Conferenza alla Volkshbühne, Berlino, 29 aprile 2019. Questa conferenza non è stata tenuta per malattia dell’autore. La pubblichiamo qui.

Di TONI NEGRI

1. Non so dirvi quanto sia lieto di presentare e commentare alla Volkshbühne la traduzione tedesca di Marx oltre Marx per la prestigiosa casa editrice berlinese Dietz Verlag. È un libro scritto alla fine del lungo decennio ’68-’79, nel quale fui immerso nella lotta di classe in Italia e in Europa, a partire da lezioni tenute nel 1978 a Parigi all’École normale supérieure, su invito di Louis Althusser.
Questo libro nacque da una rilettura dei Grundrisse per mettere Marx all’altezza delle lotte di quegli anni, nella speranza di una rivoluzione di classe operaia. Questo libro ha attraversato le lotte e si è conquistato un destino, riaffermando Marx come sorgente di soggettivazione rivoluzionaria. È il caso di dire: habent sua fata libella.

2. Riprendere questo libro oggi (e con esso questo Marx) che cosa ci dice? O, se vogliamo dirlo in termini meno legati a questo volume e alle vicende che lo ispirarono, che cosa possono dirci i Grundrisse nella/della situazione del capitalismo oggi?
Per rispondere è necessario preliminarmente riconoscere le caratteristiche precipue, fondamentali, del capitalismo nel XXI secolo.
Ricorderemo essenzialmente, in primo luogo, il dominio del capitale finanziario; in secondo luogo, le dimensioni estrattive, logistiche e biopolitiche dell’accumulazione capitalista oggi; e in terzo luogo cercheremo di definire i nuovi spazi della soggettivazione anticapitalista e della lotta di classe oggi.

2.1. Sul primo punto. È chiaro che, integrando la teoria del capitale finanziario che si legge nel III volume del Capitale e il “Capitolo sul denaro” dei Grundrisse, si apre ad un aspetto fondamentale del capitalismo odierno. Laddove cioè il rendersi autonomo  dell’“equivalente generale” e la sua apertura al mercato mondiale («che è il presupposto e il risultato di tutto») permette di cogliere le caratteristiche odierne del capitale finanziario, ben oltre le categorie del “fittizio” e dello “speculativo” o del “parassitismo” che troppo spesso, nella teoria critica, neutralizzano la funzione e la posizione egemonica di questo. Il capitale finanziario costituisce piuttosto oggi il punto centrale del comando capitalista: il denaro come “equivalente generale” non rappresenta solo la funzione di misura e regolazione della produzione globale, ma anche la matrice produttiva centrale, il motore dell’accumulazione. È attraverso di esso che si è costituita una nuova divisione del lavoro a livello globale ed è qui che si sono aperte e chiuse, e nuovamente si aprono, le lotte all’interno e fra le componenti del capitale collettivo globale per determinare i rapporti di forza più decisivi.

2.2. Il secondo tema riguarda l’apertura biopolitica del concetto di capitale. Si sa che, nella contemporaneità, il capitale ha realizzato la “sussunzione reale”, l’assorbimento completo della società. Questo è un grande passaggio storico, del tutto compiuto al termine del XX secolo. In questo quadro, lo sfruttamento si trasforma. Esso cioè si esercita sulla vita e consiste nell’estrazione di valore dalla natura e dalla cooperazione sociale. Esso si svolge percorrendo produzione e circolazione – l’una dentro l’altra –attraverso macchine che investono e collegano i territori della/nella sussunzione: la logistica è questa macchina operativa di comunicazione e distribuzione di quanto viene estratto dalla cooperazione. È dentro questo groviglio che si applica, nell’analisi marxiana dello sviluppo capitalistico, l’intuizione di un “oltre” la produzione industriale – intuizione costruita nel Frammento sulle macchine. Il Frammento ci introduce infatti alla comprensione dell’attuale modo di produzione e del ruolo che, nell’epoca post-industriale, hanno giocato e giocano le macchine numeriche come strumento di sfruttamento del lavoro cognitivo.
Quando, già nel ’78, procedemmo a questa lettura del Frammento, eravamo davvero soli. Questa lettura è stata poi seguita da molti autori, sicché oggi possiamo dire, della sussunzione reale, che essa investe la società intera e che lo sfruttamento si esercita essenzialmente nella forma dell’estrazione dalla cooperazione sociale lavorativa e nella cattura dell’eccedenza (del plus-valore) che questa determina. Bastano alcuni passi dei Grundrisse a darci la misura della correttezza della nostra intuizione e delle straordinarie trasformazioni cui abbiamo assistito: “Come con lo sviluppo della grande industria, la base su cui essa poggia – ossia l’appropriazione di tempo di lavoro altrui – cessa di costituire o di creare la ricchezza, così con esso, il lavoro immediato cessa di essere, come tale, base della produzione, per un verso in quanto viene trasformato in una attività più che altro regolatrice, di sorveglianza, ma poi anche perché il prodotto cessa di essere il prodotto del lavoro immediato, isolato, ed è piuttosto la combinazione dell’attività sociale ad assumere la veste di produttore” (sottolineatura mia, Grundrisse, p. 597). E ne vengono straordinarie conseguenze sulle quali torneremo (“Giacché la ricchezza reale è la produttività sviluppata di tutti gli individui. E allora non è più il tempo di lavoro ma il tempo disponibile la misura della ricchezza”, Grundrisse, p. 595).

