di GIROLAMO DE MICHELE.

Libro importante, questo Contro l’ideologia del merito di Mauro Boarelli (Laterza, 2019, pp. 150, € 14), che raccoglie e sintetizza un lavoro di ricerca critica decennale. Un libro che andrebbe letto in parallelo con La tirannia della valutazione di Angélique Del Rey già recensito su queste pagine [⇒ qui], per mostrare qual è lo stato della riflessione sull’istruzione a livello europeo oggi. Boarelli ricostruisce la genealogia dell’ideologia del merito, partendo dalla teoria del capitale umano e dal fallimento della sua applicazione all’istruzione: un’ideologia che non è riuscita a calcolare il tasso di rendimento nel campo dell’istruzione, perché non è possibile misurare gli effetti esercitati sulla società nel suo complesso, in termini economici o di benessere. Nondimeno, in barba a quell’oggettività e scientificità che pretende, il concetto di capitale umano è rimasto sul terreno, rivestito dei nuovi abiti della dottrina del New Public Management, della quale vale ricordare almeno tre capisaldi:

1. la cultura manageriale, che pretende di estendere i propri valori in contesti del tutto differenti da quelli in cui si è sviluppata;
2. l’introduzione di forme di incentivazione fondate sulla performance;
3. sostituzione della qualità con l’efficienza, misurato in modo del tutto autoreferenziale in base a indicatori quantitativi elaborati nell’ambito del NPM.

In tal modo il NPM mina i fondamenti culturali delle professioni, indebolendone autonomia e controllo esercitato senza necessità di vigilanza e validazione esterna, negando il carattere collegiale del mestiere: viene così a mancare quella dimensione intrinseca delle motivazioni derivata da passioni e capacità personali, sostituite da premi e incentivi.
Lo strumento attraverso il quale il mercato si afferma in luoghi in cui, non essendoci produzione di merci, non esiste, e deve quindi essere istituito in modo artificiale, è la valutazione, come ricorda Valeria Pinto nel suo importante Valutare e punire. È così che l’idea che il mercato rappresenti la forma “naturale” di organizzazione della società si afferma, sotto forma di ideologia del merito. A fondare questa ideologia, accanto a capitale umano e valutazione standardizzata, contribuisce altresì il concetto di competenze, una delle parole chiave del lessico costruito intorno al merito. Poco importa che lo statuto epistemologico di queste bizzarre entità sia insussistente – si ammette che le competenze non siano osservabili di per sé, ma si afferma che la loro esistenza è deducibile dai comportamenti, un po’ come la vis dormitiva dell’oppio o l’etere, con buona pace di Galileo:

le competenze agiscono come dispositivi di disaggregazione, contribuiscono a indebolire i legami sociali e le forme di cooperazione, favoriscono la costruzione di identità individuali competitive sul piano economico e autosufficienti sul piano sociale (p. 20).

Il dispositivo delle competenze ha una struttura totalizzante: postula un’uniformità che non prevede deviazioni dalla norma, fino a inglobare l’individuo nella sua interezza: salvo spezzettarlo in modo paradossale in unità sempre più piccole. Il sistema educativo subisce così una torsione utilitaristica; non si tratta più di imparare a imparare come occasione di sviluppo culturale, senza fini immediati, ma di apprendere una forma specifica di comportamento: l’adattamento alle esigenze dell’impresa e alle forme specifiche di flessibilità di cui essa ha bisogno.
Si vedano, a titolo di esempio, il Sillabo sull’educazione all’imprenditorialità, elaborato con il supporto della “Coalizione per l’Educazione all’imprenditorialità”; e la proposta di un Sillabo di filosofia per competenze contenuta negli Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società delle competenze prodotti nel 2018 da una commissione ministeriale: dove, lasciando da parte l’effetto comico prodotto da una deriva linguistica tecnocratica, quando non da una vera e propria abbuffata anglofila, si pretende in un caso di trasformare la scuola pubblica in una scuola di formazione aziendale; e nell’altro di ridurre il sapere filosofico «a puro casuale insieme di contenuti volto a realizzare una funzionalità ad esso estranea» (così Carosotti sulla rivista della Società Filosofica “Comunicazione filosofica”, ⇒ qui) e il docente a «facilitatore del processo di apprendimento», in nome di una filosofia che cede davanti al proprio desiderio e si acquatta nel ruolo di counseling filosofico.

A giusta ragione Boarelli sottolinea che la cultura del merito si muove entro il perimetro dello Stato neo-liberale, che agisce in tutte le sue articolazioni adottando la cultura e le forme organizzative proprie dell’impresa, e contribuisce a spogliare il modello competitivo delle sue connotazioni ideologiche per offrirlo al senso comune come derivazione di un “ordine naturale”. E ne ricostruisce, con l’aiuto di un’ampia letteratura, le principali strategie operative: in primo luogo, la ricerca della trasparenza, che si oppone all’esistenza di luoghi della vita sociale sottratti alla logica del controllo; e il processo di vittimizzazione, che riduce la capacità di agire di propria iniziativa, organizzandosi in modo autonomo, cui corrisponde il culto degli “esperti”. Questi offrendo soluzioni personali ai problemi sociali, medicalizzano la collera individualizzandola e trasformandola in rabbia: la sottraggono così a una elaborazione pubblica, incentivando il disimpegno. A queste strategie si aggiunge la metabolizzazione e assorbimento di qualsiasi oggetto con cui entra in contatto: il sistema mediato dal mercato depotenzia ogni fermento che si manifesta al di fuori degli schemi e crea «un’atmosfera che pervade e condiziona non solo la produzione culturale, ma anche il modo in cui vengono regolati il lavoro e l’educazione, e che agisce come una specie di barriera invisibile che limita tanto il pensiero quanto l’azione» (Mark Fisher). Ancora, la misurazione delle performance e delle competenze, che trasforma i valutati in co-produttori dei processi di valutazione: in questo modo «i vincoli imposti sono “senza soggetto”, non hanno un autore o una fonte identificabile» (Dardot, Laval). Infine, la sostituzione del conflitto con la competizione, una forma corrotta di conflittualità che può fare a meno dell’altro reale, sostituito con altro astratto, ridotto a un grafico o un numero che colloca gli individui l’uno in rapporto all’altro senza doversi incontrare.

L’ideologia del merito compie, insomma, una vera e propria invasione di campo gestita dallo Stato, che costringe tutti i settori sotto il suo controllo – scuola, università, sanità, pubblica amministrazione – ad assumere modalità organizzative e gestionali proprie dell’impresa, negando di fatto le idee di cittadinanza e di uguaglianza.

una versione più breve di questa recensione è stata pubblicata sul manifesto del 27 aprile 2019 con titolo “Vittime «competenti» di un mercato performativo”

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