di FANT PRECARIO e GIROLAMO DE MICHELE.

Anticipiamo le prime pagine del libro di Fant Precario e Girolamo De Michele If the Kids are United. Musica e politica fra i 60 e gli 80 (A Poor Yorick Entertainment), manifestolibri, pp. 202, € 18, postfazione di Antonio Negri, da oggi in libreria.

pre/testo

potrebbe cominciare così:

– Minchia Silve, cosa dici? Ti piace? (chitarra:) “zat… zat… frut… frut…”
– Beh insomma: non sai fare di meglio?
– NO!
– Allora avanti, mettiamo il basso stump… stump, la batteria boum… boum…, e ora io canto.
(Il coro:) Cerca di non sputare sul microfono che Pino ci fa il culo.

potrebbe: e invece no

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…cominciamo dalla fine

Andare a Vesima, estremo ponente di Voltri, da Stalinopoli non è mai stato facile.
Prendi il 7, poi l’1 e infine il 92. Nell’asfalto che si scioglieva azzannavamo tranci di focaccia di Voltri e gazzosa di Borzoli – solo quella, nessun’altra era ammessa. Finite le medie, e poi il liceo, tutte le estati la potenza del proletariato giovanile si dislocava su quello stretto arenile per predestinati al disordine della lotta di classe.

8 giugno 1981: Zanza, Pino e io festeggiavamo la vittoria di Battaglin al Giro d’Italia. L’ometto che ventunenne, nell’anno della crisi del Tarangu Fuente su quel dente di squalo che è il Monte Carpegna aveva osato sfidare il Cannibale pasciuto dal burro fiammingo e dal sudore dei martiri di Marcinelle, finalmente guardava stranito la maglia che già era stata di Fausto.
E noi, cinepresa strappata alla comunione, chitarrina senza più le 100 illusioni, gustavamo i vent’anni con un ghiacciolo made in Borzoli. Il cielo era azzurro a Vesima, ma nonostante Vuelta e Giro, l’aria era fritta, e non solo di totani.
Totani, il batterista saprofita, l’uomo che veicolava Billy Cobham nelle sere rubate alla disco. Nel torpore assai poco dogmatico indotto dal tradimento rock di Donna, anche la Summer non era più tale.

Strano tanto vuoto dentro la pancia a vent’anni. Ma le cose allora correvano, ben più veloci delle macchine della madama e dei vespini di Minghella, appena condannato.
Il travaglio di un decennio era tutto lì nella povera scritta Brigate Rose. Anche la rivoluzione della Disco in un solo paese era stata persa: figurarsi il languore di chi, mai operaio massa, neppure avrebbe potuto essere operaio. La nostra figura, più o meno sociale, si perdeva nel tramonto delle partecipazioni statali.
Però… per la testa si aggiravano ancora sonorità arcigne che ci avevano infiammato appena quattro anni prima, ma che ora risultavano inflessibili attrezzi calati nelle mani del capitale per erigere muri e appropriarsi di note sempre più ossessive.
Intorno a noi la solita comunità già migrante ora stanziale, dal Giro del Vento a Cep, passando per Begato. La crème de la crème del proletariato urbano ostentava le prime camice arancioni dopo un biennio nero ed inspiegabile: persa la fabbrica tornava il mercato, il luogo astratto cui si opponeva il concreto della separazione che vivevamo (vivevamo?).
“La guerra era la situazione ontologica cui la rottura del mercato conduce. Ma il problema è la verità, è districare la verità della separazione e coglierla nella sua im-mediatezza”: avevo trovato l’opuscolo in via Balbi, in un luogo colmo di residui dialettici che ingombravano il campo. In questo territorio stratificato, pieno di anfratti, occorreva l’autocritica dell’esistente, che tenesse presente, assieme alla qualificazione dell’esistente la forza dell’avversario, la sua capacità di insinuarsi in maniera distruttiva sulla discontinuità dei processi politici del proletariato, di esasperarla, di ridurla alla ragione capitalistica della repressione.
Questo era il nostro passato prossimo (prossimissimo?). E allora vai a cercare nei mercatini l’alibi alla sconfitta illudendoti nell’invenzione di un nuovo produrre, vai a cercare nella grande zuppa del personale è politico l’alibi della caduta di ogni pratica di lotta. Nel mezzo, a tentare sintesi impossibili, restavano il più squalificato politicante o l’ultimo dei sessantotteschi profeti della mediazione: com’è come non è, il fantasma del contropotere, non innestato sull’autovalorizzazione, riappariva come variabile impazzita.
Basta.
Basta con l’universale, basta con il mercato, basta con l’utopia anche con quella meravigliosa e pudibonda di Ian Curtis (non era certo quella separazione che noi nipoti di Stalingrado invocavamo).
E allora Bitt!: ricercare la fonte del suono smascherando l’inganno, riportare sul terreno di lotta la volontà di soggettivazione svincolata dalla nostra miseria.
E allora, di nuovo il legnoso gesticolare ri-apprendeva la smisurata perfidia dell’organo di Al Kooper, non più mediato dalle tessere sindacali o dell’arroganza della Renault.

Partivamo alle 7 in quarantadue, con panini e bibite assortite
e poi ti ricordi il cielo di Vesima, infuocato dal sole,
il mare puzzolente di merda e rifiuti e il tuo bikini marcio di caccole
e il tuo sorriso fetido e aglioso e il tuo sorriso fetido e algoso…
Vesima-a-a Vesimaaaaaa
I pantaloni rotti, le scarpe di plastica
e la mia voglia di fica da impazzire
che noi prendevamo che noi prendevamo.
trix, trix alla meno medusaaaaa
Vesima-a-a Vesimaaaaaa.

Siamo alle solite, penserete: il proletsegaiolo che piange e rimpiange il sole dell’avvenire…
Tutt’altro: prima generazione alla quale il sole era stato negato anche nella declinazione socialdemocratica, ma anche la prima che quel sole aveva deriso.
Occorreva andare oltre, verso quel mercato che fagocitava non solo le braccia ma anche le menti.
Ecco, siamo nel 1981, siamo appena ventenni con l’urgenza di farci imprigionare nello statuto dell’impresa, ma primi tesi al suo superamento (quando ancora in tanti scommettevano sulla fabbrica).
Giusto volgere lo sguardo, quindi a quello che era successo, a Stalinopoli cinque anni prima. E a come ci si era arrivati.

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