di MARCO BASCETTA e SANDRO MEZZADRA.

 

 

 

È quantomeno dal 2010, quando la crisi globale ha colpito violentemente l’Europa nelle forme di una “crisi dei debiti sovrani”, che il processo di integrazione nel vecchio continente ha assunto una diversa temporalità e una diversa direzione. L’imposizione alla Grecia (ma anche ad altri Paesi, tra cui la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda e per molti versi anche l’Italia) di dure politiche di austerità è sembrata segnare l’avvio di un’accelerazione sul terreno dell’ortodossia “ordoliberale”. Una nuova “Europa tedesca” cominciava a delinearsi, con un riallineamento delle stesse istituzioni comunitarie attorno alla centralità della Banca Centrale e un ulteriore svuotamento delle istanze “rappresentative”, a tutto vantaggio di quelle esecutive.

Il “Fiscal compact” e il “Meccanismo Europeo di Stabilità” avrebbero ratificato e approfondito queste tendenze, ponendo la stabilità monetaria, la disciplina fiscale e i programmi di austerità come vere e proprie norme costituzionali – tanto a livello europeo quanto all’interno dei singoli Stati membri. Che dietro queste norme agissero brutali rapporti di forza e una buona dose di violenza lo si è visto nella prima metà di quest’anno, nello scontro che ha opposto il governo greco e la “troika dei creditori”. Una nuova figura dell’Europa sembrava emergere, certo ricollegandosi a tendenze ben presenti già all’origine del processo di integrazione ma interpretandole selettivamente e subordinando a un impianto “ordoliberale” aggiornato a fronte dei processi contemporanei di finanziarizzazione l’intera costituzione materiale dell’Unione Europea. All’“integrazione attraverso il diritto”, che fin dagli anni Sessanta aveva interpretato il divenire comunitario, si sostituiva l’integrazione attraverso la violenza della moneta.

Negli stessi giorni di luglio in cui, dopo il referendum, il governo greco veniva piegato a questa nuova realtà costituzionale dell’Europa, tuttavia, cominciava a profilarsi un’altra crisi, subito definita “crisi dei migranti” o “dei rifugiati”. E oggi vediamo per la prima volta le immagini di un confine interno allo “spazio Schengen”, quello tra Austria e Slovenia, fortificato. Altri “confini interni” erano stati chiusi più o meno selettivamente nel corso dell’estate, quello di Ventimiglia ma anche quelli tra Austria e Germania e tra Germania e Danimarca per esempio. Ma l’immagine di un confine interno fortificato rimanda immediatamente ad altre immagini, alla moltiplicazione di muri che ha scandito i tempi della “crisi dei migranti” ai confini dell’Europa: al muro tra Ungheria e Serbia, o a quello tra Macedonia e Grecia. E queste immagini mostrano in fondo fino a che punto la “crisi dei migranti” sia una crisi dell’Europa, delle sue istituzioni e del suo progetto di integrazione ma anche della sua costruzione di spazialità politica, giuridica ed economica. La chiusura delle frontiere non può che configurarsi come una reazione a catena.

Questa crisi è stata forzata e rivelata dal movimento di profughi e migranti nel corso degli ultimi mesi. Prima immagini di naufragi, corpi senza vita di donne, uomini e bambini a svuotare di ogni legittimità le politiche europee di controllo dei confini. Poi, attorno a ognuno di questi confini, la forza incontenibile, refrattaria a ogni principio d’ordine, di un movimento che ha travolto grate e steccati, fili spinati e muri, riportando con violenza all’interno dello spazio europeo quella politica e quella storia che il governo finanziario e monetario della crisi aveva voluto negare in questi anni. La marcia del 4 settembre di migliaia di profughi e migranti, da Budapest verso Vienna, ha avuto un formidabile significato simbolico da questo punto di vista, di vera e propria sfida all’Europa – alle sue istituzioni, alla sua autorappresentazione e alle sue genti.

Angela Merkel, occorre riconoscerlo, lo ha in qualche modo compreso. Non si tratta qui di analizzare criticamente la concatenazione di eventi e decisioni politiche che sono seguiti all’apertura tedesca ai profughi siriani all’inizio di settembre: modifica restrittiva del diritto d’asilo, introduzione di criteri selettivi nell’organizzazione dell’“accoglienza”, tentativo di rendere il flusso dei migranti in qualche modo vantaggioso per un mercato del lavoro e per un’economia tedesca messa a dura prova dagli scandali che hanno coinvolto Volkswagen e Deutsche Bank. Il punto è piuttosto interrogarsi sul significato di quelle parole della Cancelliera già divenute famose (e oggetto di lazzi e ironie): Wir schaffen das, “ce la facciamo”. I presupposti di questa affermazione ci sembra possano essere così riassunti: dopo il superamento della crisi greca, affermata la guida tedesca sul terreno economico e finanziario in Europa, la “crisi dei migranti” costituisce un’occasione per legittimare questa guida dal punto di vista politico e perfino morale senza peraltro scalfirne l’“esemplare” solidità economica.

Non è necessario immaginare chissà quale cinismo dietro le parole di Merkel. Possiamo anzi pensare che non ve ne fosse traccia, che la Cancelliera e il suo entourage fossero realmente convinti che, come in molti avevano ripetuto nei mesi scorsi, la stabilità monetaria e il rigore finanziario aprissero effettivamente opportunità politiche per avanzare sul terreno dell’integrazione europea. Solo che quanto è accaduto negli ultimi due mesi dimostra che non è vero. A pochi mesi dalla provvisoria conclusione della crisi greca, è la stessa geografia dell’Unione Europea a essere esplosa, a mostrare una frammentazione che sempre più rapidamente si avvicina alla soglia di una radicale ingovernabilità. L’assetto immaginato da Schaeuble si infrange sulla sua stessa unilateralità logica.

