Di LUIGI DE MICHELE

Stiamo vivendo con angoscia il dispiegarsi dell’epidemia da Covid 19, tra il diffondersi delle più aggressive varianti e l’impatto drammatico sul sistema economico e sociale.

Abbiamo analizzato in un recente articolo le conseguanze deteriori delle politiche di austerità neoliberaili sulla qualità dei servizi offerti dai sistemi sanitari. La carenze della medicina territoriale, la decimazione dei servizi di prevenzione, il ridimensionamento dei servizi ospedalieri hanno lasciato i sistemi sanitari nazionali nel loro complesso, in Gran Bretagna come in Italia,  incapaci di fronteggiare l’epidemia da covid, con conseguenze gravi che vanno ben oltre la cura della mallattia virale, ma coinvolgono tutti i settori della medicina, inclusa l’oncologia che sta vivendo un ritardo nelle diagnosi e nel trattamento di malattie altrimenti trattabili.

Le stesse politiche di vaccinazione, necessarie e promettenti, trovano nella pratica ostacoli d’ordine politico-economico-strategico, dovute ad un contesto geopolitico disgregato, che rischiano di impedirne l’efficacia se non implementate globalmente e velocemente.

L’interazione fra la pandemia virale ed il tessuto socio economico è stato ampiamente analizzato da Richard Horton, direttore della rivista scientifica “The Lancet”, che in un recente articolo discute le ragioni del dispiegarsi della pandemia a partire dal degradamento antropico degli ecosistemi e dall’impoverimento della biodiversità anche microbica, che trova nella globalizzazione e nella fragilità dell’attuale sistema socio-economico, in particolare nelle diseguaglianze, un facile terreno di diffusione difficile da contenere.

Il concetto di sindemia così introdotto non è nuovo in verità, e trova un emblematico riscontro nella epidemia di HIV che l’Africa subsahariana continua a soffrire gravemente. Le manifestazioni patologiche dell’HIV sono intrinsecamente connesse all’elevata incidenza della tubercolosi ed amplificate dalle condizioni di povertà dei pazienti che ne sono affetti. Infatti il 10% dei pazienti affetti da HIV maturerà una complicanza tubercolare e le migrazioni e la globalizzazione stanno causando un incremento delle diagnosi anche nel Global North Malnutrizione, stress sociale e condizioni di sovraffollamento abitativo facilitano la manifestazione della tubercolosi.

La mia (non breve e assai coinvolgente) esperienza professionale in Tanzania dimostra che l’approccio medico, di fatto, seppure di livello specialistico relativamente buono, non è sufficiente a fronteggiare le pandemie se non vengono adeguatamente affrontate problematiche complesse inerenti lo stato nutrizionale dei pazienti e fattori economici che comprendano il benessere generale della popolazione e la disponibilita di servizi medici, inclusa la prevenzione. Inoltre fattori culturali che descriveremo in queste pagine offrono il destro per un’analisi piu complessa, imposta dal concetto stesso di sindemia. Le considerazioni che svilupperò in queste pagine possono essere utili per fare un parallelo con le gravi conseguenze economiche e sociali che la pandemia da Covid comporta e le azioni politiche necessarie per indurre un miglioramento delle patologie nutrizionali e metaboliche come l’obesità e il diabete che affliggono le società occidentali e, conducendo ad un impoverimento biologico anche del sistema immunitario, tanto pesano nella gravità della prognosi dei pazienti affetti da Covid. Si tratta peraltro di patologie fortemente influenzate, a loro volta, dalle diseguaglianze economiche: il dismetabolismo nutrizionale nelle sue forme estreme è espressione di dinamiche socio-economiche complesse ed ha in sostanza a che fare con la povertà.

Oggetto di questo articolo è quindi l’impiego del concetto di sindemia nell’analisi dei fattori di rischio e delle condizioni socio economiche  alla base di alcune malattie infettive nelle popolazioni Masai nel Nord della Tanzania quale strumento di analisi utile per la comprensione della complessità dei fenomeni pandemici, incluso quello da Covid 19. La messa a punto di questo framework è stata resa possibile dalla mia diretta esperienza professionale quale medico volontario nella citta di Karatu, in un piccolo ospedale privato con intenti caritatevoli chiamato FAME, gestito da un’associazione benefica americana, dove ho trovato accoglienza nel 2015.

La mia attività professionale in Tanzania era eminentemente concentata nella diagnosi e cura delle malattie infettive che affliggono le comunità locali e i masai. La maggior parte del lavoro era concentrato sulla diagnosi di malattie trasmesse sessualmente, incluse la sifilide e la gonorrea.

