di MARCO ASSENNATO.

Giocare il gioco dell’Italian Theory? Note sullo stato della filosofia italiana – 4

A fine gennaio si è tenuto a Parigi un convegno sull’Italian Theory, organizzato dall’Université Paris-Ouest Nanterre e dalla Sorbona1. L’asse del convegno, coordinato da Silvia Contarini, Davide Luglio e Federico Luisetti, era dubitativo: L’Italian Theory existe-t-elle? La domanda potrebbe essere ripensata così: esiste un capitolo specifico della storia del pensiero europeo, geograficamente e cronologicamente circoscritto e relativamente omogeneo dal punto di vista tematico, capace tuttavia di offrire una proposta teorica sulla quale incardinare un dibattito utile a sciogliere alcune questioni urgenti per la filosofia contemporanea? attorno a tale questione si è prodotto un fitto confronto tra Roberto Esposito, Toni Negri, Sandro Mezzadra e gli altri partecipanti all’incontro. Com’è facile intuire, la questione è sbilanciata su molteplici incognite, senza sciogliere le quali, tuttavia, nessuna “unità storiografica” può reggere alla verifica teorica.

Nel solco tracciato dal recente lavoro di Roberto Esposito – soprattutto negli ultimi saggi: Pensiero Vivente e Due – Dario Gentili ha proposto di riscoprire la ricchezza del pensiero italiano. L’ipotesi cronologica di Gentili si tiene parallela a quella tematica, e l’insieme di autori trattati ne discende di conseguenza2. Esiste una Teoria Italiana, secondo Gentili, che abbraccia un arco cronologico specifico – diciamo così: dai primi anni sessanta ai giorni nostri – che segue una serie tematica definita dal sottotitolo del suo lavoro: dall’operaismo alla biopolitica, capace di offrire un quadro problematico alla filosofia contemporanea per il suo carattere estroflesso, ovvero rivolto esplicitamente e fondamentalmente ad una apertura storico-politica (qui Gentili recupera una suggestione che Esposito ha fatto giocare su una scala temporale più ampia). Tuttavia se si studiano questi autori in prospettiva storica risulta evidente che non si tratta per nulla affatto d’un ciclo unico, ma quantomeno d’una serie di linee divergenti e differenti, come del resto lo stesso Gentili aveva riconosciuto in un precedente scambio pubblicato su “alfabeta2”3. Tuttavia qui, la verifica storiografica non può bastare a se stessa, poiché in questione sono problemi direttamente teorico-politici. Ed è allora nella sua dimensione teoretica che l’Italian Theory va analizzata, per cercare di scorgerne aperture eventuali, occasioni critiche, e limiti. Per intenderci, innanzitutto, sull’opportunità o meno di giocarne il gioco.

Italian_theoryLa prima sezione del convegno, dedicata alla ricostruzione di una genealogia del pensiero radicale italiano è stata aperta dall’intervento di Toni Negri (che si può leggere → qui). Il pensiero radicale italiano, ha ricordato Negri, affonda nella critica dello storicismo togliattiano, già nei primi anni sessanta, con una serie di ricerche tutte volte a rompere l’incanto dell’ortodossia del PCI. Si è trattato di un singolare intreccio di studi ed esperienze collettive, capace di inventare la pratica filosofica a partire dal conflitto sociale e destituire la teoria di ogni aura trascendente – restituendovi così la forza concreta di una cassetta degli attrezzi per la trasformazione del mondo. Come ha ricordato Negri, non fu solo filosofia: in polemica con il crocianesimo imperante, nell’Italia dei primi anni sessanta Franco Fortini rinnovava la critica letteraria, riscoprendo Lukács, Brecht e Benjamin; Danilo Montaldi, Romano Alquati, Alessandro Pizzorno e Franco Momigliano ridefinivano la sociologia; e l’esperienza di Franco Basaglia avrebbe presto spezzato la gabbia della psicologia, aprendo la ragione al controcanto della follia. È dunque in questo contesto cha va vista la polemica anti-idealista della fenomenologia di Enzo Paci e di Giulio Preti, e il radicarsi della critica dellavolpiana: da qui poi, la ricerca originale di Raniero Panzieri e Mario Tronti avrebbe tratteggiato i contorni del primo termine della questione: l’operaismo degli anni sessanta.

