di SANDRO MEZZADRA.

Era il primo giugno del 1863, in piena guerra civile, quando per la prima volta nella storia degli Stati Uniti una donna pianificò e guidò una operazione militare dell’esercito dell’Unione. Non era una donna qualsiasi: Harriet Tubman era nera, nata schiava in una piantagione del Maryland da cui era fuggita nel 1849. Da quel momento era diventata una figura leggendaria nell’organizzazione dell’Underground Railroad, la rete sotterranea di appoggio agli schiavi fuggiaschi: di lei si diceva che non avesse «mai perso un passeggero» in nessuna delle sue innumerevoli «missioni». In quel giorno di giugno, proprio utilizzando le reti di comunicazione della «ferrovia» e dei marinai neri che conducevano i battelli impiegati nel trasporto fluviale della Carolina del Sud, Tubman (o «Moses», come era spesso chiamata) delineò un piano d’attacco sul «Combahee River» che travolse rapidamente le difese confederate e portò alla liberazione di centinaia di schiavi dalle piantagioni dell’area circostante.

Combahee River Collective è il nome assunto nel 1974 a Boston da una delle più importanti organizzazioni del femminismo radicale nero (e lesbico) negli Stati Uniti, noto in particolare per un memorabile manifesto (uno statement) pubblicato nel 1977 e ora incluso in un libro dedicato al collettivo a cura di Keeanga-Yamhatta Taylor (How We Get Free. Black Feminism and the Combahee River Collective, Haymarket Books). Ricollegandosi a un’azione politica radicale come quella guidata da Tubman, il collettivo iscriveva il femminismo nero all’interno della storia lunga della schiavitù e del protagonismo delle donne nella resistenza contro di essa. Nella scia delle lotte per la liberazione nera degli anni Sessanta e Settanta, non si limitava ad accusare il femminismo bianco mainstream di trascurare il razzismo, ma assumeva l’«appartenenza a due caste oppresse, razziale e sessuale», come chiave per riqualificare e approfondire una critica radicale del capitalismo.
Lungo poco più di dieci pagine, il Manifesto del 1977 resta un documento di grande attualità, dato che introduce almeno due temi che sarebbero rimasti centrali fino a oggi – non soltanto nel femminismo nero statunitense. In primo luogo, si può rinvenire in questo testo una delle prime anticipazioni della categoria di «intersezionalità», formalizzata nel 1989 da Kimberlé Krenshaw: nel proporre un orizzonte politico centrato sulla «lotta contro l’oppressione razziale, sessuale, eterosessuale e di classe», il Combahee River Collective sottolinea che questa lotta deve basarsi sulla consapevolezza del fatto «che i principali sistemi di oppressione sono intrecciati».
In secondo luogo, nel Manifesto si può riscontrare uno dei primi usi contemporanei del concetto di «politica dell’identità», qui inteso come focalizzazione della lotta politica a partire da una specifica posizione all’interno dei sistemi intrecciati di oppressione che si sono richiamati. «Femministe e lesbiche», le donne del collettivo assumono tuttavia questa specifica posizione e «identità» non certo per cristallizzarla o per celebrare una separatezza (la critica del «separatismo lesbico» è anzi uno dei punti qualificanti del Manifesto): al contrario l’enfasi posta su un elemento di «differenza» diventa qui la base per reinventare materialmente la solidarietà e – è bene ripeterlo – la politica di classe. Riecheggiando Fanon, il collettivo scrive di essere «sostanzialmente d’accordo con la teoria di Marx», ma aggiunge che «la sua analisi deve essere ulteriormente estesa per comprendere la specifica condizione delle donne nere».

Non è questo il luogo (né vi è lo spazio necessario) per ricostruire l’insieme dei processi che nei decenni successivi alla pubblicazione del Manifesto del Combahee River Collective hanno profondamente modificato negli Stati Uniti il senso di parole come «intersezionalità» e «politica dell’identità». Basti notare, come fa Asad Haider in un bel libro da poco uscito (Mistaken Identity. Race and Class in the Age of Trump, Verso), che nel 2016 la campagna presidenziale di Hilary Clinton ha adottato proprio questi termini (unitamente a «privilegio») per contrastare la sfida che le veniva portata da sinistra all’interno del Partito democratico da Bernie Sanders. Attorno a questo uso sono (giustamente) proliferate le critiche del «femminismo neoliberale» che negli Stati Uniti, ad esempio attraverso gli interventi di Nancy Fraser, sono confluite nel dibattito attorno al «populismo di sinistra». Il libro di Haider (uno dei fondatori di ⇒ Viewpoint Magazine, innovativo laboratorio di ricerca militante) mi pare da questo punto di vista particolarmente importante.

Rifiutando di assumere come scontato il riferimento alla «Santissima Trinità di ‘razza, genere e classe’ come categorie identitarie», sottolinea fin dall’inizio che – proprio per poter comprendere e criticare il loro «intreccio» – è necessario ricostruirne le «storie materiali specifiche». La scelta di centrare l’analisi sulla categoria di «razza» apre così un campo di riflessione in cui a venire in primo piano è il problema di fondo posto dal Combahee River Collective nel suo Manifesto (discusso in questo senso da Haider): ovvero il modo in cui una specifica «differenza» – di per sé portata a scomporsi e a moltiplicarsi – interviene a complicare la costituzione in soggetto della classe.

