di MARCO ASSENNATO.

Due articoli, pubblicati da il manifesto del 15 giugno 2018, segnalano con chiarezza definitiva il pericoloso stato di salute dell’urbanistica critica. Si tratta della bella recensione, a firma di Paola Bonora, di un volume edito da Derive e Approdi e scritto da Ilaria Agostini ed Enzo Scandurra dedicato a scandagliare Miserie e splendori dell’urbanistica italiana [qui]; e del fondo che lo stesso Scandurra ha scritto sulle ormai note vicende dello stadio della Roma [qui]. Entrambi i testi concordano sul punto: la cultura urbanistica italiana è ormai «travolta dalla bufera deregolatriva del capitalismo finanziario». Se ne ricava quindi la crisi irreversibile dello «spirito pianificatorio», anima e paradigma della disciplina.

Richiamando qualche rigo della prefazione che Piero Bevilacqua ha scritto per il volume di Derive e Approdi, Bonora allarga i termini del problema ed inizia a fornire criteri di validazione della diagnosi: il disordine incontenibile dei territori costruiti va spiegato, prima ancora che a partire dall’urbanistica, a partire dalle caratteristiche dell’«urbanesimo come processo storico». Notazione preziosa questa, rilanciata dallo stesso Scandurra che segnala, ad esempio, la mutazione pervenuta, da almeno un trentennio, nei regimi di proprietà dei suoli e manifesta in quella singolare forma di partnership tra pubblico e privato che piega il primo al servizio del secondo: «l’interpretazione del pubblico interesse – scrive Scandurra – vede in sostanza il pubblico affidato agli interessi finanziari dei proprietari fondiari, dei costruttori, delle banche creditrici, pronti a mettere in campo tutte le relazioni e i poteri di cui dispongono per assicurarsi la legittimazione “pubblica” dei loro profitti».

Mi sembrano, questi, concetti preziosi che permetterebbero di intravvedere lo spazio di lavoro possibile per una decisa riformulazione dei termini della questione. Tra l’altro è su questo filo di ragionamento che lo stesso Scandurra chiarisce, a proposito dello stadio romano, un dettaglio rimasto fin qui in ombra nel dibattito – schiacciato com’è in vaghe e indignate proteste contro la «nuova cementificazione», il «nuovo sacco di Roma»: il progetto del nuovo stadio, nel passaggio dalla giunta Marino alla giunta Raggi, non solo si realizza, ma si realizza peggiorato, dacché libera il privato persino di quel 30% di capitale da investire in opere pubbliche in cambio di una mal pensata riduzione delle cubature. L’infantile attenzione alla «volumetria» delle architetture, dunque, impedisce di vedere, copre e dissimula, la «dimensione concreta», economico-politica, del lavoro architettonico.

Tuttavia, arrivati qui, Bonora e Scandurra si fermano. «Morte dell’urbanistica» si dice. E peggio ancora capita quando essi cercano rimedi critici alla situazione: allora si vola nei paradisi artificiali dell’utopia e della speranza. Alla natura globale dei processi storici di urbanizzazione si oppongono le comunità locali, alla finanza internazionale il microcredito e le monete alternative, alla speculazione fondiaria l’eterno riferimento naturalistico al paesaggio, alla partnership pubblico-privato il mito della partecipazione civica. Tutte cose, sia chiaro, tanto pregevoli ed essenziali da comporre la grammatica essenziale sulla quale – forse non ancora a Roma, ma di certo ai quattro angoli del pianeta, dove le amministrazioni neoliberali sanno essere efficaci – si costruisce la narrazione della governance dei territori. In altri termini: si tratta di strategie integrabili nel governo capitalistico della metropoli.

Siamo al punto politico, insomma: l’urbanistica muore se essa si identifica con il piano e se identifica il piano con un qualche dispositivo sovrano, pubblico, la cui forza dipenderebbe dalla sua autonomia dal privato e dal mercato. Il problema è nel continuare ad impiccarsi al sogno dell’autonomia del politico – il cui corollario è l’idea di uno sviluppo capitalistico senza faglie e onnipotente. Una strategia che, almeno dall’alba del tornante neoliberale, è stata travolta dalla storia. Allora certo: non restano che il sogno, la speranza, l’utopia. Sono cose che sappiamo. Del resto, se c’è un contributo che alcune scuole italiane hanno dato alla ricerca urbanistica internazionale, già attorno agli anni Settanta, questo concerne esattamente la crisi della pianificazione, le sue ragioni, i suoi limiti.

Ma l’urbanistica ha un ruolo se sa leggere la gestione capitalistica della metropoli come sistema di contraddizioni. Se ritrova, dentro al diagramma del potere, i conflitti di interesse e i dispositivi di soggettivazione antagonistica, che sempre, nelle metropoli, si danno. La pianificazione pubblica, in un sistema che si è fatto esso stesso critico, è solo cattiva ideologia. Ma dentro alla crisi del piano si può e si deve costruire conflitto e sapere. Ha qualcosa da dire, su questo, l’urbanistica? Altrimenti, certo, è morta.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 22 giugno 2018

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