di FANT PRECARIO.

Prosegue la serie di recensioni di dischi del ’68, preannunciata dal testo-manifesto Il ’68 è la prosecuzione della legge del valore con altri mezzi [qui]. Le due precedenti sono qui e qui.

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IL POVERO YORICK
presenta
“La musica del ‘68” – Cinquant’anni di plusgodimento acefalo

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Vol. 3: THE CAN, MONSTER MOVIE – 1968-1969

in ricordo di Holger Czukay (1938- 2017)

Dei suoni del ’68 tanto s’è detto e si dirà. Tante le considerazioni su quanto accadeva nelle strade, nei club, nei prati assolati. Anche qui sopra, si è tentato di ricostruire ciò che in quell’anno (ed intorno) si faceva, cercando di evidenziare quanto di propulsivo vi era nello sciabordio di chitarre e quanto si arroccava nel segno di una gioventù “ribelle” che sopravviverà soltanto nelle pubblicità della Marlboro.

Che il capitale si sia pasciuto di quest’ultimo segno, individualista nel groviglio di corpi (belli e giovani) che si ammassavano alla ricerca di una liberazione che era come usare la sigaretta elettronica per smettere con il tabacco, è un fatto che i continui accenni al revival e alla rigenerazione del corpo morto dell’uomo economico rimarcano con fredda sollecitudine ammantata di pulsioni che, non smentiscono ma conclamano la rigidità del deceduto.
Sparirà invece la possibilità della rimozione attraverso l’arte di un’intera epoca fatta di catene, grasso per catene, catene per legare le moto, per legare sé stessi alla fabbrica e poi alla città.
Non si esce dalle catene a meno che non si sia Houdini: il vizio di fondo era proprio quello, delegare la rivoluzione, nella morte della delega, ad un mago.
Ebbene, Can fu tra i pochi che si oppose alla legge del valore, ma anche alla sua ri-valorizzazione sotto forma di magia ovvero di fuga attonita ovvero di presagio reaganiano.

Quello che i giornali non dicono, il grande assente da ogni commemorazione del ’68 è il sudore. IL SUDORE DEI POVERI. Peraltro, dato che Yorick è per definizione poor (e, magari per vezzo, suda moltissimo) generosamente, vi spiegherà perché nel ’68 c’erano i poveri, poveri che sudavano e nel sudore individuavano “nuove forme di libertà”, come potevi leggere sui muri della stazione di Sampiedarena, offrendo possibilità espressive dai/ai/per i confini dell’impero.
Si, perché, tutto questo parlare del maggio (anche da parte di quanti, allora – e sempre – lesinarono il proprio coraggio) “musicalmente” riporta, naturalmente (nel senso di “con naturalezza”, palesando ovvia condiscendenza), a USA e UK, centro di effusioni a base di R&R since 1954.
Il resto era replica, ripresa, cover.
Gli stati satelliti orbitavano intorno al ricordo di John e Jackie, lasciando a ⇒ Dino la versione di Obladì Obladà nella lingua di Dante, secondo cui, assai poco lisergico, Johnny faceva la pizza al Superbar [che poi questa cosa della “pizza”, ben prima di Michele Placido, è ossessione italica, tanto che poco dopo, i Flora Fauna e Cemento – bel nome del cazzo, direte, ma quando c’è di mezzo il ricciolo fascio, che ci si può aspettare – avrebbero implorato ⇒ (Jesus Christ) vieni al bar e lascia perdere superstar… In effetti la “superstar” sarebbe arrivata una decina di anni dopo from Poland, (come leggi negli annunci delle escort, post-COMECON)] e a baldanzosi giovani e accattivanti ragazze yé yé di tutta la NATO la riproduzione di tante hit anglostatunitensi di quei giorni.
Oppure c’era la canzone popolare, destinata a dissolversi nella moda del cantautore, che asfissierà (nel)le serate dei primi ’70, rendendoci eterni liceali pronti a sfogliare Margherite alla ricerca di colei tra esse che, vera, ama e lo fa una notte intera.

