Di SIMONE PIERANNI.

Il fallimento dei test messi a disposizione dalle autorità sanitarie americane, insieme al sospetto che il governo stia nascondendo i reali numeri del contagio di coronavirus negli Usa, ha portato a una rivalutazione di quanto fatto, invece, dal governo cinese.

Di ritorno dalla Cina gli emissari dell’Oms hanno raccontato di ospedali all’avanguardia e macchinari ultramoderni, sostenendo che tutti noi dovremmo ringraziare la Cina per come ha rallentato e limitato il contagio. Bruce Aylward, il leader del team dell’Oms recatosi in Cina, ancora ieri sul New York Times ha sostenuto che «il contrattacco cinese può essere replicato, ma richiederà velocità, denaro, immaginazione e coraggio politico».

Un allenatore italiano, tra i tanti al di là della muraglia, ha spiegato che il governo cinese pensa davvero alla sua popolazione. La Cina ammalia e incanta, si sa. Ma nonostante questo, l’odierna rivalutazione (dopo critiche per i ritardi e la censura delle informazioni) nasce da elementi determinanti insiti nel rapporto tra potere politico e popolazione in Cina.

Si dice che i cinesi abbiano un’anima taoista (quasi sempre sottovalutata in Occidente) e un abito confuciano. L’anima la mostrano spesso nella determinazione a non obbedire, alla legittima aspirazione alla ribellione, alla «revoca del mandato» (la storia cinese è piuttosto ricca di rivolte); il vestito è il riconoscimento di un sistema gerarchico (dalla famiglia allo Stato) in grado di governare non solo gli uomini, ma la natura stessa.

Le due posizioni interagiscono, anziché negarsi, creando sempre qualcosa di nuovo. Il Pcc ha gestito al meglio la crisi del coronavirus perché uno Stato paternalista è in grado di fare breccia su una popolazione pronta a mobilitarsi in massa, a eseguire gli ordini se li ritiene giusti, corretti, volti a un’armonia, a una forma di stabilità economica e sociale. Tanto più in momenti di crisi quando quest’ultima è minacciata.

Il Pcc è l’ago della bilancia sociale in Cina, unica istituzione ad ora in grado di mantenere la stabilità.

La popolazione lo sa e quando bisogna evitare il caos, il luan, segue le direttive del partito, si mobilita. Ma di fronte ad abusi e ingiustizie la popolazione si ribella: in Cina ogni anno ci sono migliaia di «incidenti di massa» (il numero è segreto di Stato), che vanno dalla protesta di qualche petizionista, fino a vere e proprie rivolte cittadine. Ancora una volta siamo di fronte a due elementi, obbedienza e ribellione al potere, che non si annullano ma creano un nuovo campo di confronto, in continua evoluzione.

La presupposta rigidità del sistema politico cinese è un’illusione tutta nostra.

La «creatività» politica con la quale la Cina – per limitarci agli ultimi 50 anni – ha gestito questioni politiche interne (e anche internazionali, si pensi all’invenzione della teoria «un paese due sistemi» o quando nel 2010 il Pcc «consigliò» a Google di spostarsi proprio a Hong Kong) è sempre viva, attiva, cangiante ed è garantita dalla possibilità di concepire danze politiche che a noi appaiono contraddittorie.

In Cina, infatti, particolarmente rilevanti sono le caratteristiche del Pcc, un sofisticato congegno di gestione del potere capace di sfaccettature minuziose, grande capacità di adattamento, sperimentazione e di «visione»: prima dell’arrivo al potere di Xi Jinping – per ricollegarci alla rivalità tra Cina e Usa e al coronavirus – in Cina si era assistito all’innalzamento sociale, politico e amministrativo della figura dello scienziato, sfociato poi in cicli politici gestiti dai «tecnocrati». Hu Jintao, presidente e segretario dal 2002 al 2012 è il fautore dello sviluppo scientifico del socialismo con caratteristiche cinesi (e si trattò di un decennio che prometteva molti più cambiamenti di quelli cui poi abbiamo realmente assistito). L’attuale dirompente motore tecnologico cinese è stato puntellato in quella decade. Xi Jinping l’ha raccolto e l’ha adeguato alle sue esigenze, interne ed esterne.

Negli Usa, dopo l’impeto degli anni ’40 alla ricerca (che avrebbe portato l’America a modellare i sogni consumistici e culturali di quasi tutto il mondo e portare l’«innovazione» tecnologica da internet agli iPhone), all’inizio degli anni ’80 in realtà inizia un lento declino degli investimenti statali nell’ambito scientifico: la spesa pubblica per ricerca e sviluppo scende fino allo 0,6 per cento del Pil nel 2017. Oggi ben nove paesi superano gli Stati Uniti. Entro il 2025 secondo «The Journal of the American Medical Association», la Cina sostituirà gli Usa come leader mondiale nella ricerca e sviluppo nel settore farmaceutico.

Dare importanza al ceto intellettuale, garantendo crescita e possibilità di fare ricerca con fondi e in luoghi ad hoc, ha permesso al partito comunista cinese di sistemare due paletti fondamentali per la sua attuale forza economica: da un lato, riservando un ruolo centrale alla scienza, ha finito per portare i cosiddetti tecnocrati al potere nel primo decennio degli anni Duemila imprimendo un cambio epocale (il passaggio della Cina da economia trainata dalle esportazione a mercato interno florido ed esportazione di innovazione e prodotti di alto valore); dall’altro, ha posto sotto il controllo ideologico del partito un’intera generazione di intellettuali, scienziati, professori universitari. I risultati si vedono oggi.

Si può trarre una lezione da tutto questo? Difficile a dirsi considerando la specificità cinese. C’è piuttosto un punto di vista, uno spiraglio di osservazione oltre alla nostra «razionalità» occidentale, a proposito del concetto di potere, tanto nella sua declinazione repressiva (il controllo sociale in Cina, soprattutto grazie all’immenso sviluppo tecnologico, è pressoché totale) quanto nella sua potenzialità di creare nuove dialettiche, nuove forme di governamentalità, all’interno di sistemi non democratici.

Si tratta di un progredire che potrebbe riguardare – presto o tardi – anche noi.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 5 marzo 2020.

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