Di GIROLAMO DE MICHELE. 

«Come potete continuare a parlare con tanta tranquillità a testa in giù?», chiese Alice, mentre lo tirava per i piedi, e lo metteva come un fagotto sulla sponda. Il Cavaliere parve sorpreso alla domanda: «Che importa dove il corpo si trovi? – egli disse. – Il mio cervello continua a lavorare lo stesso. Anzi, più mi trovo a testa in giù e più continuo a inventare cose nuove» (Lewis Carroll, Attraverso lo specchio, cap. VIII)

1. Sappiamo tutto del major Tom?

Come è noto, la saga del major Tom comincia con Space Oddity: il racconto di un astronauta che sfugge alle direttive del Ground Control, e si perde nello spazio. Una storia piuttosto triste, a quanto pare. Dieci anni dopo, in Ashes to ashes, Bowie ci dice, a quanto pare, che il maggiore Tom era un drogato e un depresso. Ora sappiamo così è davvero successo al maggiore Tom, ha commentato più di qualcuno. In effetti, la rivelazione sembra giungere al momento giusto: le speranze e le pratiche del lungo Sessantotto (del quale psichedelia e musica sono state componenti essenziali) cominciano a tramontare, il pentitismo e il desiderio di essere normali diventano valori positivi. In Il diavolo in corpo di Bellocchio c’è un personaggio, un pentito, che scopre “l’orgoglio della mediocrità”, e lo esprime con una poesia – meglio, una filastrocca:

pranzi della domenica sulla costa tirrenica / cresime, comunioni: ciascuno ha le sue opinioni / ciascuno ha pregi e difetti / camere a quattro letti per tutti i parenti riuniti / i piatti sono finiti / né minimo né massimo: assoluto normalissimo / vie esistenze speranze: basta con le mattanze / abbracciare i passanti, difendere le gestanti / le ruote con i raggi: credere nei sondaggi, / in ciò che dice la gente, / in chi non conta niente.

Il desiderio di una vita mediocre e insignificante: o meglio, significante, ma il cui significato è determinato dall’esterno, da ciò che è stabilito essere medio e conveniente. È curioso notare che anche nell’origine di Space Oddity c’è una vita mediocre e insignificante. Questa canzone nasce sulla scorta del primo tentativo di tradurre in inglese Comme d’habitude di Claude François: la narrazione di un amore finito che rende la vita insensata nei suoi reiterati gesti quotidiani che vengono ripetuti “comme d’habitude“. Anche in Ashes to ashes c’è una terzina che sembra elogiare la mediocrità:

I never done good things
I never done bad things
I never did anything out of the blue.

Bowie ci spiega che Tom è un drogato, significante e significato si ricongiungono senza dubbi o residui, e le isterie del passato vengono finalmente dimenticate. Però, però… detta così, sembra vagamente marginalista: il valore dell’immagine viene determinato dalla sua apparizione marginale, cioè finale, e questa retroagisce sui processi di produzione dell’immagine antecedenti. C’è stato un tempo in cui gli economisti credevano di sapere il perché una merce costa un tot così: poi è arrivata la crisi del ’29 a svegliarli. E Bowie non ha affatto smesso di parlare del maggiore Tom: Ashes to ashes non è affatto l’ultima parola sul personaggio. Soprattutto: di chi è, questa parola? Perché nel video non c’è Bowie: ci sono tre figure che si alternano, nessuna delle quali è riconducibile ipso facto al cantante. Per dirla con i linguisti: soggetto dell’enunciato e soggetto di enunciazione non coincidono, così come il Dante che apre bocca per recitare la Commedia non coincide col Dante che dialoga con Francesca da Rimini. Certo, con Dante si potrebbe dire che alla fin fine «il personaggio che dice “io” si riconosce come poeta, e la curva della vicenda consiste nell’evolvere dell’osservazione in rappresentazione»1. Il che porta alla straordinaria conclusione che «tutta la poesia è poesia d’amore»2. Ma con Bowie, le cose sembrano più complicate. Vediamo intanto il video.

