di GISO AMENDOLA.

Nutriamo poche certezze, ma le ribadiamo subito, come bussola per i tempi difficili: il capitale produce guerra e povertà, ed è urgente produrre contropoteri efficaci, organizzativamente duraturi e capaci di incidere concretamente nei rapporti di forza. Ma nessuna alternativa, nessun contropotere all’altezza di questa specifica fase del capitalismo finanziario, può prodursi negli spazi nazionali. In Europa, questi giorni drammatici mostrano con chiarezza che governance neoliberale, corruzione oligarchica e nazionalismi sono perfettamente coestensivi allo stesso sviluppo finanziario: l’assoluta impossibilità strutturale della UE a muoversi oltre gli imperativi delle sue istituzioni finanziarie ha prima lasciato che l’Ucraina si trasformasse in campo di battaglia tra le diverse oligarchie in lotta, tra corruzione “atlantica” e corruzione “orientale”, e ora appare tragicamente incapace di aprire alternative politicamente vincenti contro la mobilitazione tardoimperalista dell’oligarca Putin.

Ma se l’Europa reale, interrotta qualsiasi “funzionalistica” speranza in un progressivo processo di integrazione giuridico-costituzionale, è oramai solo il campo, concretissimo e sempre più unificato, di un capitalismo finanziario capace di distruzione e di guerra, questi giorni mostrano anche come sia risibile immaginare una qualche capacità di resistenza e di alternativa negli spazi nazionali: a meno che qualche tristissimo rigurgito non porti qualcuno a immaginare il nazionalismo russo, ultraoligarchico e ultracorrotto,  come “alternativa” al capitalismo finanziario. Il capitalismo oggi incorpora allegramente ogni nazionalismo, ci vive in simbiosi. Ma tra nazionalismo e oligarchia finanziaria, si muove un’Europa altra, un tessuto sociale ricco e irriducibile alla macchine di cattura neoliberali e/o nazionaliste. Le richieste di democrazia radicale e di lotta alla corruzione oligarchica, che sono emerse sia pure in quadro teso e contraddittorio a Kiev, animano da anni, nel cuore della stessa Russia, le lotte anti-Putin,  lotte radicalissime contro il nazionalismo russo, contro l’oppressione religiosa, per l’uguaglianza e la libertà dei corpi e delle singolarità. Tutta questa Europa è stata continuamente e felicemente riottosa e produttiva di sfide ai mostri Patria, Famiglia, Patriarcato, Fede, un laboratorio autenticamente moltitudinario la cui importanza per capire questi giorni non può essere sottovalutata: questa Europa viva si scontra ora, allo stesso tempo, contro la freddezza mercantile dell’Europa finanziaria e contro la vendetta dei nazionalismi.

L’urgenza cui anche il dramma ucraino ci richiama è precisamente dar corpo duraturo, organizzato ed efficace a questa Europa radicalmente altra, senza Patrie né Padri, a questa cooperazione sociale ricchissima delle sue differenze e delle sue singolarità,  la cui richiesta di eguaglianza e libertà sfugge ed eccede le maglie dell’ordine neoliberale e che, allo stesso tempo, combatte il ritorno degli antichi Dei, nazionalisti, sciovinisti e patriarcali. Un buon momento di espressione e di raccordo di questo europeismio radicale, espressione delle lotte e dei movimenti sociali, ci è sembrato il recente incontro di Madrid “El nuevo rapto de Europa: deuda, guerra, revolución democratica”, cui avevamo dato ampio spazio anche sul nostro sito, un interessante avanzamento nell’elaborazione di connessione, strategie e individuazione di nodi programmatici per l’attivazione di processi costituenti. Ma il primo passo per cominciare ad essere efficacemente propositivi, sia sul piano organizzativo che su quello programmatico, verso la costruzione di uno spazio politico europeo delle lotte, è comprendere che giochiamo su un piano in cui la crisi sta mettendo in moto strategie di stabilizzazione, di riorganizzazione del comando, che riscrivono complessivamente la governance neoliberale. Chi voglia costruire effettivamente contropotere non può evitare di aggiornare profondamente la sua lettura.