Né il contesto europeo appariva meno ricco, segnato com’era da una vera e propria rottura dell’ontologia occidentale che poteva aprire su uno spazio di ricerca critico e conflittuale: si pensi al primo Habermas, che riscopriva lo Hegel jenese della dialettica aperta o al diffondersi della fenomenologia di Husserl e Merleau-Ponty che immergevano nello spazio della vita i risultati più interessanti della critica francofortese – prima ch’essa si perdesse nel blocco della dialettica negativa o si ricomponesse nel vuoto di pratiche comunicative. Toni Negri ha più volte sottolineato questo quadro d’insieme, ma stavolta ha insistito sulla cifra materialistica cui tale insieme di movimenti teorici alludeva. Perché al fondo, nulla di tutto ciò è comprensibile se non lo si àncora nell’analisi del regime salariale, nella materialità di conflitti e contraddizioni che non parevano, allora, poter venir superate da alcuna Aufhebung: insomma, critica dell’economia politica e crisi del costituzionalismo del periodo fordista, innanzitutto, ma per alludere, in una seconda fase alla crisi istituzionale che si sarebbe aperta dopo il 1968, alle prime crisi fiscali e del debito pubblico e alla nascita del monetarismo e del neoliberismo.
Negri lo ha ricordato, ancora di recente: «in quegli anni stava mutando l’orizzonte politico internazionale, nel 1971 il dollaro fu staccato dall’oro e ciò diede impulso ad una prima formale globalizzazione monetaria; nel 1975 venne pubblicata, come segno della crisi finale del fordismo e delle tecniche di governo che ne avevano accompagnato lo sviluppo, quella carta prescrittiva della Trilaterale che segnava i limiti da imporre alla democrazia; con ciò venne lanciata la rivoluzione neoconservativa della Thatcher e di Reagan. Noi ci confrontavamo con questa nuova realtà»4. Potremmo dire: dall’equilibrio dei cicli keynesiani, alla crisi come condizione strutturale dei rapporti di produzione.

Sulla soglia della crisi, dunque, come muoversi? Al netto dei primi balbettii debolisti e neobarocchi, venne il tempo della decisione: la fenomenologia della crisi si inchinò già allora alla mistica, o all’escatologia, o alla tragedia del teologico-politico – tutte varianti del disperato appello ad una rinnovata Ragion di Stato; a ciò si oppose, tuttavia, il tentativo di una via d’uscita, pragmatica, materialista, radicalmente umanistica, anti-individualistica, creativa – il pensiero radicale dell’operaio sociale, composto dai corpi moltitudinari confliggenti nella metropoli. Alla crisi permanente si risponde con una permanente sperimentazione di libertà.
Una pratica, ed uno stile di pensiero sperimentali, la cui genealogia è stata ricostruita in altri interventi. Ad esempio quello di Sandro Chignola. Fu la scoperta di Michel Foucault a segnalare l’antecedenza e l’eccedenza della resistenza nel milieu microfisico del potere; a permettere di intravvedere le aperture del dispositivo di assoggettamento, sempre determinato da una forza lavoro letta come dynamis, energia o potenza sociale – e perciò capace di agire sulla crisi della logica del valore che Baudrillard avrebbe poi analizzato nei termini della disarticolazione della relazione tra significante monetario e significato produttivo. La moneta e i segni linguistici, insegna la lezione dello scambio simbolico, sono sottoposti ad una stessa economia: ma a partire da qui, è stato possibile, ritornando al Marx dei Grundrisse, analizzare la trasformazione in rendita del capitale finanziario e l’emergere di soggettivazioni produttive che nulla hanno a che fare con il vago appello al vitalismo tanto diffuso in certo pensiero italiano.
Su questa base – tutta interna alla conflittualità sociale reale e agente degli anni settanta – ci si poteva muovere per individuare l’emergere di una forma convenzionale di soggettivazione multitudinaria, pattizia, stipulativa e non identitaria. Come anche intuire il carattere immanente, materiale e produttivo del comune. Può, dunque, lo schema dell’Italian Theory raccontare questa storia? O ne racconta un’altra, per molti versi opposta? Di ciò hanno discusso, in un continuo rimando tra Italia e Francia Razmig Keucheyan e François Cusset. Dario Gentili, da par sua, ha proposto l’urgenza di ridefinire la meccanica del teologico-politico sulla soglia della crisi attuale: Tra Slavoj Zizek, Peter Sloterdijk e Alain Badiou, secondo Gentili, si assiste al gran ritorno del lessico teologico, fondato sulla separazione tra politica ed economia, o ancora all’inaggirabile appello al trascendente dell’autorità sovrana ormai ridotta a potere che frena l’anomia del mercato. Sulla scorta di Esposito, tuttavia, Gentili considera impossibile la scissione tra economia e politica, il cui rapporto va riletto come asimmetrico e conflittuale all’interno del quadro fissato dalla crisi del biocapitalismo contemporaneo.