C’è un clown moralista, accompagnato da un coro ammonitore; c’è il maggiore Tom, che parla attraverso un messaggio nel quale ci dice (è un segno che ci consentirà di individuarlo nella sua ultima apparizione): «I’m happy, hope you’re happy too». E c’è un terzo personaggio, rinchiuso in quella che sembra una camera di contenzione come si usava nei manicomi. Con un tipico gioco di specchi bowieano, il delirio del recluso e il messaggio del maggiore Tom si rispecchiano l’uno nell’altro: sono, di fatto, due diversi alter ego di Bowie, nessuno dei quali è Bowie stesso. Quanto al clown, che afferma «We know Major Tom’s a junkie»: la soggettività di questo enunciato è, come visto, quella di un soggetto che desidera arrestare i propri desideri sull’orizzonte di una mediocrità senza passioni. E il gioco di parole insito nella frase «I never did anything out of the blue», ricordando che Tom aveva affermato «Planet Earth is blue», ci dice quale distanza corra fra lui – che non ha mai fatto “nulla di extra-terrestre” – e una delle identità di Bowie. In ogni caso, quella del clown è un’illazione, non un’asserzione provata: manca la prova certa, la pistola fumante: «One flash of light / but no smoking pistol».
Soggetto dell’enunciato e soggetto dell’enunciazione non coincidono: non si dà quella sorta di «ecolalia riduttrice» nella quale il soggetto dell’enunciato diventa il garante del soggetto dell’enunciazione – quella edipizzazione linguistica, per dirla con Guattari3, per la quale ogni enunciazione, accomodandosi sul soggetto dell’enunciato, perde la sua polivocità. Qui bisognerebbe fare una lunga digressione, per mostrare attraverso quale concatenazione questi temi sono passati, ogni volta modificandosi, da Gianfranco Contini a Guattari e Deleuze via Pasolini. Ma, dovendola far breve, sarà opportuno ricordare che l’affermazione che l’unità del soggetto dedotta dalla successione cronologica dei suoi stati è un sofisma fondato su una «presunzione puramente pragmatica» era già in Contini4, prima ancora che in Guattari.

2. Cosa accadde davvero al maggiore Tom?

Siamo andato troppo avanti: ancora non abbiamo detto cosa accade davvero al maggiore Tom. Eppure è lo stesso Bowie a mostrarcelo, nella prima versione di Space Oddity:

Questa clip ci mostra almeno due sentieri. Il primo, evidente nel testo della canzone, è un dialogo – dunque, di nuovo, un raddoppiamento, una biforcazione del soggetto dell’enunciato – fra un’istanza di controllo e una di fuga, ambedue interpretate da Bowie. Bowie-Tom si distacca dal territorio di una soggettività normalizzata, “sotto controllo”, e fugge – si deterritorializza – seguendo la linea del proprio desiderio. Quello che era implicito, ma non evidente, nel testo, lo diventa nella narrazione filmica: Space Oddity è una sorta di breve 2001 Odissea nello spazio rovesciata, dove non è il computer HAL 9000 a spingere nel vuoto l’astronauta, ma l’astronauta stesso a fuggire.
Ma cos’è 2001 Odissea nello spazio? È probabile che l’intero cinema sia, anche, la rappresentazione del cervello nello schermo. È certo che l’intero cinema di Stanley Kubrick sia, soprattutto, «il cervello messo in scena»; e che il tema del viaggio iniziatico sia così importante in Kubrick, perché «ogni viaggio nel mondo è un’esplorazione del cervello». L’identità di mondo e cervello non significa però che essi formino un tutt’uno: «piuttosto, una membrana che mette in contatto un interno e un esterno. Li rende presenti l’uno all’altro, li confronta o li mette a confronto». E, come sempre in Kubrick, li interseca con la morte: «il mondo-cervello è del tutto inseparabile dalle forze di morte che forano la membrana nei due sensi»5.
Come David Bowman, che nel viaggio all’interno del monolite nero ripercorre la storia dell’umanità intera, anche Tom compie un viaggio all’interno del proprio desiderio: e vorrà forse dire qualcosa il fatto che il personaggio femminile sul quale riterritorializza il proprio desiderio sia interpretato dalla reale compagna, all’epoca, dello stesso Bowie, Hermione Farthingale. E suscitare una qualche retrospettiva sorpresa il felice accoppiamento di una Hermione e di un Tom, sapendo oggi che Tom Riddle è il nome umano di Voi-sapete-chi.

