Di FRANCESCO FESTA

Una sensazione inconsueta ho provato dopo aver terminato l’ultima pagina: quella di ritrovarmi in un labirinto geometrico, con molteplici ingressi, altrettanti rimandi, e una vagonata di personaggi. In realtà è lo stile di casa Wu Ming. Anche se in questo libro, Wu Ming 1 pare abbia messo il carico da novanta. Precisamente mi è sembrato di trovarmi catapultato in un disegno di Escher. Caleidoscopico è l’aggettivo che meglio ne restituisce la cifra: sentirsi proiettati in una dimensione mutevole, un andirivieni temporale ruotante attorno a due assi principali. Fra scale, porte e finestre che si aprono e si chiudono in passaggi e intrecci, mi sono sentito situato linearmente fra corpi di donne e uomini che condividono uno spazio comune in una dimensione tridimensionale – caleidociclica per la precisione – come di tanti Sisifo costretti a ripetersi, incessantemente, in più dimensioni temporali, ma generando una luce intellettuale e una trama creativa, umana e sociale, dentro quel groviglio storico eppur attraente che chiamiamo Novecento.

È questa la sensazione che trasmette Gli uomini pesce di Wu Ming 1. Un’opera che si distende su tre temporalità lungo il Novecento e la prima metà degli anni Venti: la Resistenza, gli anni Sessanta e l’estate del 2022. In questa tripartizione si muovono molteplici personaggi, aprendo e chiudendo porte e finestre essi incrociano e restituiscono al lettore una connessione di piani – “mille piani” – in tensione continua con le storie di due personaggi i quali spiccano sugli altri. Ilario Nevi, un ex partigiano, militante ambientalista della prima ora, documentarista, e sua nipote, Antonia, geografa e ricercatrice presso l’Università di Padova.

I mille piani sono la lotta partigiana lungo la “linea gotica” e l’antifascismo militante nella Prima Repubblica, con verosimili azioni da “Volante rossa”; le battaglie ambientaliste, ante litteram, quelle degli anni Sessanta e la strage di Piazza Fontana; l’identità di genere, la fuga di “Igor il russo” fra Bologna e Ferrara nei primi mesi del ‘19, e le lotte indipendentiste dei movimenti corsi; l’emergenzialismo e i comportamenti sociali durante i mesi del Covid-19; la crisi climatica e la canicola da 40 gradi in su dell’estate del ‘22. In essi si muovono le vite di Ilario e Antonia. Che in geometrica organizzazione con gli altri personaggi compongono un romanzo dalla suspense tentacolare del noir, ché è sia una ricerca biografica, sia la scoperta di questioni di genere e casi politici. Va da sé che un’altra caratteristica della fucina Wu Ming siano i tanti richiami a opere collettive e a quelle del nostro autore: da Q come Qomplotto, a La macchina del vento, Ufo78, con un philos a un romanzo certamente a-venire.

E poi: l’affaire degli “uomini pesce”, anche definito Homo Bracteatus. Un animale mitologico del bestiario padano, scrive l’autore: “l’immaginario padano continuava a pullulare di mostri”. Un escamotage narrativo per parlare del primo asse – suaccennato – il protagonista assoluto, il macro-tema che – come un “invisibile ovunque” – fa da sfondo: il Delta padano. Un luogo mitico e fantastico. Un luogo per eccellenza. Custode di identità, memoria, storia, come un’eterotopia nel senso dato da Foucault, ossia una realtà che si differenzia dalla realtà circostante in quanto è in grado di ospitare spazi e tempi diversi, e spesso incompatibili all’interno dello stesso ambiente. Dunque il grande Po appare come il custode del futuro anteriore delle comunità che lo vivono: il genius loci di paesi e città situati fra acqua e terra.

Il tema fra i temi de Gli uomini pesce è proprio il cambiamento del Delta padano e dei suoi luoghi. In realtà le trasformazioni radicali del grande fiume sono state storicamente il contrappasso del mutamento dei bisogni umani, talvolta adattandosi e talaltra trasformando radicalmente la propria conformazione, provocando nel lungo periodo quelle crisi ecologiche di cui oggi si paga dazio. Il cambiamento come categoria di pensiero della sinistra migliorista del dopoguerra ha significato progresso, evoluzione, secondo la filosofia storicista, la storia umana procede sempre verso il meglio. Ma la domanda che questo libro solleva fra le righe è se la storia dei cambiamenti volga verso il progresso oppure, col senno di poi, sia l’accelerazione verso l’autodistruzione.

In effetti l’insostenibilità del rapporto fra capitale/natura è causa della crisi climatica ed ecologica. In particolare Wu Ming 1 ricostruisce come quel rapporto si sia incrinato nel territorio ferrarese, ripercorrendo storie a lui prossime e tradotte narrativamente in rimandi continui fra Ilario, l’antifascismo, i cambiamenti del Delta e l’aggressività del capitalismo dello Stato-piano negli anni della ricostruzione postbellica.
L’eco della Resistenza – e questo è il secondo asse – in quella tripartizione temporale sono in realtà un ripercorrere le forclusioni della storia d’Italia, ossia quel “valore morale” fondante l’identità del paese da espungere, nascondere sotto il tappeto, ma che giocoforza torna sempre in superficie. Dunque il Po e la Resistenza in una narrazione, dove la ragion d’essere del fascismo è la conservazione del capitalismo. È lapalissiano che il fascismo non sia altro che una forma moderna di controrivoluzione capitalistico-borghese sotto una maschera popolare, com’ebbe a scrivere nel 1943 Arthur Rosenberg in Il fascismo come movimento di massa. E difatti ne Gli uomini pesce si percepisce una tensione, una fuga, fra le storie narrate e gli apparati di cattura come lo Stato, da una parte, nelle forme fascista, repubblicana, post-fascista e, dall’altra, i regimi di accumulazione: neo-capitalista, Stato-piano e neoliberista.