Le interpretazioni della crisi in termini di “stato d’eccezione” non ci hanno mai affascinato troppo: soprattutto perché evitano di confrontarsi con la molteplicità eterogenea dei tempi e dei dispositivi attraverso cui le crisi si trasformano in “ordinari” processi di riarticolazione dei meccanismi di accumulazione. Questa fase della crisi si gioca esattamente su questo piano: la metafora della “dittatura” finanziaria, pur avendo indubbie capacità riassuntive e suggestive, rischia di essere ingannevole, facendo pensare ancora a una sorta di costruzione emergenziale, tutta dettata dall’alto. Questa concentrazione e riorganizzazione del comando finanziario ha indubbiamente tratti anche “dittatoriali”, ma non funziona certo come un’imposizione verticale sulle povere e recalcitranti sovranità nazionali. Al contrario, gli spazi nazionali funzionano come dispositivi di produzione dell’ordine neoliberale europeo: gli ambiti costituzionali nazionali sono ampiamente attraversati dalle logiche neoliberali, sono egualmente corrotti dal capitale finanziario e certo non possono essere pensati come leve per scardinare “dal basso” l’attuale governance. La tendenza, anzi, è sempre più a una rinazionalizzazione delle politiche europee, a partire da welfare e cittadinanza: solo che lungi dall’essere un ritorno alla Nazione atto a limitare o a addirittura a rompere la governance finanziaria globale, come può pensare illusoriamente qualche tenace “sovranista”, quegli ambiti nazionali sono precisamente giocati in funzione del processo di stabilizzazione.

L’evoluzione del caso italiano in questo ultimo periodo, la caduta del governo Letta e l’ascesa del sindaco di Firenze, “decisionista” e, allo stesso tempo, di provenienza “centrista”, sono un preciso esempio di questo processo: un tentativo di stabilizzazione della crisi che si accompagna alla ricerca di una maggiore capacità di movimento da parte dell’iniziativa politica nazionale. Renzi non è l’ultima versione dei governi “commissariali” made in Napolitano: in qualche senso, segna invece un tentativo di passaggio da una gestione commissariale ad una fase di stabilizzazione della crisi. Il governo delle larghe intese assume (ed è un tratto che si trova anche nel caso tedesco) un profilo più nettamente politico, e, contemporaneamente, più “nazionale”. Nel caso italiano, con un Renzi che non nega di certo qualche strizzata d’occhio a Londra più che a Berlino, questa congiunzione tra stabilizzazione della crisi e rinazionalizzazione delle politiche significa esplicitamente fondare la scommessa principale del nuovo governo sulla richiesta di una più ampia possibilità di manovra, di allentamento del vincolo del tre per cento Pil/debito, o almeno di una maggiore tolleranza nella sua applicazione.

La “ripartenza” renziana, tanto reclamata da quegli ampi settori del capitalismo italiano che hanno dato il vero benserivito al governo Letta (si veda anche l’intervento qui pubblicato sul tema), sta esattamente in questo tentativo di giocare politiche di stabilizzazione dell’austerity e ricorso ad una maggiore iniziativa nazionale: allentateci il guinzaglio e noi proveremo a produrre la mitologica ripresa. In un quadro del genere, il campo nazionale è un dispositivo per cercare di assicurare quello che in questa fase più interessa: l’azione di recupero di risorse dalla fiscalità verso le imprese per cercare di far ripartire i processi di “crescita”, vale a dire, al di fuori della mitologia dello sviluppo che accompagna sempre questi discorsi, di far ripartire l’accumulazione.

Il dinamico Renzi, impegnato nella ripartenza, prova a convincere i suoi colleghi del Partito Socialista Europeo, partecipi delle larghe intese tedesche, che è necessario un allargamento dei vincoli di bilancio, maggiore elasticità e impiego di risorse, perché è necessaria una scossa. Lo schema della ripresa però si riduce all’utilizzo della fiscalità nazionale per una manovra di redistribuzione diretta principalmente alle imprese, accompagnata da un’ulteriore precarizzazione del lavoro e, solo se sarà possibile, da un leggero ampliamento della fascia di chi può godere degli ammortizzatori sociali, con relativo aggravamento delle condizioni da rispettare per potervi accedere. Insomma: meno lacci sulle politiche di bilancio nazionali, che devono tradursi, però, in meno tasse per le imprese e in più vincoli, più assoggettamento, più precarietà per la cooperazione sociale diffusa, per la vita comune e produttiva.