Linguaggio e soggettività si corrispondono. Il nostro “io” si afferma attraverso la prima persona singolare, nello stesso momento in cui si produce come conseguimento di qualcosa che è pre-individuale prima ancora che pre-linguistico: tutti noi, nella prima infanzia, abbiamo fatto questa esperienza del farsi del sé. Questo esempio legittima l’affermazione di una prospettiva, tanto dell’ordine del linguaggio quando dell’ordine della soggettivazione, nella quale non ci sono due soggetti, quello dell’enunciato e quello dell’enunciazione, già dati e/o speculari, perché non c’è un soggetto a priori, né un soggetto trascendente, ma un processo continuo di produzione di soggettività – un continuo divenire quel che si è scabro, conflittuale, dissipativo, nel quale si concatenano, si congiungono o si disconnettono «gl’indizi, le tracce residue, le fughe trasversali di una concatenazione collettiva di enunciazione»6 che costituisce un caotico movimento tanto della lingua quanto della soggettività. Con Pasolini, «la realtà è un linguaggio, e anche nella vita reale, come dialogo pragmatico tra noi e le cose (comprendenti il nostro corpo), mai, nulla è rigidamente monosemico: al contrario quasi tutto è enigmatico perché potenzialmente polisemico». Ecco perché la filastrocca recitata al termine di Ashes to ashes: “My mother said / to get things done / You’d better not mess / with Major Tom”, sulla falsariga di una filastrocca popolare britannica – utilizzata l’anno precedente da Fabrizio De André in Sally: “mia madre diceva non devi giocare con gli zingari del bosco” – può assumere un significato diverso, senza mutare significante, a seconda di quale dei tre personaggi della ballata la reciti. A seconda, cioè, di quale soggettività si assuma il compito di produrre la relazione fra significato e significante.

La polisemia potenziale di ogni enunciato, che Bowie utilizza come moltiplicazione di soggettività, ci conduce a un’altra acquisizione: quel curioso paradosso, denominato da Deleuze “paradosso di Robinson Crusoe”, che rende complicato il rapporto fra significante e significato. Un paradosso originato, secondo Lévi-Strauss, dal fatto che «l’Universo ha avuto un significato molto prima che si sapesse cosa significava»: «Il fatto  che le due categorie del significante e del significato si sono costituite simultaneamente e solidalmente, come due blocchi complementari, ma la conoscenza, e cioè il processo intellettuale che permette di identificare, gli uni rispetto agli altri, taluni aspetti del significante e taluni aspetti del significato, le parti che presentano tra loro i rapporti più soddisfacenti di convenienza reciproca – si è messa in cammino molto lentamente». Se pensate ai miti greci, vi apparirà chiaro che le corrispondenze fra un significante integrale – un pellegrino in viaggio verso Tebe, dopo aver sconfitto in una gara di indovinelli una creatura mostruosa, e aver avuto una lite con un passante conclusasi con la morte di quest’ultimo, sposa una vedova ignorando che si tratta di sua madre – e il suo significato ultimo è un processo che dopo 2.500 anni non si è ancora concluso: «l’uomo dispone fin dalla sua origine di una integralità di significante, che lo pone in grande imbarazzo quando deve assegnarlo a un significato, dato come tale senza essere, per questo, conosciuto». Là dove ci piacerebbe credere in una monolitica e solidale relazione fra significato e significante, garantita da un soggetto trascendente e che si fa garante di una soggettività data sin dall’origine – come fra il poeta che ripercorre le vie dell’amore e il dio d’amore che garantisce l’approdo felice della sua poesia – scopiamo invece un’antinomia, la cui soluzione è sempre provvisoria e pragmatica. A questa antinomia corrisponde una doppia serie: i significanti fluttuanti, originati dall’eccesso di significante, «che costituiscono la servitù di ogni pensiero compiuto (ma anche la garanzia di ogni arte, di ogni poesia, di ogni invenzione mitica o estetica)»7; e i significati fluttuati, originati da un difetto di significante rispetto a ciò che ancora dev’essere conosciuto: parole o entità linguistiche come truc, ma­chine, robo, coso, bazza. Da cui un doppio errore, o una doppia impossibilità: quello del totalitarismo, che cerca di instaurare un significante dispotico che vorrebbe istituire la «totalizzazione del significabile e del conosciuto al ritmo della totalità sociale esistente in quel momento»; ma anche quello della tecnocrazia, «che pretende promuovere o imporre assetti parziali dei rapporti sociali al ritmo delle acquisizioni tecniche»8.
Epperò contro questa duplice impossibilità – la solidale alleanza fra il despota e il tecnocrate – si muove da sempre la storia non della libertà, ma delle lotte per la libertà. Perché questo despota e questo tecnocrate non sono solo esterni, ma sono anche e soprattutto dentro di noi: la costituzione di ogni soggettività, l’esito di ogni processo di soggettivazione – parola ambigua, che contiene al suo interno tanto “soggetto” quanto “assoggettato” – è il frutto incessante di una lotta fra poteri e contropoteri. Dei quali aveva già detto l’essenziale Fabrizio De André, cantando su quanta strada bisogna fare “per diventare così coglioni da non riuscire più a capire che non ci sono poteri buoni“.