Sebbene i maschi masai pratichino la circoncisione come rito di passagio nell’adolescenza, pratica peraltro raccomandata dalle agenzie della salute nella riduzione del rischio di trasmissione dell’HIV, notai un’incredibile mole di lavoro nel fronteggiare la diffusione delle malattie infettive pelviche nelle donne, dalle banali vaginiti a complesse infezioni. Chiaramente la carenza di acqua e le poche cure igieniche fanno la loro parte, come il difficile accesso ai costosi quanto inaccessibili tamponi vaginali usa e getta induce le donne, di ripiego, all’uso di garze o tessuti riciclati per proteggersi dai sanguinamenti durante la mestruazione.

L’HIV in Tanzania ha una prevalenza del 4,8 % fra gli adulti e nonostante una campagna estesa di prevenzione e incremento dell’offerta di farmaci retrovirali rimane una delle maggiori cause di mortalità del paese. Le tribù masai ne sono maggiormente colpite. Le donne ne sono poi  sproporzionatamente affette in rapporto agli uomini per via delle diseguaglianze dovute al sesso ed alle violenze sessuali  subite che studi del 2016 dimostrano affliggere  il 30 % delle donne in età fertile.

Fra le malattie trasmesse sessualmente, l’epatite B rimane endemica in virtù dello scarso accesso alla vaccinazione, resa pero’ obbligatoria nel 2002. La sieroprevalenza dell’infezione era al 6% nel 2017 e le conseguenze epatiche rappresentano una grave complicanza dell’infezione. È stato riscontrata una maggiore incidenza e severità delle epatiti in soggetti che assumono in modo cronico alimenti contaminati (v. infra).

Tutto ciò avviene in un contesto socio-saniatario generale problematico. Il 90% della popolazione vive in aree affette da malaria e ogni anno circa 10 milioni di persone contraggono la malaria e 80000, prevalentemente bambini, muoiono in conseguenza della malattia. Personalmente, pur essendo stato un volontario, godevo del privilegio di vivere con altri medici bianchi nelle aree alte del paese non esposte alle inondazioni durante la stagione delle piogge in areate case dotate di reti protettive contro le zanzare e di repellenti.

La tubercolosi è un classico esempio di malattia condizionata dalle condizioni di competetenza del sistema immunitario del paziente. L’HIV è un fattore di rischio così come la malnutrizione che ha giustificazioni nelle disuguaglianze economiche drammaticamnente presenti In Africa. Inoltre la difficoltà di compliance con i prolungati trattamenti antibiotici dei pazienti affetti da TB spesso legate a distanze con le cliniche talora difficili da coprire per mancanza di mezzi e denari, causa lo sviluppo di ceppi di bacilli tubercolari resistenti ai trattamenti.

La prospettiva della sindemia ha dunque costantemente contrassegnato la mia esperienza in Tanzania. Il concetto di sindemia aiuta a comprendere le complesse interazioni fra le malattie infettive ed il tessuto socio-economico e culturale. Ma allora l’approccio clinico non può essere ‘neutro’, così come non è  possible interpretare la storia dell’Africa Subsahariana e le carenze strutturali da cui sono affetti i paesi di quella regione senza prendere in considerazione l’imperialismo britannico e l’impronta nefasta che il potere coloniale ha impresso su questi popoli pacifici. Le stesse guerre tribali infatti sono una conseguenza delle ingerenze del potere coloniale, che per affermarsi ha dato supporto a tribù più vicine al potere a discapito di altre, militarizzandole.

Il potere coloniale non ha solo depauperato il territorio di risorse, umiliato e schiavizzato le tribù, ma ha distrutto i sistemi produttivi locali, trasferendo la produzione di beni come il vestiario o i metalli preziosi, per esempio, in madre patria e lasciando cosi le popolazioni locali prive di competenza per la ripresa una volta conquistata l’Indipendenza. Mandela una volta al potere in Sud Africa lo comprese lasciando il potere economico e produttivo nelle mani delle facoltose aziende gestite dai bianchi e con ciò consacrando la ricrescita della nazione. Mugabe d’altro canto, in Zimbawe, strutturando un regime socialista, espropriò i beni ai proprietari terrieri  bianchi condannando un paese ricco di storia e risorse ad una difficile ripresa economica successivamente piagata dalla corruzione e dalla violenza.

La sola ragione per la quale, per esempio, malattie tropicali come la malaria sono drammaticamente presenti in Tanzania come in tutta l‘Africa subsaharia è data dall’incapacità dei governi di bonificare le zone paludose e fare prevenzione.

