di GIROLAMO DE MICHELE.

Davide Grasso, New York Regina Underground. Racconti dalla Grande Mela, Stilo Editrice, Modugno (BA), 2013

Per conoscere una città, diceva Goethe nell’Ottocento, bisogna salire sulla sua torre più alta, e scrutarne la fisionomia prima di intraprenderne la visita: la visione dall’alto ci renderà familiari le sue strade e i suoi luoghi prima ancora di averne avuto esperienza.
Tutti noi, più o meno, crediamo di conoscere New York. Abbiamo visto abbastanza fiction o film per credere di averne esperienza, per essere rimasti sorpresi dalle sue mille luci, dalla sua multietnicità, dai percorsi delle sue metropolitane, dai suoi grattacieli, dalle sue discoteche, e via dicendo. E ovviamente tutti abbiamo assistito, a distanza, al crollo delle Twin Towers. La visione cinematografica o televisiva si sostituisce alla visione dall’alto, collocando in un ordine spazio-temporale discreto i diversi frammenti di visioni: ed ecco la New York fighetta e modaiola dei locali di Sex and the City accanto alla inquietante metropolitana dei Guerrieri della notte, al ghetto di Harlem e alle case da condividere di Friends, e magari alla famosa panchina di Manhattan.

Per conoscere una città, diceva Walter Benjamin nel Novecento, bisogna perdervisi dentro: come il flâneur baudelaireano, bisogna lasciarsi colpire dall’esperienza degli choc, lasciarsi sorprendere, spiazzare, confondere. E New York, città in cui tutto il mondo pare essersi dato convegno, sembra il luogo adatto alla passeggiata del flâneur: è quello che prova a raccontarci Davide Grasso con questo suo esordio narrativo, riuscendo a spiazzare le nostre certezze sulla città della Grande Mela. La New York nella quale l’io narrante di questi quattro racconti si muove, infatti, è molto diversa da quel collage di impressioni che la colonizzazione tele-cinematografica dell’immaginario chi ha consegnato: in una città che cambia rapidamente, l’Harlem o la metro dei film che vedemmo non sono più quelle di allora, così come l’apparente somiglianza di certi club per ricchi all’immaginario delle fiction è meno una causa che un effetto – è la realtà che imita la fiction, non la fiction che rappresenta il reale. Come l’osservatore della folla nel celebre The Man of the Crowd di Edgar Allan Poe, il narratore non si limita a inquadrare la folla che sembra riempire ogni spazio newyorkese, ma la spacchetta, scomponendola nelle diverse figure sociali, etniche, lavorative, mettendone in luce le giustapposizioni, le connessioni, le mescolanze, senza alcuna concessione alla moda della fusion acritica e rassicurante. Al contrario, lo sguardo in movimento di questo osservatore sempre in moto e sempre in situazione coglie, all’interno delle trasformazioni che accadono, le cause e i rapporti sociali che le determinano. Così accade che il mito della New York a Zero Tollerance di Rudolph Giuliani ceda il passo allo spostamento periferico della povertà, con la simultanea creazione di nuovi ghetti periferici e di uno spazio vuoto da riempire con la speculazione immobiliare e la gentrification dei quartieri ex-poveri che «definisce la prima frontiera interna aNew York, la più importante: quella tra passato e futuro», e l’accattivante disponibilità abitativa di Friends si svela nei suoi aspetti più drammatici – assenza di riscaldamento, niente manutenzione, stabili lasciati andare in malora a rischio della salute e della vita degli abitanti – nelle condizioni abitative create ad arte per espellere gli inquilini dalle proprie abitazioni e poter realizzare nuovo profitto riaffittandoli alla nuova borghesia. Ci muoviamo, al seguito del narratore, tra quartieri stylosi e ghetti, discoteche multietniche e metropolitane, all’interno di una città-mito, di una città-merce «che esiste per la propria valorizzazione», la cui chiave di lettura è rinvenuta nella favolosa Anastasia delle Città invisibili di Calvino, la città ingannatrice nella quale «la tua fatica che dà forma al desiderio prende dal desiderio la sua forma, e tu credi di godere per tutta Anastasia mentre non ne sei che lo schiavo».

Poe mise in esergo al suo racconto la frase di La Bruyere “Ce grand malheur, de ne pouvoir etre seul”: ma si può essere soli anche nella massa, nella «moltitudine disgregata, stretta in una morsa feroce», dove le connessioni istantanee si danno e si perdono, dove il desiderio e le passioni sono messi a valore e il valore espropriato, e alle singolarità in movimento restano solo le relazioni virtuali, perdute in una corsa di metro: «Strani interrogativi affiorano per un attimo, nella mente di un singolo sperduto […]: che cos’è, in questa vita, una connessione persa? Non troviamo risposte».
Nondimeno, il tragitto di questo flâneur ci riguarda, perché le dinamiche di New York sono le dinamiche del mondo globale, e se tutto il mondo è paese, in qualche senso ci sentiamo tutti Davide Grasso.

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Questa recensione è stata pubblicata col titolo Spacchettare la folla sull'”Indice dei libri del mese” di novembre.

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