3. Produrre l’inconscio

Ma cosa ne è di quell’amore che al tempo stesso guidava i passi del poeta e ne costituiva la stella polare, una volta dissipata l’illusione di un soggetto fatto e finito e di una soggettività trascendente? Rimane, come potenza di vivere, come pulsione o, con Spinoza, conatus: come desiderio. Desiderio  produttivo e costitutivo, che costruisce il mondo incessantemente, e attraverso il quale si costruisce la nostra sempre parziale identità come corrispondenza precaria fra un reale che esiste nella misura in cui viene percepito da un soggetto supposto esistente, e un soggetto percipiente che esiste in quanto posto all’interno di un mondo supposto come reale. Come ci ha detto Adone Brandalise nella sua lectio magistralis [visibile qui], lo scopo di una vita è di non cedere mai davanti al desiderio, di esserne sempre all’altezza: o, con altre parole, di non essere mai indegni di ciò che ci accade. Ebbene, ciascuna delle persone, delle soggettività create da Bowie è una potenziale linea di fuga del desiderio che si desoggettivizza per costituire nuove soggettività. Sarebbe un errore «credere che una linea di fuga consista nel fuggire la vita; la fuga nell’immaginario o nell’arte. Fuggire, al contrario, significa produrre del reale, creare vita, trovare un’arma»9. Significa non mettersi all’ascolto dell’inconscio, né arrestare su di esso il proprio desiderio, ma produrlo, l’inconscio come linea di fuga: come alterità, divenire altro.