2.3. Il terzo punto, esaltato nei Grundrisse, che permette di caratterizzare la lettura del capitalismo oggi, è da collegare all’affermazione che “il vero non-capitale è il lavoro”. Ora, quest’affermazione rompe con ogni concezione che pretenda di legare in un nesso necessario, lo sviluppo delle forze produttive del lavoro umano e lo sviluppo del capitale. No, questo rapporto è un rapporto di forza che determina varie composizioni di quella scissione (tra “valore d’uso” e “valore di scambio” della forza-lavoro) che sta alla base del concetto di capitale. Come dice Tronti: “Quando si tratta della classe operaia dentro il sistema del capitale, la medesima forza produttiva si può contare veramente due volte: una volta come forza che produce capitale, un’altra volta come forza che si rifiuta di produrlo; una volta dentro il capitale, un’altra volta contro il capitale” (Operai e capitale, Torino, 1966, p. 180). Stabilire e dominare questo nesso ha rappresentato la vittoria storica del capitalista collettivo. Ma originariamente c’è la scissione, la dualità, c’è il rapporto di forza e una rottura che non sarà mai definitivamente chiusa. Ed è da questa rottura, dalla potenza del lavoro vivo che vi ci si esprime, che nasce lo sviluppo del capitale. Questo è quanto insegnano i Grundrisse. Non vi sarebbe plusvalore se non ci fosse pluslavoro, ma il pluslavoro non produrrebbe capitale se fosse solo plusvalore: esso è invece originariamente “non-capitale”, è eccedenza creativa.
La formula hegeliana è utile a questo punto: il negativo, ciò che è vitale, anticipa e qualifica quello che produce. Ma qui la metafora hegeliana (tanto cara ai “teorici (francofortesi) del riconoscimento”) si interrompe perché la scissione non si rimargina né si supera. Che lo scambio sia un furto e che l’equivalente sia una truffa, spiegano il plusvalore come sigla dello sfruttamento. Questo concetto, secondo Vygotsky, è stato scoperto da Marx nei Grundrisse e il concetto di “plusvalore relativo” è stato qui fissato da Marx in termini proporzionali al lavoro vivo consumato nel processo di produzione capitalista. Questi concetti, sempre sulla base del refrain “il vero non-capitale è il lavoro”, interpretano il processo di propagazione della forza produttiva del capitale. Essa sorge infatti dal plusvalore relativo ma ci può condurre in una situazione nella quale il plusvalore non corrisponde più semplicemente ad un aumento di pluslavoro in termini di allungamento della giornata lavorativa, ma piuttosto in termini di abbassamento del lavoro necessario – ad una trasvalutazione positiva della potenza del lavoro vivo, ad un aumento della sua capacità produttiva – paradossalmente come “non-capitale”. Siamo alla base dell’antagonismo determinato dal lavoro vivo, alla messa in gioco di una forza-lavoro non oggettivata. Questo è anche il passaggio storico che i Grundrisse anticipano e spiegano: dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” – ed è solo qui che la vita viene inclusa interamente nello sviluppo capitalistico. Ma è qui che la lotta di classe esplode davanti alla contraddizione prima del rapporto di capitale: quella di essere un rapporto antagonista.

3. Riassumiamo dunque per ripartire nell’analisi. La fenomenologia della sussunzione reale, della cooperazione e della eccedenza del lavoro vivo, del regime monetario globale, ci propongono un quadro del capitale come Estrazione, Logistica, Finanziarizzazione: viviamo dentro questa forma del dominio. Queste sono oggi le caratteristiche fondamentali dell’accumulazione di capitale. E però, neppure in questa forma assoluta, il capitale è un Leviathan. È un rapporto di classe, è una figura duplice. Nei Grundrisse, fissato nella sua potenza assoluta, esso ha davanti e contro la cooperazione dei lavoratori che si presenta come Individuo Sociale.