La terza fase della periodizzazione è quella in cui si manifesta il punto più avanzato del conflitto capitale/natura, con distopiche scene à la Ballard, come la crisi idrica nell’apocalittica estate del 2022 e la brutale devastazione delle bombe d’acqua dei mesi a seguire. È la fase del capitalocene ossia del capitalismo che modifica radicalmente il rapporto dell’uomo con la natura – e non il contrario, così come teorizzato nell’antropocene. D’altronde l’essere umano è sulla Terra da più di centomila anni, ma i primi veri cambiamenti geologici su larga scala prodotti dall’umanità possono essere datati solo a partire dall’Ottocento con il capitalismo industriale.

Interessante è la connessione di quanto avvenuto nel Delta del Po con il Meridione d’Italia, in particolare, i piani e gli interventi straordinari per porre guado alla “questione meridionale” sono stati simili ai discorsi pubblici e alle politiche di finanziamento per giustificare gli interventi contenitivi del Po nel suo Delta verso l’Adriatico. “Bonifica, bonifica” nel dopoguerra gridavano i contadini nel polesine e nel ferrarese mentre nelle province meridionali si occupavano le terre: istanze simili, come una sorta di “questione meridionale” del Nordest, annota Wu Ming 1. Così si prosciugarono zone umide plurisecolari create dal Po, si scavarono migliaia di chilometri di canali, si creò un territorio in tutto dipendente da tecnologie – gli impianti di sollevamento delle acque – e perciò fragile. “Trasformazione radicale, non rivoluzione sociale”, per dirla con Karl Polanyi, in modo da sfruttare la terra per fini capitalistici.

“Una terra di miseria abissale, che di primo acchito sembrava lontanissima da ogni modernità, e anche distava pochi chilometri da città quali Ferrara, Ravenna, Venezia […] una sorta di questione meridionale a nordest […]

Nel Delta il quaranta per cento della popolazione era analfabeta. Dodici bambini su cento morivano prima di compiere cinque anni. Bambini e adulti crepavano di stenti, di malaria, di tifo. Nei paesi non c’era l’acqua corrente. Un’esistenza sempre in bilico, circondata da decine di migliaia di ettari di un suolo che non poteva dare frutti, perché sommerso. La presenza delle valli era definita una “malattia della terra” per la quale c’era un’unica cura: prosciugare, “vogliamo la bonifica”, si leggeva sui muri e sui cartelli delle manifestazioni. Suolo da coltivare, “gloria delle terre redente”, dignità del lavoro […] (p. 125).

Un modello, quello della “questione meridionale”, così come mostrato da Luciano Ferrari Bravo e Alessandro Serafini, in Stato e sottosviluppo. Il caso del Mezzogiorno d’Italia (1972) che è servito all’industrializzazione del Nord e al contenimento della pressione sociale nel Sud Italia, tramite emigrazione, prebende, reddito, il tutto mediato dal clientelismo partitico e impiegatizio. La terra – il “sogno di una cosa” – fu la trama delle lotte contadine cui si affiancarono il disboscamento, le bonifiche e la costruzione di dighe, ad esempio, nell’esigua Basilicata ne furono costruite addirittura cinque per contenere i fiumi. Ma non bastò a contenere la pressione sociale: la terra senza mezzi non porta profitto, dunque, l’emigrazione nuovamente giunse in soccorso. Restarono le dighe, le terre disboscate per le colture intensive, quelle teoricamente più profittevoli del granaio d’Italia. E gli anni Sessanta, le lotte dell’operaio-massa a Nord imposero un nuovo intervento straordinario su redditi e salari nel Sud: l’industrializzazione senza senso e la realizzazione delle “cattedrali nel deserto” (Fiat, Italsider, indotti petrolchimici, ecc.). Infine il terremoto dell’Ottanta, da cui l’intervento non solo sulla terra e sul cemento, ma nella mentalità e nei paesi, nei rapporti fra cittadini e i partiti locali, nutrendo le forme del rapporto nocivo ove prosperarono le mafie e le camorre – al riguardo, vale la pena citare la ricerca di Marco De Biase Come si diventa camorrista. La trasformazione di una società meridionale (2011) nell’entroterra post-sismico.

Modificare non significa necessariamente peggiorare: gli esseri umani talvolta apportano modificazioni benefiche all’ambiente come l’istituzione di riserve naturali oppure azioni di zootecnica per preservare una specie. Tuttavia, le azioni riferite alle esigenze del capitalismo o indotte da esso sono quasi sempre negative.

L’umanità è ormai diventata un fattore geologico e da questo non si può tornare indietro. Non si sa se il capitalocene sarà definitivamente un’epoca geologica come quelle precedenti, se le cicatrici che stiamo lasciando sul nostro pianeta saranno eterne. Possiamo però decidere la direzione in cui andare, studiando e intraprendendo un nuovo modello di sviluppo basato sulla convivenza tra uomo e natura come parte di un unico sistema-mondo. D’altronde il capitalismo è un tratto storico e non biologico dell’essere umano, e come tale si può modificare.

In conclusione, una curiosità. Il cameo di Girolamo De Michele da pagina 79 a pagina 83 con un articolo “simulato” uscito nella rubrica “Povero Yorick” di EuroNomade, in cui recensisce il libro di Antonia Nevi, Igor Mortis. Geografie di una caccia all’uomo nel Delta padano, la ricerca sulla fuga di “Igor il russo”.

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