Il clown ammonitore di Ashes to ashes sembra oggi risuonare nel «sermone della psicoanalisi alla moda che, afflitto dall’eclissi della figura paterna, reclama regole, limiti e autorità. Talvolta a nome di un perbenismo anticapitalistico, talaltra del perbenismo punto e basta»; laddove altri rimproverano al pensiero scaturito dal Sessantotto, del quale Deleuze e Guattari costituiscono le vette più alte, «di aver aperto la strada, con il suo individualismo narcisistico e la sua insofferenza nei confronti di ogni regola, nonché con il suo radicale antistatalismo, alla deregulation neoliberista e al trionfo della competitività»10. Davvero il pensiero del desidero e del diritto alla metamorfosi e alla desoggettivazione ha ignorato il negativo, la depressione, l’angoscia, il risorgere continuo del fascismo? Non stiamo dimenticando qualcosa?
Il fatto è che la filosofia del desiderio non è affatto un’esaltazione incosciente della marginalità: le linee di fuga hanno i loro pericoli, le loro fratture e incrinature, i loro punti di arresto, i loro buchi neri. Così come il desiderio ha le proprie catture e imprigionamenti. Alla domanda «come può un desiderio desiderare la propria repressione?», Deleuze risponde: «quei poteri da cui il desiderio viene annientato o assoggettato, fanno già parte dei concatenamenti stessi del desiderio»11. È come chiedersi come può un corpo sano ammalarsi: perché la malattia è insita nel concetto stesso di vita, essendo la vita ciò che resiste alla morte.
David Bowie non è stato immune dal precipitare nelle droghe e nel fascismo: due forme analoghe, per certi versi coincidenti, di cristallizzazione della soggettività nel buco nero della dipendenza dal potere. La dipendenza da una sostanza, così come la dipendenza dal potere, consistono nella paradossale coincidenza fra due dispositivi di controllo: «una solitudine senza rimedio; e una assoluta incapacità di accettare qualsiasi forma, quale che sia, di solitudine, un richiamo costante a tutte le modalità di dipendenza, a tutte le ancore»12. Nel buco nero della dipendenza precipita quel potenziale di liberazione che le droghe lasciano intravedere, senza avere la capacità di costruire un piano di libertà: la sfida, sarebbe allora vivere l’ebrezza della fuga e della liberazione promessa dalle droghe senza fare uso di droghe. Così come sarebbe una sfida vivere le proprie linee di fuga senza irrigidirle mai su un oggetto: il potere di innamorarsi sempre senza mai innamorarsi del potere, che costituisce il desiderio segreto di microfascismo che ciascuno di noi porta dentro.

4. Il caos mi sta uccidendo

Nel 1995 David Bowie ritorna a dialogare col major Tom, in Hallo Spaceboy. La nuova canzone non nasce per caso: è finalizzata a una straordinaria tournée, il Dissonance Tour, nella quale Bowie incontra i Nine Inch Nail di Trent Reznor. Il testo, nella sua brevità, è la voce di una mente confusa che si rivolge al viaggiatore spaziale in un dialogo che è al tempo stesso una confessione della propria frammentazione:

(Ciao) Ragazzo spaziale, sei addormentato ora
La tua sagoma è così stazionaria
Sei stato liberato ma il tuo custode chiama
E io voglio essere libero
Tu non vuoi essere libero?
Ti piacciono le ragazze o i ragazzi?
C’è confusione al giorno d’oggi
Ma la polvere lunare ti coprirà
Ti coprirà
Questo caos mi sta uccidendo

 Ma è nella sua esecuzione – che nella sequenza del concerto precede Hurt, la straordinaria confessione di un uomo morente che dai Nine Inch Nail è passata a Bowie, Criss Cornell, e soprattutto Johnny Cash, che l’ha cantata in uno struggente videotestamento [qui] – che emerge la carica di drammaticità. Qui è in questione non solo la forma musicale del discorso, ma ciò che quel discorso fa avendo quella forma:

Questo caos mi sta uccidendo: risuona in questo grido la disperazione della figura, dell’alter ego del major Tom, che viaggiava non fuori di sé, ma dentro di sé. Che forava la membrana fra l’esterno e l’interno, accompagnato dall’ombra della morte e della depressione. In un certo senso, Trent Reznor è una delle linee di fuga dello stesso Bowie, che qui ci mostra la vibrazione continua del desiderio dal quale le linee di fuga si dipartono: e la mantiene aperta alla fuga, ma anche sull’orlo del buco nero che cattura la vita senza restituirla (c’è un video della versione arrangiata dai Pet Shop Boys [qui] che è, non casualmente, un ininterrotto cut up dello schermo/cervello).