4. Chi è, che cos’è l’Individuo Sociale?

4.1. Vediamo prima di tutto che cos’è divenuto il lavoratore oggi. È colui che opera in una rete immateriale della quale il padrone incrementa la produttività e dalla quale, al tempo stesso, estrae plus-valore. D’altra parte però, questo lavoratore, situato in una cooperazione lavorativa sempre più intensa, sviluppa una capacità produttiva crescente ed afferma in maniera sempre più evidente questa sua produttività cooperativa come potenza motrice del sistema produttivo.
Mi spiego: è dentro la cooperazione che il lavoro diventa sempre più “astratto”, e cioè sempre più espressivo del valore della produzione e sempre più centrale nella capacità di organizzare la produzione. Nello stesso tempo, tuttavia, questo insieme consolidato di “lavoro astratto” è sempre più pesantemente sottoposto a operazioni di estrazione del valore prodotto. Detto in altri termini: il lavoratore è da un lato sempre più posto nella condizione di creare cooperazione e quindi produttività, e dall’altro soffre, in misura sempre maggiore, l’estrazione da parte del capitale del valore prodotto; nel rapporto con il macchinario il lavoratore sviluppa in maniera sempre più autonoma l’istanza cooperativa, ma in tal modo organizza anche l’estrazione della propria energia produttiva.
Possiamo quindi parlare, anche ora, in una situazione di “sussunzione reale”, di una relativa “autonomia” del lavoratore, nel senso in cui potevamo parlarne dentro la fase della “sussunzione formale” del lavoro sotto il capitale? Quando l’artigiano, il lavoratore indipendente trovava una collocazione produttiva all’interno del sistema industriale, valorizzato dunque in questa diversità/interiorità? Ormai non più, perché il grado di autonomia del lavoratore post-industriale non riposa più semplicemente su una differente posizione nel ciclo produttivo, ma sulla sua partecipazione ai processi cooperativi del produrre. Questa posizione ha comunque una consistenza paradossalmente autonoma, anche se sottoposta al comando capitalista. Si determina qui una situazione nella quale una continua (nel tempo) ed estesa (nello spazio) iniziativa autonoma produttiva, un’invenzione collettiva e cooperante, vengono subordinate all’estrazione di valore da parte del capitale. È una vera mutazione quella che si sperimenta quando il rapporto tra processo lavorativo (in mano ai lavoratori) e processo capitalista di valorizzazione, da sempre formalmente separati, cominciano ad esserlo anche realmente, affidato il primo all’autonomia del lavoro vivo, il secondo al puro comando. Significa che il lavoro ha raggiunto un livello di dignità e di forza che è in contraddizione con la forma di valorizzazione che gli è imposta.
Per esempio: nelle prediche sull’efficacia “senza alternative” del potere del capitale che il “pensiero unico” dei padroni e dei socialdemocratici produce (there is no alternative) sentiamo sempre più frequentemente inneggiare al dominio dell’“algoritmo”. Ma che cos’è quest’algoritmo al quale si imputa oggi la padronanza sui processi informatici di valorizzazione capitalistica? Non è altro che una “macchina” che nasce dalla cooperazione dei lavoratori, dall’intellettualità logistica, e che il padrone impone sopra questa cooperazione, sopra appunto questa intellettualità massificata. L’algoritmo è la macchina padronale sull’intellettualità di massa. La grande differenza fra i processi lavorativi studiati da Marx e quelli attuali, consiste nel fatto che la cooperazione, oggi, non è più imposta dal padrone ma prodotta “dall’interno” della cooperazione della forza-lavoro; che il processo produttivo e le macchine non sono portate “dall’esterno” dal padrone ma sono “interiorizzate”, appropriate dai lavoratori. Noi possiamo propriamente parlare di “appropriazione di capitale fisso” da parte dei lavoratori e con ciò indicare un processo di costruzione dell’algoritmo conoscitivo, disposto alla valorizzazione del lavoro in ogni sua articolazione, capace di produrre linguaggi di cui diverrà il dominus. Questi linguaggi sono dunque stati creati dai lavoratori che ne posseggono la chiave e il motore cooperativo.

[Sia chiaro che qui non consideriamo la cooperazione lavorativa, la sua relativa autonomia come qualcosa che possa trasformarsi immediatamente in un soggetto, in un individuo collettivo, e tantomeno che la si possa considerare come un soggetto bell’e fatto. Il passaggio dalla composizione tecnica a quella politica è sempre discontinuo, imprevedibile, solo storicamente determinato. Questo non significa che l’“individuo sociale” non si formi, non sia lì. Quello che mi sembra fondamentale afferrare qui è che la forza-lavoro possiede una dignità sempre più alta nello sviluppo capitalistico. È fondamentale riproporlo in un’età di catastrofismi metafisici e maledizioni politiche che assalgono la forza-lavoro e tanto più ne diminuiscono la potenza e la dignità quanto più la individualizzano e l’assegnano ad un destino di subordinazione.]

4.2. Se le cose stanno così, è solo inseguendo l’astrazione progressiva dei processi lavorativi che il comando capitalista riesce ad esercitarsi. Non a caso non parliamo più semplicemente di sfruttamento legato alle dimensioni industriali dell’organizzazione del lavoro ma di “sfruttamento estrattivo” della cooperazione sociale. In questo tipo di valorizzazione, l’organizzazione del lavoro è innanzitutto agencement (collegamento, esercizio, dispositivo…) di “produzione di soggettività”: laddove per “produzione di soggettività” s’intenda, da un lato, produzione attraverso “soggettivazione” (e cioè l’attivazione delle qualità e delle conoscenze singolari del soggetto lavoratore) e, dall’altro, il continuo tentativo di ridurre quest’ultimo, la sua singolarità, a “soggetto” comandato. Soggettivazione significa che, dentro la nuova forma di organizzazione del lavoro (cioè nella “sussunzione reale” e attraverso l’operare biopolitico del produttore), il lavoratore è soggettivato sia, in altissimo grado, perché la cooperazione è un fatto sociale, che prevede dunque il comporsi di una pluralità in un insieme operativo; sia perché il lavoro è diventato di più in più “immateriale”, significando con questo termine che esso è cognitivo, affettivo, terziario, ecc. (è quindi espressione di una singolarità creativa la cui potenza produttiva non può semplicemente integrare una variante statistica della legge del valore). Estremizzando da par suo questo processo, Marx dirà: “Capitale fisso è l’uomo stesso”. Un individuo collettivo che ricompone il processo produttivo nelle sue stesse componenti.
In questa figura si presentano le diverse figure del lavoro vivo nella sua strutturazione post-industriale. E, badate bene, quando il capitale ha identificato quel nuovo ricco contesto nel quale il lavoro vivo si esprime e lo ha posto sotto il suo comando, ha agito in due sensi. Da un lato, ha articolato il suo comando alla vivente produzione di linguaggi; d’altro lato, ha operato attraverso la funzionalizzazione dei bisogni e dei desideri del lavoratore al comando capitalista. Il capitale (nel neoliberalismo) vorrebbe che la forza della soggettivazione produttiva si riconoscesse come soggetto del rapporto di capitale. Vorrebbe servitù volontaria. Vista da un punto di vista di classe, credo che questa contraddittoria esperienza costituisca un limite della valorizzazione capitalista.

