robotizzazione del lavoro. Il processo non va tuttavia inteso in maniera unilaterale: non sostituisce il lavoro umano, lo automatizza. Ciò non esclude la sua cancellazione in determinati settori, come nella futuribile e molto propagandata logistica dell’ultimo miglio effettuata dai droni, anche se il Pentagono e i militari di tutto il mondo sono a dir poco perplessi. Amazon Robotics coltiva, da anni, simili aspirazioni, ma non è questo il modo in cui realmente sta procedendo con l’automazione.

L’azienda non sostituisce gli umani con i robot, ma velocizza il lavoro dei primi attraverso i secondi. Ciò comporta un appesantimento dei carichi di lavoro a cui non corrisponde un aumento salariale, ma l’aumento dei rischi per l’integrità fisica dei lavoratori che si trovano ad eseguire i loro compiti in maniera più pressante, monitorati attraverso le macchine. L’aumento della produttività della forza lavoro presuppone un alto turn over dei lavoratori.

La suggestione dell’automazione totale è uno strumento di coazione e persuasione potentissimo per rendere subalterna la forza lavoro alla potenza di un’azienda che sfrutta la verosimiglianza di una profezia scambiandola con la realtà del presente. I veri droni, in carne ed ossa, sono i corrieri freelance che lavorano per gli agenti sub-accomandatari regionali, o l’operaio massa impiegato negli hub o nei magazzini. Pensare, invece, che siano le macchine a eseguire il loro lavoro, fa parte della propaganda di cui Amazon è un ricco sostenitore.

Il controllo sindacale, già penalizzato dentro i magazzini, è scarso o addirittura nullo sugli ampi processi nelle filiere. Senza contare il lato oscuro della forza lavoro, i lavoratori digitali invisibili impiegati in Amazon Mechanical Turk, una piattaforma che collega coloro che hanno bisogno di inserire dati con i lavoratori disposti ad eseguirli attraverso micro-attività effettuate dai personal computer. È stata creata nel 2005 e dieci anni dopo circa mezzo milione di persone erano impiegate in questo settore di crowdwork online negli Stati Uniti e in India per un guadagno medio tra i due e i tre dollari al giorno. L’anno successivo Bezos ha aumentato la sua commissione dal 10 al 20 per cento per ogni compito. A differenza del lavoro salariato, svolto nei magazzini dell’azienda, non è prevista alcuna protezione sociale per questo lavoro digitale a basso costo.

I “turchi meccanici” sono più simili agli autisti “auto-imprenditori” che lavorano, conto terzi, nelle consegne a domicilio. Con una differenza: sono il gradino più basso, e invisibile, della gerarchia di Amazon. In questo mondo di lavoratori del cottimo digitale, a parte un iniziale tentativo di organizzazione proto-sindacale dal basso (WeAreDynamo e Daemo), i sindacati non hanno ancora maturato i mezzi per intervenire.

Tech Workers contro Amazon

Nella battaglia di New York contro il capitalismo digitale ha influito il caso rivelato, il 22 maggio 2018, da un’inchiesta dell’Unione Americana per le Libertà Civili (Aclu) secondo la quale Amazon ha venduto il software di riconoscimento facciale Rekognition ai dipartimenti di polizia e alle agenzie governative statunitensi impegnate nell’espulsione dei migranti. Questa tecnologia è in grado di riconoscere e monitorare i volti in tempo reale. Un tale potente strumento di sorveglianza potrebbe facilmente essere utilizzato in modo improprio dalle forze dell’ordine.

Rekognition può essere usato per identificare persone e segnalarle come sospette ai governi: immigrati senza documenti o attivisti neri sono i primi obiettivi della sorveglianza. Il sistema può monitorare «tutti i volti in foto di gruppo, eventi affollati, e luoghi pubblici come gli aeroporti». Software di questo tipo servono alla repressione in un momento in cui gli americani si uniscono alle proteste pubbliche contro le politiche di Trump. La protesta dei lavoratori di Amazon è stata clamorosa. “La nostra azienda non deve essere nel business della sorveglianza – hanno scritto in una lettera a Jeff Bezos – non deve essere nel business della polizia; non deve essere nel business del sostegno a coloro che controllano e opprimono le popolazioni emarginate”.

Il caso ha provocato un sussulto politico tra i tech workers che si sono uniti alla coalizione di New York e, attraverso una petizione firmata da più di seicento persone, hanno chiesto ai colleghi presenti in città di unirsi alla protesta. “Amazon mantiene il suo ruolo di appaltatore chiave per l’agenzia ICE che controlla l’immigrazione, nonostante le diffuse proteste dei dipendenti, la presenza di Amazon nel Queens è uno schiaffo alla sua comunità, in gran parte immigrata – ha scritto la Nyc-Dsa Tech Action Working Group che sostiene di lavorare a una “prospettiva socialista” nell’uso della tecnologia – Sappiamo che Amazon subappalterà gran parte della forza lavoro, fornendo una frazione della retribuzione e nessuno dei benefici di cui godono i 25 mila nuovi impiegati previsti. Abbiamo anche visto Amazon creare una crisi immobiliare a Seattle e poi esercitare il suo potere politico per rifiutare una tassa sostenuta dallo Stato che cerca di migliorare la situazione. Sappiamo che Amazon non paga la sua giusta quota di tasse”.

 

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 19 febbraio 2019.

 

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