Bowie è riuscito a evitare un rischio: che la parola finale, cioè Blackstar, riproponesse quel marginalismo ermeneutico che fa retroagire il prodotto finale sulle produzioni precedenti.
“Ogni uomo ha una stella nera / una stella nera sulle sue spalle / e quando uno uomo vede la sua stella nera / sa che il suo tempo, il suo tempo è giunto”: sono le parole di una ballata di Elvis Presley dal titolo Black Star. È il primo strato di significato: un riferimento tutt’altro che velato alla depressione e alla morte. Ma al tempo stesso, una Black Star è un oggetto astronomico simile, ma non coincidente e anzi alternativo, al buco nero. Blackstar è, a tutti gli effetti, un significante fluttuante, al di sotto del quale i diversi significati non smettono di fluttuare. Vediamo la prima parte della clip:

Riconosciamo il corpo del major Tom: e lo Smile appuntato ci conferma che è stato felice. Il video è, per certi versi, il rito funebre di quello che ormai possiamo chiamare un vecchio amico. Ma di nuovo, Bowie opera uno sdoppiamento fra il sé morente e il suo alter ego:

Qualcosa accadde il giorno in cui lui morì
Lo spirito si alzò di un metro e si fece da parte
Qualcun altro ha preso il suo posto e ha gridato con coraggio:
(Sono una Stella Nera, sono una Stella Nera)

Chi è che muore, e chi è che urla: I’m a Blackstar? E chi dialoga con la Morte – terza figura del testo, probabile sacerdotessa del rito mostrato nel video? Ciò che dice la Morte è piuttosto chiaro:

Non posso spiegare il perché
Basta che tu venga con me
Sono uno che ti riporta a casa
prendi il tuo passaporto e le tue scarpe
e i tuoi sedativi, buu!
Sei un fuoco di paglia
Io sono il Grande Io Sono.

Ambiguo, o meglio polisemico, è ciò che gli risponde il suo interlocutore – lo stesso Bowie, ovvero Tom, ovvero il divenire-Tom del Bowie morente:

Sono una Stella Nera, sono sulle banconote, sono pronto
Vedo il dolore in modo così ampio e chiaro
Voglio aquile nei miei sogni ad occhi aperti, diamanti nei miei occhi.

Perché sciogliere questa pluralità? Bowie stesso ha voluto, fino all’ultimo, moltiplicare le soggettività: chi siamo noi per imprigionarlo nel ghetto significante?
Chiediamoci piuttosto quale insegnamento per una vita non indegna di quello che accade possiamo trarre da questa parabola. E qui vale citare per intero un fulminante commento di Deleuze a Foucault, dove si parla di greci, ma sembra si stia parlando delle mutevoli incarnazioni di Bowie:

«La lotta per una soggettività moderna passa per la resistenza alle due forme attuali di assoggettamento, l’una consistente nel determinarci come individui in base alle esigenze del potere, l’altra consistente nell’attribuire a ogni individuo un’identità fatta e finita, determinata una volta per tutte. La lotta per la soggettività si presenta allora come diritto alla differenza e diritto alla variazione, alla metamorfosi»13.

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  1. G. Contini, Varianti e altra linguistica, Einaudi, 1970, p. 336 

  2. Ibidem, p. 361 

  3. F. Guattari, “Per una micropoltica del desiderio”, in Rivoluzione molecolare, PGreco Edizioni, 2017, p. 163 

  4. Op. cit., p. VII 

  5. G. Deleuze, L’image-temps. Cinéma 2, Minuit, 1985, pp. 267-268 

  6. F. Guattari, cit., p.163 

  7. C. Lévi-Strauss, Introduzione, in M. Mauss, Teoria generale della magia, Einaudi, 1965, pp. l-lii 

  8. G. Deleuze, Logica del senso, Feltrinelli, 1969, pp.50-51 

  9. G. Deleuze, Conversazioni, Verona, Ombre Corte, 1977, p. 54 

  10. M. Bascetta, La leggenda nera del Sessantotto, qui 

  11. G. Deleuze, Conversazioni, cit., p.140 

  12. F. Guattari, Le droghe significanti, in Millepiani n. 13, 1998, p. 13 

  13. G. Deleuze, Foucault, Minuit, 1986, p.113