di CARLO CROSATO.
Prosegue la meritoria operazione intrapresa da ombre corte, con la pubblicazione del corso che, tra il 1985 e il 1986, Gilles Deleuze dedica alla lezione filosofico-politica dell’amico Michel Foucault, scomparso da un paio di anni: il volume Il potere. Corso su Michel Foucault (1985-1986)/2 (pp. 388, € 29) è il secondo dei tre previsti, successivo a quello sul sapere e precedente a quello sulla soggettivazione. Sapere, potere e soggettivazione sono i tre assi attorno ai quali, secondo l’interpretazione già offerta da Deleuze in un noto studio del medesimo anno, si può far ruotare il pensiero foucaultiano; assi la cui trattazione distinta è possibile solo passando per un’astrazione che ne faciliti l’indagine, restituendo una sorta di “finzione metafisica” (l’espressione è di Fréderic Gros) di elementi che nella riflessione di Foucault non si trovano mai distinti e autonomi.
Le lezioni qui raccolte rappresentano un oggetto di grande interesse per chi intenda approfondire, attraverso l’interpretazione di un filosofo profondo e acuto come Deleuze, la conoscenza delle fondamentali novità introdotte da Foucault nello studio del potere; ma, a ben vedere, anche lo studioso di Deleuze può individuare in esse materiale assai prezioso, nel quale si annida l’origine dell’elaborazione di concetti che diventeranno poi categorie centrali della filosofia dello stesso Deleuze.
Quello foucaultiano è un pensiero che, pur articolandosi su snodi variegati, rimane percorso da anticipazioni, richiami, riprese, revisioni e continui scivolamenti; ciò che rende intimamente compatta una pur ricca e diversificata riflessione. Così capita che, pur nel tentativo di osservare ciascuno dei tre assi nella sua astrazione, i rimandi alle altre due dimensioni fondamentali del pensiero di Foucault si facciano numerosi e inevitabili. Introducendo l’indagine sulla dimensione del potere, Deleuze non può evitare di ricordare come a essa lo stesso Foucault giunga spinto dall’esigenza sorta già nelle sue riflessioni intorno al sapere, culminate nel 1969 con L’archeologia del sapere, ma apertesi nel 1966 con il controverso Le parole e le cose, luogo in cui viene depositata la tesi della morte dell’uomo. Risale proprio alla pubblicazione di Le parole e le cose uno dei primissimi confronti con Foucault di Deleuze: l’uomo non è che una forma recente, si legge, la cui forgiatura risale all’abbandono del pensiero che si dispiega verso l’infinito producendo la forma “Dio”, e alla ripiegatura del pensiero intorno al problema del finito. Quello di “piega” è un concetto deleuziano la cui origine riscopriamo risalire proprio alle lezioni su Foucault. Entro questa piega, l’uomo si presenta come forma recente, di cui nulla impedisce di pensare un prossimo superamento.
L’uomo, sostiene Foucault, è una forma di sapere, un prodotto: questo significa rompere con l’intero pensiero umanista moderno e, anzi, collocarsi a un margine dal quale solo è possibile osservare quel pensiero, criticarne la movenza, prima di tutto quella mediante cui l’uomo è descritto come produttore, costituente e, in altri termini, sovrano libero assolutamente autonomo.
Minacciata alla propria base la presunta autonomia dell’uomo e la pura sovranità del soggetto moderno, essa si palesa in quanto semplice forma attribuita a un oggetto di sapere; una forma, quella dell’uomo, non costituente del potere – come invece predicato dalle teorie politiche moderne – ma costituita dal potere. Un potere i cui lineamenti non si tendono più tra il polo di una soggettività costituente e quello di un potere singolare costituito. L’insoddisfazione nei confronti di un concetto molare, unitario e monolitico di potere, di un concetto che non spiega alcunché e che anzi è bisognoso di spiegazione, la critica ai postulati tradizionali del potere che Deleuze enumera in sei (proprietà, localizzazione, subordinazione, essenza o attributo, modalità, legalità): sono questi i passi che conducono Foucault alla svolta microfisica che riscopre nelle relazioni di potere la sorgente dell’accumulazione dei saperi, dei discorsi, dei piaceri e delle pratiche. Foucault propone un’indagine analitica delle relazioni di potere come intreccio di forze, la cui natura, intenzionale – cioè orientata – ma non soggettiva, viene qualificata da Deleuze come un’eredità non solo di Nietzsche ma anche del sociologo Tarde: sono tali forze – sempre al plurale perché originate sempre all’interno di un gioco di raffronti, di affezioni, reazioni e resistenza – a restituire, come delle specie di peripezie della storia, quegli elementi formali altrimenti creduti originari, come il soggetto o lo Stato.
La riflessione intorno al potere era necessitata già nel primo volume, quello inerente al sapere, sottoforma di domanda intorno all’origine informale di quei ruoli, di quelle pratiche, di quei dispositivi e di quelle forme che il sapere integra e differenzia. Le lezioni intorno al potere, d’altra parte, rilanciano la ricerca su una serie di problemi che troveranno la propria soddisfazione solo nel volume sulla soggettivazione. Si tratta di una serie di questioni che Deleuze individua con una sorprendente lucidità, non potendo attingere alle trascrizioni dei corsi tenuti dall’amico presso il Collège de France durante i quali emerge non solo il tema della governamentalità, ma anche quello del soggetto nel confronto con il pensiero cinico. In un potere qualificato come una trama di forze, di affezioni e reazioni, il soggetto, lungi dall’essere costituente, si riscopre funzione variabile la cui condotta è sempre inevitabilmente materia di conduzione: è in un simile scenario, che imbriglia il soggetto senza tuttavia esaurirne completamente la vitalità, che Deleuze riscopre la possibilità consegnataci da Foucault di immaginare pratiche critiche di resistenza e soggettivazione, lotte trasversali ma concrete, in grado di assumere la realtà più prossima come proprio terreno di applicazione e di irrompere nelle geometrie che ci anticipano attraverso un’azione incoerente in grado di incidere sugli assetti microfisici ma, in maniera carsica, anche sulle istanze di potere più imponenti. Una capacità immaginativa la cui lezione in Italia è stata fatta propria dal pensiero post-operaista, ma la cui eredità rimane inascoltata; proprio oggi, che invece in Europa pare esservene una grande urgenza.