4.3. Giunti a questo punto possiamo con più chiarezza ripetere la questione: chi è, che cos’è oggi l’Individuo Sociale?
Per rispondere possiamo seguire due vie, che corrispondono alla doppia posizione che l’individuo sociale ha nel rapporto di dominio oggi definito dal capitale. La prima via è quella che ci permette di considerare l’individuo sociale dal punto di vista oggettivo, come macchina del capitale. La seconda via ce lo presenterà invece dal punto di vista soggettivo, ossia come soggettività, come soggettivazione capace di liberazione.
Il discorso torna dunque al rapporto capitale/lavoro, capitale fisso/capitale variabile – ma situato in un periodo nel quale il carattere collettivo, cooperativo del processo produttivo, e la sua relativa autonomia, non sono più contestabili. Il capitale variabile ha quindi una figura collettiva, è costruito nella cooperazione e si definisce in termini cognitivi. Il punto di contraddizione – determinato dal rapporto antagonista di capitale –si instaura così sul terreno cognitivo. Gli economisti diranno sul terreno dell’“economia della conoscenza”. Su questo terreno si danno due ipotesi di ricerca. La prima, per così dire, esterna: la conoscenza, incorporata e mobilitata dal lavoro, è descritta all’interno della divisione tecnica e sociale del lavoro e dei meccanismi istituzionali che determinano un livello generale di Bildung (formazione, educazione) per l’intera classe lavoratrice. Una seconda opzione è invece, per così dire, interna: la conoscenza è incorporata dal capitale e in qualche modo si presenta come forma del “capitale fisso”. Ma questo suo apparire come capitale fisso è fortemente ambiguo. La forza-lavoro collettiva è infatti, da un lato, assorbita nella tecnologia e nella logistica del padrone (è cioè capitale variabile), ma d’altro lato – come abbiamo visto – ha la capacità di esprimersi in forme autonome e quindi di “appropriarsi il capitale fisso”.

4.3.1. È importante innanzitutto insistere sulla relazione esterna: è qui in particolare che si determinano le condizioni sociali della cooperazione produttiva e le produzioni collettive del Welfare State. Qui si sviluppano quei modi della “produzione dell’uomo per l’uomo” che costituiscono la polarità della forza-lavoro nel rapporto con il capitale, e che configurano e difendono la relativa autonomia del capitale variabile (nonché l’autonomia del lavoro vivo). Su questa dimensione, l’economia della conoscenza che nasce dall’incontro dell’intelligenza collettiva, dallo sviluppo delle istituzioni del welfare e infine dalle istituzioni tecniche della rivoluzione digitale (se affrontate da un punto di vista critico), mostra una vigorosa forza vitale. E questa dinamica entra in contraddizione diretta con la logica del capitalismo cognitivo fondata su mercificazione, proprietà e corporatization del sapere. Questa linea di relazione esterna fra capitale e lavoro cognitivo è davvero fondamentale. A dimostrazione della sua importanza devono essere sottolineate le forme nelle quali il funzionamento del Welfare costituisce un enorme spazio di produzione di sapere e un contropotere reale. Carlo Vercellone ha insistito molto su queste figure.

4.3.2. Questa sottolineatura apre ad evidenziare l’altra linea, quella che abbiamo chiamato interna e così ad analizzare e ad assumere come figura protagonista, oltre gli effetti dello scontro fra capitale costante e capitale variabile sul terreno sociale, l’appropriazione di capitale fisso da parte dei lavoratori, da parte cioè del lavoro vivo.
Questa determinazione assume sempre più importanza nella misura nella quale il modo di produzione capitalista incrocia il lavoro vivo nella sua forma cognitiva. Lo incrocia: e cioè lo sfrutta, ne estrae valore, cerca di appropriarselo ma allo stesso tempo si scontra con esso, con la sua relativa autonomia. “Si ode il fragore della battaglia”, diceva qualcuno che quest’incrocio ha studiato. Se il lavoro vivo cognitivo, disteso e diffuso sul terreno biopolitico, diventa allora la forza che contrasta l’accumulazione capitalista (è quello che abbiamo chiamato lo scenario esterno), è anche vero che il capitale costante in questo scontro si flessibilizza e si diluisce sempre di più sul terreno sociale produttivo e si scontra con le prestazioni singolari dei soggetti produttivi, con l’autovalorizzazione del lavoro vivo. Su questo terreno, dove cioè il capitale costante sembra flessibilizzarsi nello scontro con il lavoro vivo, dove la forza produttiva del capitale sembra cedere alla potenza del lavoro vivo (capitale variabile), la via interna dell’appropriazione di capitale fisso da parte del lavoro vivo diviene sempre più centrale e consistente.

5. Ed eccoci allora all’argomento centrale per veder realizzati gli effetti teorici della dottrina del General Intellect. Si può infatti qui affermare, a partire dalla continuità del processo sussuntivo, da “formale” a “reale”, una terza forma di sussunzione della società nel capitale, la “sussunzione nel General Intellect”. La formazione del General Intellect – come sappiamo – corrisponde alla crisi strutturale del capitalismo industriale, determinata dalle lotte operaie (senza sottovalutare la già importante preponderanza qualitativa della conoscenza nel lavoro vivo incorporato nel capitale fisso). Già l’“École de la Régulation” aveva avanzato l’ipotesi di una terza fase di sussunzione, collegata all’identificazione del General Intellect – ci ricorda ancora Vercellone.