C’era però una terza via, che non era quella dei canzonieri, che non era quella dell’imitazione servile del modello post-Elvis già compiutamente assorbito (e smaltito) dal capitale.
Perché vedete, si possono bene picchiare gli operai fischiettando “c’era un ragazzo che come me…”, si può spargere napalm sulle teste vietcong ancheggiando alla Morrison, preparare – insomma – il superamento del modo di produzione industriale attraverso le grondanti chitarre del primo hard (perché come diceva Galbraith, impara l’Hard e mettilo da part).
In fondo, non è un caso che Marx fosse a Detroit e Lenin in Inghilterra. Mica il sublime fautore dell’autonomia del politico evocava Serrati a Castiglione delle Stiviere, Pannenkoek a Delft, Barbè a Sète.
Il centro del “primo mondo” (quando i mondi erano perlomeno tre, Tito era già incartapecorito e Gandhi uno spauracchio per i bambini che non volevano mandare giù il formaggino Mio) restava pienamente atlantico e l’accanimento terapeutico per la sopravvivenza delle catene (tanto di montaggio che ai polsi) impediva ogni possibilità di soggettivazione musical-proletaria.
Ma lo strano “altrove” che usciva dalla guerra, che aveva narcotizzato la repulsione al nazifascismo attraverso NSU e FIAT, che piano piano, di repressione in repressione ci portava al mare in vacanza, forse proprio perché collazionato a fini copiativi (Little Tony e Johnny Hallyday sono degli Elvis brutti e nati in odor di contado) riusciva a smontare l’ideologia del giro di blues ridotto a menzione, quasi fosse Bulgaro al tempo dei Longobardi, la decadenza beatlica (nel senso di Beat e di Beatles) a schiodare le assi del recinto del soul.

Quella periferia (perché si può essere “stato” ed essere periferia, alla faccia degli Ottoni e dei Beniti imperiali) emanava profumi colmi di rivolta, tesseva stoffe ben più ardite dei sarti londinesi, poteva concedersi il lusso di comprendere – ben più di tanti più autorevoli – che ⇒ Kind of Blue era stato edificato sul povero e sul sudore. Da lì doveva procedersi.

Holger Czukay nasce a Danzica il 24 marzo 1938 (e già il tempo e il luogo dovrebbero far meditare). Nel ’68, insieme ad un manipolo di stockauseniani [che, già denominatisi Inner Space Production, si chiameranno The Can (il THE era d’obbligo per i vassalli del mondo libero, passaporto per l’accesso alla credibilità globale, come del resto il cantare in inglese)], si presenta a Colonia per registrare diverse tracce che, invero, saranno pubblicate l’anno successivo con il titolo di Monster movie [per essere ancora più precisi e per dimostrare che il Povero Yorick ha un cultura infinita, (i) registrarono solo il lato A) mentre il lato B) è un lungo pezzo dal vivo di cui non parlerò perché come insegna Vlad è molto meglio ascoltare una rivoluzione che scriverne (magari, anzi certamente, male), registrato il 25.07.69 [qui]; (ii) altre tracce furono registrate ma comparvero, postume, nella compilazione del 1981 dal titolo Delay 1968].

Prima di addentrarci in quella (vera) fusione di intuizioni sonore, sia permessa una violenta bestemmia contro coloro che identificano questa “musica” sotto l’etichetta Krautrock (fermo che dare etichette è sempre da coglioni, chi ci guadagna poi sono i padroni), orribile contenitore che accomuna gesti di soggettivazione quali quelli odiernamente in esame e lamprede del synth come il lardoso dello spazio Edgar Froese o i Kraftwerk.

PS: minchia Pino, sai che il Can lo Sucai a Stocausen… ah ah ah, e giù grasse ed incolte risate. Questa è l’arte della periferia proletaria, per tutto il resto c’è Alfabeta2.