Nel pomeriggio, poi, la discussione ha preso corpo. Come si definisce la biopolitica, dentro e contro la crisi del biocapitalismo? Prima degli interventi di Laurent Dubreuil, Davide Luglio, Federico Luisetti e Rhiannon Welch, è la relazione di Roberto Esposito a tentare un’interlocuzione diretta con il lavoro di Toni Negri. Nel lungo viaggio interno al pensiero italiano, Esposito trova fondamentalmente una proposta politica – o il tentativo, sempre rinnovato di una proposta politica – che parte dai conflitti sociali, attraversa la crisi e si traduce in termini affermativi, spezzando la gabbia del negativo e la sospensione d’ogni actuositas in cui precipitano sempre le pratiche decostruttive. Non si tratta di un pensiero identitario, o con finalità egemoniche: piuttosto dell’abbozzo di una contro-egemonia, in grado di contestare il pensiero unico neoliberista. Come anche ogni ritorno a nostalgie sovraniste. La filosofia italiana in effetti, dice Esposito, si è sviluppata nell’ultimo trentennio, a partire dalla critica della teologia-politica. Ovvero ha provato a pensare il politico nella piega, nel rovescio del dispositivo del potere sovrano: ha certo utilizzato il linguaggio della macchina teologico-politica, ma per rovesciarne il significato e farne esplodere il diagramma. Attraverso una rilettura heideggeriana di Foucault, che molto deve al lavoro di Giorgio Agamben, Esposito ha proposto dunque un pensiero del fuori da ricostruire sui tre termini del comune, della potenza e del conflitto.
Eppure dobbiamo ancora capire: è possibile conciliare questa traiettoria, certo ricca di spunti e riflessioni mirabili, con un lavoro immanente, radicalmente produttivo e costitutivo? O non è il comune di Esposito ancora preso nell’esclusione includente della macchina immunitaria, la sua potenza trascendentalmente bloccata in un possibile che mai spezza il realizzarsi del necessario, e il conflitto certo riconosciuto, ma in un senso funzionale all’ordine che sempre lo include come sua origine?
E ancora, come ha ricordato Sandro Mezzadra in apertura della seconda giornata del convegno, a cosa serve un pensiero nazionale, di fronte alla crisi del capitalismo globale? Regge una teoria italiana alla prova del mondo? O non occorre forse, come appunto nel lungo lavoro di ricerca di Mezzadra, ragionare sui conflitti che attraversano e spezzano i confini, ridefinire una geopolitica della conoscenza capace di provincializzare l’Europa – e di conseguenza l’Italia – e analizzare un sistema capitalistico che ha perduto il suo centro occidentale? Riprendere il cammino, dunque, dall’esperienza di soggettività nomadi, forza lavoro intelligente e colta, interamente cosmopolita e capace di produrre conflitto dentro alle dinamiche della circolazione e del confinamento è quanto Mezzadra ha appreso dagli studi postcoloniali. Oltre l’Italia, c’è il mondo con i suoi conflitti. Ha parlato di questo il magistero dei Vattimo e dei Cacciari, di Marramao e di Agamben, di Esposito e di Tronti, negli ultimi trent’anni? Non può non venire il sospetto che, se proprio volessimo cercare linee omogenee nel pensiero italiano, vi ritroveremmo piuttosto una storia che ha risposto all’operaismo prima e alla biopolitica poi in una parabola tragica che dall’autonomia del politico di Tronti, attraverso la krisis di Cacciari giunge alla tanatopolitica di Agamben, sempre disattivando ogni possibilità per le pratiche della moltitudine di farsi attualità politica e spezzare le istituzione del comando. E ancora, come funziona, la teoria Italiana se si confronta con le ricerche femministe sulla riproduzione biopolitica, analizzate puntualmente da Penelope Deutscher? Può permettersi, il pensiero italiano, di pensare le dinamiche concrete della vita davanti alla – e contro la – tanatopolitica?