5.1. Come si dà questa terza sussunzione? Permettetemi innanzitutto di esprimere una preoccupazione. È necessario non operare questa sussunzione come se ci fosse una successione teleologica, come se si trattasse di un passaggio consecutivo da una forma di sussunzione all’altra. Lo sviluppo fra fasi di sussunzione non è teleologico, la storia non è un processo lineare, ma procede piuttosto per ibridazioni e sovrapposizioni, articolazioni e alternative fra modi di accumulazione. Così anche le figure della sussunzione: esse si presentano in maniera discontinua e frastagliata, ibrida e sovrapposta. Resta il fatto che questo processo è tendenziale. Che cosa vuol dire tendenziale? Tendenza non significa una direzione determinista, un movimento darwiniano – essa significa, certo, un’evoluzione, ma questa evoluzione si dà nel gioco tra tendenza e controtendenza (come in vari luoghi insegna Il Capitale). Di conseguenza, la stessa composizione organica di capitale si presenta in maniera sempre diversa, registrando il differente impatto delle varie figure di sussunzione, dei movimenti sociali e delle lotte dei lavoratori, ed essa può quindi esser vista come una composizione di volta in volta definita dai rapporti di forza fra le classi. Se vi è dunque tendenza, vi è anche controtendenza. Nel caso che stiamo studiando, sia l’appropriazione di capitale fisso da parte dei lavoratori, sia la considerazione del Welfare come spazio di identificazione di autonomia del capitale variabile, abbassano la composizione organica del capitale. Ed è questa breccia che ci permette di cogliere la nascita dell’individuo sociale nel quadro della sussunzione nel General Intellect.

5.2. Ascoltiamo dunque Marx a questo proposito, per vedere più accuratamente come appaia l’individuo sociale nella sussunzione nel General Intellect. Quando si perviene al momento più alto della “sussunzione reale” – Marx scrive – “si rivela che da un lato esso presuppone un determinato sviluppo storico già avvenuto delle forze produttive – tra queste forze produttive anche la scienza –, e dall’altro lo stimola e lo accelera” (Grundrisse, p. 587). Il lavoro immediato quindi scompare come “principio determinato” della produzione perché è ridotto a proporzione “esigua” e “subalterna, rispetto al lavoro scientifico generale, all’applicazione tecnologica delle scienze naturali da un lato, e rispetto alla forza produttiva generale risultante dall’articolazione sociale nella produzione complessiva dall’altro – forza produttiva generale che si presenta come dono naturale del lavoro sociale (pur essendo un processo storico)” (Ivi, p. 587-588). Ecco dunque il General Intellect come forza di sussunzione al centro dello sviluppo di capitale. “[…] nella misura in cui si sviluppa la grande industria, la creazione della ricchezza reale viene a dipendere meno dal tempo di lavoro e dalla quantità di lavoro impiegato che dalla potenza degli agenti messi in moto durante il tempo di lavoro, la quale a sua volta – questa loro poderosa efficacia – non sta in alcun rapporto con il tempo di lavoro immediato che costa la loro produzione, ma dipende piuttosto dallo stato generale della scienza e dal progresso della tecnologia, o dall’applicazione di questa scienza alla produzione” (Ivi, p. 592).

5.3. Ma ecco la breccia: dentro/contro il General Intellect emerge l’Individuo Sociale, il nome che la classe operaia ha assunto nella sussunzione sotto il General Intellect. L’operaio “si sposta accanto al processo produttivo invece di esserne l’agente principale. In questa situazione modificata non è né il lavoro immediato, eseguito dall’uomo stesso, né il tempo che egli lavora, bensì l’appropriazione della sua forza produttiva generale, la sua comprensione della natura e il dominio su di essa attraverso la sua esistenza di corpo sociale – in breve, lo sviluppo dell’Individuo Sociale, che si presenta come grande pilastro della produzione e della ricchezza” (Ivi, p. 593). Per finire: “La natura non costruisce macchine, locomotive, ferrovie, telegrafi elettrici, telai meccanici, ecc. Questi sono prodotti dell’industria umana; materiale naturale, trasformato in organi della volontà dell’uomo sulla natura e del suo operare in essa. Sono organi dell’intelligenza umana creati dalla mano umana; potenza materializzata del sapere. Lo sviluppo del capitale fisso mostra in quale misura il sapere sociale generale, la conoscenza, si è trasformato in forza produttiva immediata, e quindi fino a che punto le condizioni del processo vitale stesso della società sono passate sotto il controllo dell’intelligenza generale e rimodellate in accordo con essa. In quale misura le forze produttive sociali sono prodotte non solo nella forma del sapere, bensì come organi immediati della pratica sociale; del processo reale della vita” (Ivi, p. 594).