La Tanzania – non senza sconvoglimenti interni – raggiunse l’indipendenza nel 1961 quando prese forma uno stato socialista che con la nazionalizzazione dei sistemi di produzione espose la nazione a fenomeni di corruzione ed alla difficoltà di realizzare un equo sviluppo, data la trappola delle dinamiche economiche internazionali. L’inflazione conseguente e la scarsa crescita del prodotto interno imposero successivamente l’adozione di un sistema capitalista che rese la povertà strutturale così come le diseguaglianze.

In questo contesto, i masai rappresentano una delle 159 etnie della Tanzania, delle quali la “tribù” dei bianchi occidentali costituisce una piccola minoranza che grazie al violento passato coloniale detiene ancora un ampio potere di influenza economica e culturale.

Il mio incontro con i valorosi guerrieri Masai è stato inizialmente di diffidenza sopratutto da parte delle anziane del villaggio, cui probabilmente ricordavo i persecutori britannici che nella costruzione dell’aereoporto di Nairobi nel vicino Kenia schiavizzarono i forti della tribù umiliandoli e decimandoli. Stessa sorte pagarono le tribù Mau Mau sul versante keniota del Kilimangiaro, che videro represse nel sangue le insurrezioni contro il potere coloniale. La mia affabilità e professionalità non furono subito sufficienti per instaurare una relazione di fiducia con i miei pazienti. L’essere Italiano “brava gente” non funziona nell’est dell’Africa, essendo i popoli memori delle stragi perpetrate in Etiopia e Libia dalle truppe fasciste – stragi di cui solo noi italiani non siamo a conoscenza.

I Masai sono una tribù orgogliosa, guerrieri dotati di un apparato tribale militare ma in realtà pacifici. Sono gli unici a poter entrare nelle banche con il macete in tasca e coprono spesso ruoli di sorveglianza nelle abitazioni e nelle aziende in virtù della loro affidabilità. Sono un popolo di origine nilotica dedito alla pastorizia ed ora relegati nelle regioni del Ngorongoro  e del Serengetti dove convivono con le bellezze naturalistiche di questi meravigliosi parchi naturali. Non si nutrono di selvaggina e vivono in armonia con la natura ancor oggi. La vita che conducono è estremamente dura, esposti come sono alle austerita della natura; i felini sempre all’agguato delle greggi che pascolano in un territorio da condividere con la fauna locale in un ambiente minacciato dalla siccità e dai cambiamenti climatici. Il colore sgargiante e prevalentemente rosso dei loro vestiti è un monito per i leoni all’agguato. Un tempo i masai erano noti per la loro longevità e buona salute. Le sfide che dovettero superare negli ultimi decenni, in particolare la riduzione dei pascoli per l’aridità dei terreni, nonché la modernizzazione in genere, l’educazione dei figli per esempio, hanno cambiato radicalmente la dieta inizialmente limitata alla carne, latte, bacche, poi degradata con l’introduzione di zuccheri ed amidi eminentemente a base di mais.

Non è sorprendente che i drammatici cambiamenti delle abitudini alimentari dovuti, in particolare, all’uso di carboidrati raffinati, accanto ad una crescita della longevità, provochino un drammatico incremento nei masai – come dei tanzaniani in genere – di malattie cardiovascolari, le quali a loro volta incidono sulla morbosità[1] che rimane statisticamente a tutt’oggi eminentemente infettivologica.

L’ugali, una sorta di polenta, rappresenta il pasto di base per molti in Tanzania, ma è povera di proteine e vitamine del gruppo B; in più, date le alte temperature africane e le difficolta di conservazione, le farine di mais, ma anche di altri semi e noci, sono esposte alle infezioni fungine (prevalentemente Aspergillus sez. Flavi) e alla contaminazione da parte delle aflatossine da questi prodotte. Le aflatossine sono un gruppo di metaboliti secondari tossici, prodotti appunto da queste specie fungine che una volta ingerite vengono attivate dal nostro sistema di detossificazione (i citocromi del fegato) e si legano al DNA degli epatociti, causando mutazioni puntiformi. Assunte in modo cronico (dose giornaliera <5 ppb[2]/k.p.c) portano ad un aumento dell’insorgenza di neoplasie epatiche ed in generale ad una diffusa immunodepressione; qualora assunte in modo acuto (>20ppb/die/k.p.c.), possono portare ad eventi fatali come la cirrosi epatica.