Il proletario mette i rifiuti della propria civiltà sul palcoscenico, cambia/no – così – forma indifferente/i a codici etici, patriottardi. I legumi della minestra, povero cibo per povera gente, li guardi nella broda e ne scovi il colore, variopinto, meticciato di scarse calorie che speri presto sarà di genti. Avrebbe potuto esserlo. Quello che va lodato era il desiderio di prendere parte, di cambiare, separare il pugno chiuso dalla persona che lo faceva per pervenire ad una miscela, pura ma ebbra, di pugni chiusi.
Outside my door è urgenza schitarrina, armonia leggiadra che si schiude in una voce che non vuole salire, non punta in alto, si aggira tra i nervi e le vene, raggomitola le liturgie dei Kinks e lascia liberi i marziani scampati agli anni ’50 e ’60 della controriforma democratico-cristiana con venature socialdemocratiche. Verdi di rabbia, di natura (“edificata” e corrotta, come deve essere, non “naturale”), di vent’anni di cloroformio.

Mary, Mary so contrary. A torto si parla di ipnotismo. Ipnotizzati lo si era dalla pubblicità delle Opel, dal faccione buono del borgomastro, dalla solenne noia dei primi porno, dove anche il sesso pativa della rinuncia al marxismo di appena 10 anni fa (rinunci a Satana?!? chiedevano a gran voce i salumai delle Germanie tanto divise, mai come ora unite nella gestione di un benessere che doveva compensare il piombo dei soldatini, delle giornate passate a gorgheggiare torrenti chiari e freschi, di Stammheim).
Ed ecco, oppositivo come una barricata elegante arriva il suono compatto e friabile dei Can. L’eroe non è born to be wild, Can spinge il ritmo verso il desiderio di scaraventare la militanza nel cesso, non occorre alcun heavy metal thunder, che poi passi in un attimo dal rombo della moto al crepitare di mitraglie, che sorgi Peter Fonda e ti trovi Placanico.
L’eroe è singolarità che pulsa nel basso che affanna la voce, funkamente solidale, autonomo.
Si erode il capitale danzando sul nulla, unica cosa che il capitale non può comprare. Ci si rende inumani onde smascherare lo scheletro grasso di Elvis, si riequilibra l’asse del rock che, pasciuto come Qui, Quo e Qua da tutte le major travestite da Nonna Papera, si stava riconvertendo all’occupazione del territorio e non più delle menti.

Father cannot yell, spara 5 secondi di tintinnio che più che ispirazione degli Who Rileyani pare sveglia all’alba per il turno dalle 6 alle 2. Poi cresce, nel borbottio della moka, nella corsa a prendere l’autobus che non passa; mentre la voce di Malcom Mooney si fa rap affannato e preveggente, sequela di mannaggia sussurrati al capetto che sbuffa indicandoti l’orologio. E’ rantolo complessivo che, dimenticando tutti i palazzi d’inverno, prelude alla presa del potere di quel super-condominio che si chiamava fordismo, si sarebbe chiamato finanza e ci avrebbe condotto (perché invitto, perché invece di farci CAN si siamo fatti – di tempo in tempo – pistoleri, cacciatori di taglie, rifondatori, cantori del diritto, cani da tartufi con il naso perennemente intasato, ma questa è storia dell’oggi, presente osceno e putrido), al carcere Salviniano, declinato indifferentemente nelle forme del giovanottismo renzian-nardelloide o dell’alalà di XFactor.

Ecco, Can nel ’68 ci porgeva la via quieta alla furibonda demolizione progressiva di ogni immagine dominante del buono per indicare un nuovo modo di camminare, di parlare, evitando qualsiasi compiacenza verso l’esistente mostruoso che si dava nella socialdemocrazia. Ci si inebriò: chi di chitarre, chi di gigantesche statue di Lenin, chi di sonanti lirette (o marchi o dollaroni).
Il cambiamento ci avrebbe guidato verso il burrone dove non c’è ragione di autonomia, dove l’alternativa la danno Thelma & Louise e non Marx & Czukay.

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