6. Siamo in grado ormai di affrontare direttamente la soggettivazione dell’individuo sociale, dentro la sussunzione nel General Intellect. Sappiamo che esso incarna (dà carne) all’astrazione del lavoro. Sappiamo anche che in tal modo l’astrazione del lavoro diviene una potenza comune, perché formata nella cooperazione dei processi produttivi – cooperazione divenuta sempre più estesa ed intensa nello sviluppo produttivo del capitale, fino a realizzarsi compiutamente nel General Intellect, nella sussunzione di terzo grado. Sempre più estesa perché, come abbiamo visto, la risposta capitalista alle lotte degli anni ‘60 e ’70 è stata di fuggire dalla fabbrica – oppure, quando la fabbrica era mantenuta, di svuotarla di lavoratori. Ma se fuggire dalla fabbrica significava per il capitale investire la società intera con servizi produttivi e metterla al lavoro per la produzione di merci, per i lavoratori ciò ha significato costruire nuove forme di cooperazione a livello sociale – sempre subordinati ma spesso indipendenti dal comando diretto del capitale. La mobilità spaziale e la flessibilità temporale furono le forme nelle quali si mostrò, per qualche tempo, la relativa indipendenza del lavoratore nella nuova cooperazione. Il capitale la costrinse poi alla precarizzazione del salariato, ma ciò determina continua instabilità e squilibri difficili da sanare.
E sempre più intensa. Perché la seconda risposta capitalista al grande ciclo delle lotte dell’operaio-massa consistette, oltre che nell’estensione spaziale, sociale, dei processi lavorativi, nell’introduzione massiccia di automatizzazione degli impianti e nella digitalizzazione/informatizzazione del lavoro. Alla sussunzione degli spazi della cooperazione sociale si accompagnò così la sussunzione, nel General Intellect, delle nuove energie intellettuali e linguistiche (della nuova forza-lavoro scolarizzata). Se anche l’algoritmo è, come avrebbe potuto dire il vecchio Marx, “una macchina che corre dove c’è lo sciopero”, e cioè dove ci sono resistenza e rottura – e quindi ristrutturazione – del processo di valorizzazione – esso è una macchina oggi prodotta da quella stessa forza autonoma, che è espressa dalla nuova qualità del lavoro vivo.
La produttività generale del lavoro fece così un gran balzo in avanti. Ma soprattutto si intensificò la cooperazione sociale dei soggetti produttivi, poiché il lavoro cognitivo vive della cooperazione linguistica, del sapere che lo costituisce e dell’innovazione singolare che produce. Così cresce l’indipendenza del lavoro vivo a fronte del lavoro morto che vuole organizzarlo. Così si impone il comune della cooperazione.

6.1. Questa mutazione radicale del lavoro vivo produce le attuali difficoltà del capitale nel controllo della forza-lavoro e nella direzione dello sviluppo. L’Individuo Sociale marxiano non è solo una virtualità, è anche un modo, un dato della lotta di classe. È quell’indipendenza relativa del lavoro vivo, sociale e cognitivo, quel comune cooperativo, che il capitale non riesce più a subordinare se non attraverso una gestione dall’alto. Ancora una volta si afferma il vecchio adagio dell’operaismo: prima la lotta, poi la trasformazione, le ristrutturazioni capitaliste. E infatti allo sfruttamento diretto del lavoro individuale – caratteristico delle vecchie tecniche di management – si sostituisce allora l’estrazione del valore sociale da parte della finanza, attraverso una governance sempre più rigida dei processi lavorativi sociali.
Torniamo qui a sottolineare le caratteristiche del capitalismo oggi, definizioni dalle quali eravamo partiti – ma ora le consideriamo nello scontro fra il potere del General Intellect e l’insorgenza dell’Individuo Sociale. Rivediamo allora la distinzione tradizionale fra il livello produttivo “reale” e la gestione monetaria della produzione. Questa distinzione è impossibile da conservare dal punto di vista interno ai processi economici in generale. Su queste dimensioni infatti, oggi il capitalismo si regge sulla rendita. I grandi industriali, piuttosto che reinvestire il profitto, lo riciclano nei meccanismi della rendita. Nel circuito della valorizzazione, il sangue del capitale si chiama oggi rendita ed essa copre una funzione essenziale nel mantenimento del sistema capitalistico: nel mantenimento, intendo, delle gerarchie sociali e dell’unità del comando di capitale. Il denaro diventa anche l’unica misura della produzione sociale. Esso è forma, sangue, circolazione e riproduzione nelle quali si consolida il valore costruito socialmente ed estratto dall’intero sistema economico. È qui che si dà la totale subordinazione della società al capitale. La forza-lavoro, quindi l’attività della società, è sussunta dentro questo denaro che è insieme misura e, al tempo stesso, controllo e comando. Lo stesso ceto politico è tutto dentro questo processo e le forme della politica ballano su questa corda.

6.2. La crisi del 2007, che non finisce più, può essere interpretata a partire da questi presupposti. La crisi nasce dalla necessità di mantenere l’ordine moltiplicando la moneta (i subprimes, e tutto il meccanismo spaventoso che ne è seguito, serviva per pagare la riproduzione sociale di una forza-lavoro riottosa, da parte di un sistema bancario che stava conquistando il dominio globale). Bisogna dunque mettere le mani su questa cosa per distruggerne la capacità di resistenza. Non ci può essere equivoco su questo punto. Contro ogni concezione che riporta le ragioni della crisi al distacco tra finanza e produzione reale, insistiamo invece sul fatto che la finanziarizzazione non è una deviazione improduttiva e parassitaria di quote crescenti di plusvalore e di risparmio collettivo. Non è una deviazione, bensì la nuova forma di accumulazione del capitale all’interno dei nuovi processi di produzione sociale e cognitiva del valore. La crisi finanziaria che abbiamo visto svilupparsi, va quindi interpretata come risposta al blocco dell’accumulazione di capitale prodotto dal lavoro vivo sul terreno globale. E come conseguente esito implosivo di mancata accumulazione di capitale, di difficoltà nei processi a mettere in ordine nuove forme di accumulazione.