Durante la mia attivita clinica rimasi sorpreso dalla diagnosi clinica ed ecografica, a pochi mesi di distanza uno dall’altra, di due casi di pazienti masai affetti da epatocarcinoma. Chiesi lumi al professore Massimo Reverberi dell’Università di Roma la Sapienza – biologo esperto internazionale di aflatossine – che acconsentì a testare 3 campioni di farina di mais, raccolti da contenitori aperti nelle capanne di famiglie masai, che dimostrarono consistentemente altissimi livelli di aflatossina (>1ppm[3]).

La nostra esperienza sul campo rappresenta una testimonianza diretta del concetto di sindemia e dell’interazione fra condizioni di svantaggio economico sociale ed il manifestarsi delle malattie infettive in particolare. Un ulteriore aspetto, poco discusso negli articoli scientifici riguardanti il concetto di sindemia nelle malattie infettive, è l’aspetto culturale, in particolare l’influenza del pensiero religioso e delle chiese nei comportamenti di prevenzione come la loro contrarietà ideologica circa l’uso del preservativo ed altre misure di prevenzione. Si consideri il seguente esempio. Le popolazioni masai sono essenzialmente poligamiche, pratica che, al di la delle ragioni antropologiche, non potremmo comprendere con la nostra cultura senza conoscere le loro condizioni geografiche e ambientali. Di fatto la vita nei villaggi, la mancanza di acqua, la costante minaccia di aggressioni da parte dei felini impone una cooperazione collettiva cui le mogli devono sottostare.  Ebbene, nel 1990 Papa Woytila in visita pastorale a Mwanza, una vitale cittadina tanzaniana affacciata sul lago Vittoria, condannava le pratiche poligamiche come causa del dispiegarsi delle malattie trasmesse sessualmente e sconsigliava l’uso del preservativo considerato un peccato in ogni circostanza. Posizioni peraltro contrastanti con le aperture della chiesa cattolica circa l’uso del condom degli anni precedenti.

L’imposizione dei nostri modelli ideologi economici e culturali, come la storia del colonialismo dimostra, hanno rappresentato nella storia dell’Africa decolonizzata, nonostante gli avanzamenti delle conoscenze mediche, un ostacolo al conseguimento di un’equa fruizione da parte delle popolazioni autoctone dei servizi sanitari di fatto ancora carenti ed inadeguati.

Ma sebbene le sfide mediche rappresentino ancora un problema concreto, l’Africa nel suo complesso sta vivendo un periodo di enorme sviluppo economico grazie alle risorse e alle volonta politiche di migliorare i commerci limitando le tasse doganali fra le nazioni, come i recenti accordi dell’ Africa Continental Free Trade Agreement (AfCFTA) testimoniano. Lo sviluppo economico però segue modelli liberisti: la tassazione è quindi bassa, le risorse sono esposte al dominio delle multinazionali, col risultato di creare enormi diseguaglianze e sottofinanziare i public goods, sanità inclusa.

Venendo al momento presente e alla mia esperienza attuale di medico in un ospedale londinese (il Guy’s Hospital) osservo come la pandemia da coronarovirus abbia slatentizzato le fragilità della popolazione occidentale minacciata in particolare da un incremento delle malattie metaboliche che sono un fattore di rischio per gli effetti avversi cui espongono, cosi come lo sono le diseguaglianze economiche. Chiare evidenze, facilmente accessibili attraverso i siti della Sanità del Governo inglese, dimostrano che la condizione economica dell’ammalato e, più in generale, le diseguaglianze di cui può essere vittima hanno rilevanza sull’aspettativa e sulla qualità della sua vita. Le malattie infettive non sono da meno, soprattutto per i fattori che giocano nelle correlazioni fra epidemie. La conoscenza degli aspetti sindemici è dunque necessaria per un’azione di concerto indispensabile per fronteggiare il dispiegarsi delle malattie stesse. Infatti un approccio strutturato di lotta alle diseguaglianze e di rafforzamento del sistema sanitario pubblico[4] – in particolare, dei servizi di prevenzione – è la precondizione necessaria per un’azione medica efficace di contrasto alle pandemie.


[1] Cioè sul rapporto numero di ammalati/popolazione.

[2] ppb= parti per bilione= µg/Kg

[3] ppm= parti per milione= mg/Kg

[4] A questo proposito e proprio in riferimento alla questione pandemica andrebbe altresì attentamente valutata l’insostenibilità ecologica dei servizi sanitari nel modo in cui sono attualmente pensati e organizzati.

Foto di PIRO4D da Pixabay

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