Per rispondere a quest’ordine di questioni bisogna rivedere lo schema di lavoro dell’Italian Theory partendo dai clivages, dalle rotture e dalle polemiche che hanno segnato la stagione filosofica degli anni sessanta e settanta. A partire dalla fine dell’esperienza operaista di Mario Tronti già nel 1966: proporre dunque una cartografia delle biforcazioni e degli effetti che queste biforcazioni producono ancora oggi attorno alla concezione della storia e della soggettivazione politica, come ha fatto in una relazione preziosa Judith Revel, subito prima della tavola rotonda conclusiva del convegno. Secondo Revel, si tratta innanzitutto di ricostruire la centralità di un certo pensiero francese per la riflessione italiana, del resto già rilevabile all’altezza dei “Quaderni Rossi”, impresa per molti versi ricettiva di alcuni spunti di analisi proposti da Claude Lefort e dal gruppo di “Socialisme et Barbarie” come dal Merleau-Ponty politico, almeno quello delle “adventures de la dialectique“. Critica della categoria di soggetto e critica della linearità dei processi storici sono state le cifre del pensiero francese dei primi anni sessanta e non v’è dubbio che tutto ciò abbia avuto un riverbero positivo su alcune ricerche e posizioni politiche in Italia. Del resto, e non a caso, si tratta di due punti fondanti del lavoro di Michel Foucault. E tuttavia, proprio la ricezione di Foucault, segna un discrimine problematico per l’Italian Theory. Perché è senz’altro vero che la crisi del soggetto allude a un vuoto, come nel Blanchot cui si riferiva il primo Foucault, e tuttavia questa condizione va nuovamente riempita di spessore etico, speranza sensuale, tecniche di sé: soggettivazione contro individualizzazione. Così come la crisi del discorso storico va colta come opportunità per analisi specifiche, situate, della produzione di tale discorso, in grado di suggerire il continuo riaprirsi del reale sulla sua possibile trasformazione.
macheteAl contrario, il Foucault assunto dal pensiero italiano, in particolare da Giorgio Agamben, perde la sua forza ermeneutica propria. Lette attraverso Heidegger e Schmitt le intuizioni foucaultiane sono sistematicamente decentrate: dalla storia e dalla soggettivazione, si passa ai concetti di “tempo” e “vita”, in un impasto apocalittico che blocca la potenza, il conflitto e il comune in figure teologiche tutte negative e residuali. E non è ancora l’assenza, l’impossibilità patente di ogni azione collettiva, il presupposto dell’ordine simbolico della madre proposto da Luisa Muraro? Una teoria dell’assenza, e dell’impotenza che forma l’ordine materno su un significante vuoto, come ricodificazione della soggettività femminile basata sulla fisiologia del ventre, tazza heideggeriana che accoglie soltanto, scartando ogni arroganza produttiva. Così si perde il secondo termine della questione: biopolitica. E invece vi era in Foucault l’esigenza di pensare un noi a venire, risultato d’inchiesta e mai presupposto, costruito all’interno di nuovi rapporti con gli altri e tecniche del sé, ben piantato in una storia reale, conflittuale, sempre aperta. Questo è il limite forse più grave del pensiero italiano, almeno di quella sua linea che altri tende invece a valorizzare: almeno dalla fine degli anni settanta esso non è più stato capace di pensare il soggetto nella forma del noi, ripiegando sulla de-soggettivazione, sulle terze-persone, sull’impersonale, sulla nuda vita, senza riuscire ad agire il Giano bifronte della produzione di soggettività.

Questi sono i nodi da sciogliere per giocare il gioco dell’Italian Theory. Nei suoi tanti limiti, tuttavia va colta l’intenzione della proposta di Esposito e Gentili: un’intenzione coraggiosa che può funzionare come propedeutica per pensare la politica fuori dallo stato. A tale urgenza dobbiamo tutti rispondere con realismo, per immaginare una nuova sociologia dei conflitti, una nuova etica della soggettività, una nuova economia politica del comune e un nuovo diritto fuori dalla tradizione romanistica e dai suoi legati: primo tra tutti, la distinzione pubblico/privato. Definire, per questa via, i contorni di un potere costituente efficace, agire su spazi non nazionali – per noi, oggi, prima di ogni altro, lo spazio europeo – è un ulteriore punto sul quale insistere.
Si tratta di organizzare la forma politica, di condensare la dynamis conflittuale in istituzioni? Sì, senza alcun dubbio. Si tratta di nuovo, come già in Machiavelli, spesso evocato in questo convegno, di pensare la forma del politico e del diritto. Ma una forma che sappia sfuggire alle trappole dell’universalismo individualistico, svolgersi per differenze interne a strutture di classe determinate e dotata di forza contro il biopotere. Differenze organizzate e capaci di agire, dunque, capaci di istituirsi a partire da azioni conflittuali intransitive. Dentro e contro, si diceva allora. Ma dentro cosa? Più che un qualsiasi asfittico confine nazionale, diremmo, dentro al mondo, grande e terribile.

Sul Povero Yorick: Note sullo stato della filosofia italiana:

Toni Negri, → A proposito di Italian Theory
Toni Negri, → Vana ricerca del buon governo
Girolamo De Michele, → La pop filosofia spiegata a un accademico (e non solo a lui)
Girolamo De Michele, → Oltre l’accademia: le strade

Download this article as an e-book

Print Friendly, PDF & Email

  1. Colloque International: “L’Italian Theory existe-t-elle?”, Paris, 24-25 janvier 2014qui

  2. Qui la recensione di Giuseppe Allegri al libro di Gentili. 

  3. Marco Assennato, → A differenza dell’Italian Theory; Dario Gentili, → I conflitti dell’Italian Theory; Nicolas Martino, → La differenza dell’operaismo

  4. A. Negri, La forma Stato. Per la critica dell’economia politica della costituzione, Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2012, p. 14.