6.3. Ritorniamo all’individuo collettivo dei Grundrisse. Sembra una battuta retorica, forte, elegante, evocativa, quella che Marx esclama quando, in questo contesto, afferma che il capitale fisso è divenuto l’“uomo stesso”: in realtà egli anticipa qui lo sviluppo del capitale nel nostro tempo. Sebbene il capitale fisso sia il prodotto del lavoro e nient’altro che lavoro appropriato dal capitale; sebbene l’accumulazione dell’attività scientifica e la produttività dell’“intelletto sociale” siano incorporati nelle macchine sotto il controllo del capitale; e infine, sebbene il capitale si appropri gratuitamente di tutto questo – lo abbiamo già ricordato – come di una natura della socialità (della cooperazione), gratuitamente dunque – proprio questa trasformazione ci permette di cogliere il lavoro vivo come potere di sovvertire il rapporto di capitale. L’individuo sociale comincia infatti qui a mostrare la sua priorità rispetto al capitale e al management capitalista della produzione sociale. In altre parole, quando il lavoro vivo diviene una potenza sociale sempre più larga, e si presenta come natura, quando opera come attività sempre più indipendente dalle strutture disciplinari che il capitale comanda – non si presenta più semplicemente solo come forza-lavoro ma, in modo più generale, come attività vitale. Da un lato, l’attività umana e la sua intelligenza passate sono accumulate, cristallizzate come capitale fisso, ma dall’altro lato, rovesciando il flusso, i viventi umani sono capaci di riassorbire il capitale in se stessi e nella loro vita sociale. Il capitale fisso è l’“uomo stesso” in entrambi i sensi.
Qui l’appropriazione di capitale fisso non è più una metafora ma diviene un dispositivo che la lotta di classe può assumere e che si impone come programma politico. In questo caso, il capitale non è più solo un rapporto che include il produttore, imponendogli forzosamente il suo dominio – ma un rapporto capitalistico che include, ora, una contraddizione ultima: quella di un produttore, di una classe di produttori, di un Individuo Sociale, che lo ha, parzialmente o totalmente, comunque effettivamente, svuotato del suo potere. Mostrando se stesso come soggetto egemone. L’analogia con l’emersione del “Terzo Stato” da dentro le strutture dell’Ancien régime, narrata da Marx nella sua storia della lotta di classe, e la maniera esplosiva, rivoluzionaria, in cui è narrata, sembra poter essere qui ripresa. Insomma, qui rinasce la lotta di classe per il potere.

7. A questo punto dobbiamo focalizzare le nuove figure del lavoro, specialmente quelle che, nel lavoro digitale, sono create dai lavoratori stessi. Sono questi i lavoratori le cui capacità produttive sono state accresciute dalla loro sempre più intensa cooperazione. Sono l’elemento di punta dell’Individuo Sociale. Ora, guardiamo quello che succede qui. Il lavoro nella cooperazione ha una grande capacità di organizzare la produzione stessa, autonomamente e, in modo particolare, in relazione alle macchine, pur rimanendo subordinato ai meccanismi di estrazione del valore da parte del capitale. È questa autonomia la stessa che abbiamo riconosciuto nelle forme del lavoro autonomo nelle prime fasi della produzione capitalistica? Come abbiamo già osservato, certamente no. L’ipotesi è che ora ci sia un grado di autonomia che non riguarda solo il processo di produzione ma che si imponga in senso ontologico – che il lavoro conquisti una consistenza ontologica anche quando esso sia completamente subordinato al comando capitalista. L’individuo sociale è questo. Si può riconoscere qui una situazione nella quale processi produttivi nelle mani dei lavoratori, e meccanismi capitalisti di valorizzazione e di comando, sono sempre più ampiamente separati. Il lavoro ha raggiunto un tal livello di dignità e di potere che esso può potenzialmente rifiutare la forma di valorizzazione che gli è imposta e quindi, anche sotto comando, sviluppare la propria autonomia.

7.1. I crescenti poteri dell’individuo sociale possono essere riconosciuti non solo nell’espansione e nella crescente autonomia della cooperazione ma anche identificati nei poteri sociali e cognitivi del lavoro dentro le strutture della produzione. In primo luogo: la cooperazione espansiva è dovuta sicuramente all’incremento del contatto fisico tra i lavoratori digitali nella società informatizzata ma ancor di più (come da sempre Paolo Virno ci sollecita a pensare) alla formazione di una “intellettualità di massa”, animata da competenze linguistiche e culturali, da capacità affettive e da potenze digitali. Queste capacità e questa creatività del lavoro aumentano la produttività, quanto più sono singolari – cioè indipendenti nella loro capacità di invenzione. Consideriamo, dunque, quanto il ruolo della conoscenza sia mutato nella storia delle relazioni fra capitale e lavoro. Come abbiamo già visto, nella fase della “manifattura”, la conoscenza dell’artigiano era impiegata ed assorbita nella produzione come una forza separata, isolata, quindi subordinata in una struttura organizzativa gerarchica. Nella fase della “grande industria”, di contro, gli operai erano considerati incapaci della conoscenza necessaria alla produzione, che era quindi  centralizzata nel management. Nella fase contemporanea del General Intellect, la conoscenza ha forma moltitudinaria nel processo produttivo, anche se, dal punto di vista del padrone, essa debba essere isolata come lo era la conoscenza artigiana nella manifattura. In realtà, dal punto di vista del capitale rimane un enigma il modo in cui il lavoro si auto-organizza, anche quando questo diventa la base della produzione.