In questo quadro, la forza dei movimenti sociali sta nell’essere radicati negli spazi della società, delle forze della cooperazione sociale diffusamente produttiva, che resta incompatibile con questo mesto tentativo di scambio tra minori vincoli di bilancio e una sorta di “postausterità” stabilizzatrice. L’accumulazione finanziaria continua ad impedire qualsiasi possibilità di riconoscere la produttività del sociale: l’accumulazione finanziaria riconosce e tutela esclusivamente la valorizzazione concentrata nei nodi dell’impresa, mentre non può che mantenere la sua funzione sempre più ferocemente estrattiva nei confronti di tutta la produzione sociale.

Il capitalismo finanziario rinuncia alla rigidità dell’austerity per meglio assestarsi, approfondire lo sfruttamento, e lo fa provando a portare in prima linea la coppia stato nazione/impresa. Il primo torna a servire, come leva per rendere più elastica e dinamica l’austerity, e drenare risorse; la seconda gode di meno fisco per accelerare l’accumulazione finanziaria e moltiplicare le rendite. Alla forza-lavoro socialmente diffusa, tocca invece welfare ridotto all’osso e la presunta “universalità” di ammortizzatori sociali, tesi in realtà ad agevolare le politiche di precarizzazione e ad aumentare i condizionamenti, continuando ad assoggettare, spremere e controllare la cooperazione sociale. Tutto questo mentre la dimensione nazionale della presunta “ripresa” si traduce dovunque in una rinazionalizzazione feroce  di questi stessi ammortizzatori: con tanti saluti al diritto alla libera circolazione e alla mobilità.

Globalizzazione finanziaria, stato nazionale e impresa giocano insomma a ripartire, e lo fanno connettendosi a diversi livelli: la vera ricchezza della cooperazione sociale resta il bottino da depredare anche in questa proclamata “ripresa”. Si esprime nelle lotte di riappropriazione, nei conflitti sul welfare, nel rifiuto delle promesse di una “crescita” al prezzo di una sottomissione continua al ricatto, nelle sperimentazioni neomutualiste per una vita fuori dal controllo e dai condizionamenti. Sono le diverse forme di sindacalismo sociale diffuso e metropolitano, lotte che attraversano e dislocano completamente il confine vita/lavoro. Ma tutte le rotture che si pongano esclusivamente dentro i confini nazionali, a questo punto, non riescono a mordere il piano del capitalismo finanziario: negli spazi nazionali, proprio perché ampiamente funzionalizzati alla governance finanziaria, costruire contropoteri efficaci, all’altezza e sullo stesso piano del nemico, è davvero, oggi, cattiva astrazione utopica.

I movimenti che esprimono quella produttività sociale diffusa sfruttata, precarizzata e controllata, oggi possono incidere solo  attivando un piano di connessione transnazionale, resistendo ad ogni tentazione di ricadere nelle troppo anguste storie delle sinistre radicali “sovraniste” europee di questi ultimi anni. Attaccare questa pseudoripresa che è solo ripresa dell’accumulazione può riuscire solo a patto che si sviluppino campagne internazionali, a cominciare dallo spazio europeo, capaci di attaccare la rinazionalizzazione del welfare, di rilanciare il reddito incondizionato e universale contro gli ammortizzatori ultracondizionati e disciplinati; di rivendicare  mobilità attraverso e contro tutte le nuove pratiche confinarie e di controllo, che si costituiscono sui limiti d’Europa come all’interno dell’Europa stessa; una fiscalità europea finalmente progressiva che funzioni come leva per la redistribuzione della rendita e la resitituzione del valore estorto alla cooperazione sociale. Dalle lotte per la riappropriazione, dalle lotte collocate spazialmente e localmente, alla costruzione di un processo europeo di connessione e moltiplicazione, il percorso non è di “astrazione”, come sembrano temere alcuni compagni: ma è di acquisizione di capacità organizzativa, politica e programmatica per attaccare il capitale su un piano, quello europeo, sul quale può essere realisticamente attaccato. La ricaduta nei meccanismi della sovranità nazionale oggi è la principale trappola che il capitale globale tende ai movimenti sociali: non ideologicamente, ma nel concreto dei meccanismi di funzionamento del capitale, l’ambito nazionale si rivela luogo di riproduzione di sfruttamento e di guerra. Il no alla guerra e il no allo sfruttamento hanno quindi bisogno di produrre immaginazione politica e pratiche organizzative che permettano di rompere quell’ambito delle costituzioni nazionali, in cui è diventato praticamente impossibile resistere, e tantomeno vincere.

 

 

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