Le elezioni polacche del 25 ottobre, con l’affermazione della destra nazionalista, coronano un processo che, a partire dal rilancio del “gruppo di Visegrad” (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia) contro ogni ipotesi di ripartizione per quote di profughi e migranti, ha portato al riemergere di una violenta spaccatura tra Est e Ovest nel cuore dell’Unione. Angela Merkel può ben insistere sul terreno europeo, fino a paventare (salvo rapida retromarcia) sanzioni finanziarie e imporre decisioni a maggioranza in consessi in cui ha sempre prevalso la regola dell’unanimità: solo che le “minoranze” non si piegano alla maggioranza. Può andare in visita a Istanbul, tentando di coinvolgere Erdogan nella gestione della crisi europea “dei migranti”, fino a prospettare una riapertura dei negoziati per l’ingresso della Turchia nella UE. Ma, tanto più dopo l’esito delle elezioni turche di domenica scorsa, questo significa legittimare le strategie interne e “regionali” del nuovo Sultano, aumentando gli attriti con altri Stati membri e complicando ulteriormente gli scenari già catastrofici della guerra siriana.

La divisione tra Est e Ovest si sovrappone in ogni caso a quella tra Nord e Sud, divenuta drammatica negli anni della crisi economica, con esiti imprevedibili e potenzialmente critici. Attorno a Calais, d’altra parte, il rapporto tra l’Unione Europea e la Gran Bretagna si è caricato di ulteriori tensioni, tanto più significative quanto più si avvicina il referendum promesso da Cameron. La crescita di vecchie e nuove destre in molti Paesi europei contribuisce ulteriormente a questi processi di frammentazione, promuovendo processi di ri-nazionalizzazione della politica che solo uno sprovveduto o un furfante può pensare di cavalcare da sinistra: ancora una volta profughi migranti hanno costretto vecchie e nuove destre a rivelarsi per quello che sono. Questo insieme di dinamiche ha delle ricadute precise all’interno della stessa Germania, dove i margini di manovra di Merkel sono compressi non soltanto dalla moltiplicazione degli attacchi neo-nazisti contro profughi e rifugiati e dalla crescita di forze come Pegida e Alternative für Deutschland ma anche dallo scontro ormai aperto con la CSU e con il governatore della Baviera Horst Seehofer. La politica in Europa lavora a pieno ritmo contro L’Europa politica.

Ce la facciamo, dunque, signora Merkel? La Cancelliera continua a giocare la carta europea anche per risolvere i problemi politici interni (e per recuperare un consenso che per la prima volta si sta erodendo, in presenza, peraltro, dell’eclissi di una socialdemocrazia afasica e impotente). Ma è proprio sul terreno europeo che si trova ormai di fronte una crisi che riapre la domanda di fondo sulla direzione del processo di integrazione mettendone in discussione le forme assunte negli ultimi anni. Una “crisi esistenziale”, ripetono ormai anche pacati osservatori delle vicende europee.

Dentro questo quadro di destabilizzazione e oggettiva “apertura”, occorre interrogarsi su quelle che sono le implicazioni, i rischi e le opportunità per la “nostra parte”, per chi ostinatamente continua a pensare che sia solo dentro lo spazio europeo che una nuova “forza invenzione”, uno scarto dalle “compatibilità”, può determinare le condizioni per una politica radicale della libertà e dell’uguaglianza. Certo, la crisi europea è oggi terreno di azione essenzialmente per nuove e vecchie destre. Ma la loro crescita è accompagnata da una crescente opposizione, da una polarizzazione sociale e dell’opinione visibile anche in un Paese come l’Ungheria, dove negli scorsi mesi il movimento di solidarietà con profughi e migranti (e dunque contro Orban) è stato ben più significativo di quanto sia apparso nelle cronache mainstream. In Austria, dove quel movimento è stato ancora più forte, Vienna non è stata conquistata dall’Fpoe di Heinz-Christian Strache, mentre in Germania qualsiasi manifestazione di Pegida o Alternative für Deutschland deve misurarsi con iniziative moltitudinarie che si collocano sul terreno dell’antifascismo e dell’antirazzismo: su quel medesimo terreno su cui agiscono quotidianamente nella solidarietà con profughi e migranti grandi reti civiche e di movimento.

La cosiddetta “crisi dei migranti”, in realtà fenomeno iscritto nella “lunga durata”, ha rivelato una ben più profonda “crisi europea”: le compatibilità stabilite in questi anni sul terreno monetario e finanziario sono strutturalmente messe sotto assedio da questa crisi. La polarizzazione sociale e dell’opinione, contro il ricompattamento degli spazi nazionali, è una condizione essenziale per cominciare a immaginare una politica radicale europea che sia in grado di rovesciare la crisi nell’apertura di un nuovo campo di possibilità politiche. Altre condizioni sono date e potranno sorgere sul terreno istituzionale ed elettorale, ad esempio in Portogallo, in Spagna, in Irlanda. Ma quel che è indispensabile è l’irruzione sulla scena di movimenti e lotte capaci di riempire di contenuti una “grande coalizione” europea, di orientare l’azione politica e di far maturare un programma. Più modesti di Angela Merkel, poniamo da subito in forma interrogativa le sue parole: ce la facciamo?

 

 

*articolo uscito in contemporanea su il manifesto il 7 novembre 2015.

 

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