7.2. Per andare ancor più a fondo nell’argomento e per togliere quella sembianza utopica che può indebolire il nostro ragionamento, consideriamo come alcuni studiosi del “capitalismo cognitivo” descrivano il prender forma dell’Individuo Sociale. Sarò brevissimo, citando David Harvey che studia questo costituirsi attraverso l’analisi degli spazi di insediamento e di attraversamento delle metropoli da parte dei corpi messi al lavoro – spostamenti del capitale variabile che hanno effetti di radicale negatività sulle condizioni e sulle pratiche dei corpi sottomessi e che tuttavia scoprono capacità di movimenti autonomi e di autonomia nell’organizzazione del lavoro. Questa analisi è tuttavia assai esteriore. Molto più incisiva fu quella che André Gorz a suo tempo suggeriva, rovesciando l’intreccio complesso di sfruttamento e di alienazione, nel sottolineare come le potenze intellettuali della produzione si formano nel corpo sociale. È la liberazione dall’alienazione sociale che rilancia la capacità di agire soggettivamente/intellettualmente nella produzione. Man mano, procedendo su questa linea, non si stupisce scoprendo – come sempre ricorda Carlo Vercellone – che già oggi “la parte del capitale chiamato ‘intangibile’ (R&D ma anche educazione e sanità) supera quella del capitale materiale nello stock globale di capitale ed è divenuto l’elemento determinante della crescita economica”. Il capitale fisso appare ormai dentro ai corpi, inciso in essi ed a un tempo loro subordinato – tanto più lo sarà quando consideriamo “attività come la ricerca o i software dove il lavoro non si cristallizza in un prodotto materiale separato dal lavoratore ma gli resta incorporato al cervello ed indissolubile dalle persone”. Qui il capitale fisso è la cooperazione sociale. Qui le frontiere del rapporto fra lavoro vivo e lavoro morto (ovvero fra capitale variabile e capitale fisso) sono definitivamente messe in crisi.
Le funzioni emancipative della cooperazione del lavoro vivo investono, dunque, ed occupano in maniera crescente gli spazi del capitale fisso.
Ancora su questo punto – avanzando con Carlo Vercellone e Christian Marazzi. Ciò che viene chiamato capitale immateriale o intellettuale è in realtà essenzialmente incorporato negli uomini e perciò corrisponde fondamentalmente alle facoltà intellettuali e creatrici della forza lavoro. Noi possiamo dunque riconoscerlo come individuo sociale. Ci troviamo, come avevamo previsto, di fronte ad uno sconvolgimento degli stessi concetti di capitale costante e di composizione organica del capitale ereditati dal capitalismo industriale. Nel rapporto c/v (capitale costante/capitale variabile) che designa matematicamente la composizione organica sociale del capitale, è infatti v, la forza-lavoro, che appare come principale capitale fisso e, per riprendere un’espressione di Christian Marazzi, si presenta come “corpo-macchina” della “forza-lavoro”. Poiché, precisa Marazzi, “oltre a contenere la facoltà di lavoro, funge anche da contenitore delle funzioni tipiche del capitale fisso, dei mezzi di produzione in quanto sedimentazione di saperi codificati, conoscenze storicamente acquisite, grammatiche produttive, esperienze, insomma lavoro passato”.

Ora, perché la rottura rivoluzionaria possa darsi all’interno di questo quadro, l’individuo sociale deve essere trasformato in forza politica.
Si dirà: ma come puoi pensare che i più sfruttati, i precari e i lavoratori cognitivi marginalizzati possano formare questa potenza? Io lo penso, perché essi posseggono l’intera forza della produzione e della riproduzione della vita. Come ciò possa avvenire, non lo so. Ma opero affinché questo avvenga. Non ho mai compreso perché il dominio sia dato come qualcosa di non rovesciabile, perché dunque il destino della soggezione debba essere dato come necessario. Tanto più quando la forza-lavoro è sussunta nel General Intellect e il suo alto valore cognitivo, la dignità del lavoro si sviluppano nella cooperazione – quando la forza-lavoro si presenta come potenzialità dell’individuo sociale. Individuo sociale: il nome attuale di classe operaia. Movimenti di lotta, di rifiuto sociale dello sfruttamento si moltiplicano. Dobbiamo allora immaginare cosa possa significare per questo soggetto in lotta rinnovare i soviet, cioè portare la forza, la moltitudine, il comune dentro la realtà produttiva e rovesciare le nuove totalitarie organizzazioni del denaro e della finanza. L’individuo sociale moltitudinario è sfruttato socialmente, come l’operaio lo era un tempo nella fabbrica. Mutatis mutandis, si conferma dunque, ora, a livello sociale la validità della lotta di classe. Il capitale – ricordiamolo sempre – è un rapporto di forza antagonista fra chi comanda e chi lavora. Ora, è là dentro che può darsi la rottura. Come dice un nostro compagno anarco-comunista, grande conoscitore del mondo digitale, lo si può fare in due modi. Con la lotta tradizionale del sindacato, delle leghe e del coordinamento di base, una lotta che percorre “le strade del cooperativismo fra piattaforme – un movimento già esistente che cerca di digitalizzare le strutture mutualistiche dello Stato sociale e di creare alternative politiche alle piattaforme capitalistiche attuali”. In secondo luogo: “c’è poi la strada dei commons digitali che creano condizioni economiche materiali per raggiungere il potenziale veramente comunista delle piattaforme e per scoprirne la vera natura: superamento della proprietà privata, abolizione del lavoro salariato e creazione del governo dei beni comuni”.
Presupposto resta il riconoscimento che “il lavoro non è capitale” ed è piuttosto forza rivoluzionaria, produttiva di libertà e di comune.

 

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