Haider scrive in prima persona, raccontando la sua esperienza di bambino e adolescente nato in Pennsylvania all’interno di una famiglia di origini pakistane, tanto a disagio a Karachi (dove durante le visite estive i parenti lo prendevano in giro per il suo «accento americano») quanto nella sua città natale, dove i ragazzi bianchi gli chiedevano insistentemente di dove fosse («non della Pennsylvania, evidentemente»). Ma il punto di svolta fu per lui (come per tante e tanti altri) l’11 settembre del 2001, quando improvvisamente la sua identità «divenne questione di sicurezza nazionale».

Inizia qui un percorso che porta Haider a scoprire il radicalismo nero degli anni Sessanta, leggendo in particolare i libri di Huey P. Newton (fondatore delle Pantere Nere) e di Malcolm X: in questi libri, e nelle biografie dei loro autori, comincia a intravedere quel medesimo gesto teorico e politico che avrebbe poi ritrovato nel Manifesto del Combahee River Collective – ovvero un «partire da sé» (da una differenza o da un grumo storico di differenze) che, lungi dal presentarsi come momento di chiusura all’interno dei confini di un’«identità», è piuttosto la condizione preliminare per pratiche politiche rivoluzionarie che si allargano all’interno della società statunitense e inventano nuove geografie dell’internazionalismo.

È questa la traccia fondamentale che Haider segue lungo l’intero libro, discutendo ad esempio l’importanza e i limiti del nazionalismo nero attraverso un’altra figura di grande importanza, Amiri Baraka, e passando in rassegna i più recenti dibattiti all’interno del movimento afro-americano, attorno a Occupy Wall Street e alle grandi mobilitazioni contro la violenza razzista della polizia di Black Lives Matter. Come interviene, all’interno di queste mobilitazioni, quella che oggi viene definita «politica dell’identità»? Haider ne dà conto in modo particolarmente brillante, incrociando riferimenti alla letteratura accademica ed esperienze da lui vissute negli ultimi anni all’interno dei movimenti (in particolare durante un’occupazione contro l’aumento delle tasse all’Università di California, Santa Cruz, nel novembre del 2014).

La «politica dell’identità»agisce come elemento di blocco e di frammentazione delle lotte, nella misura in cui avvia una corsa alla ricerca della posizione (appunto: dell’«identità») più svantaggiata per giocarla contro la possibilità stessa che a partire da quella posizione (secondo quanto scriveva il Combahee River Collective) si costruiscano politiche espansive e compositive. I toni profondamente moralistici e vittimizzanti, così come l’assolutizzazione di specifiche esperienze di dominazione, contraddistinguono sempre più l’uso di formule – che si stanno diffondendo anche in Europa – quali People of Color e trovano ad esempio legittimazione negli sviluppi più recenti degli «studi decoloniali».
La diffusione del cosiddetto «Afro-pessimismo» (Frank Wilderson), che promuove la sostituzione del riferimento al «razzismo» con il termine antiblackness per enfatizzare l’unicità dell’esperienza nera e la radicale opposizione a una società «bianca» fondata sull’assoluta violenza originaria della tratta e della schiavitù, è un ulteriore elemento di questa costellazione intellettuale.

La stessa categoria di «bianchezza» (nonché quella correlata di «privilegio bianco») appare oggi sempre più segnata nel senso della «politica dell’identità» che si è sinteticamente ricostruita. Lo mostra in modo convincente David Roediger, autore di studi fondamentali su razza e classe nella storia statunitense, nell’introduzione a una recente raccolta di suoi saggi (Class, Race, and Marxism, Verso). Anche qui del resto, a conferma della tesi di fondo di Haider, secondo cui la politica dell’identità può essere definita come «la neutralizzazione dei movimenti contro l’oppressione razziale», siamo di fronte a un paradosso: queste categorie, infatti, sono state introdotte nel dibattito storiografico da autori di formazione marxista, come lo stesso Roediger e Theodor W. Allen e vengono oggi utilizzate in forme che non soltanto militano contro un rinnovamento del concetto e della politica di classe ma rendono nei fatti impossibile un allargamento di pratiche di solidarietà all’interno di un orizzonte di «universalità» (il tema dell’ultimo capitolo del libro di Haider).
Al tempo stesso, e questo sembra un problema altrettanto significativo, gli sviluppi della «politica dell’identità» riabilitano all’interno del «populismo» (o «sovranismo») «di sinistra» – come si vede benissimo tanto negli Stati Uniti quanto in Europa – un’immagine della «classe» fondata su quella omogeneità che proprio le lotte delle donne e dei soggetti «razzializzati» in molte parti del mondo avevano radicalmente (e felicemente) messo in discussione.
Quelle lotte, rinnovate nel presente ad esempio con il formidabile ciclo di mobilitazioni femministe transnazionali e transcontinentali degli ultimi due anni, così come con le lotte attorno alla migrazione ci offrono un essenziale filo conduttore per avviare una sperimentazione teorica e politica attorno ai temi di cui si è qui parlato. Sono molti i contributi recenti attorno alla «produzione di differenza» come elemento costitutivo del modo di produzione capitalistico, che mostrano come la differenza sia sempre stata un elemento cruciale nella gerarchizzazione interna della classe operaia – e come attorno a questo elemento si siano sempre determinate lotte di formidabile intensità e di fondamentale rilievo per la «formazione del proletariato in classe» (per citare il Manifesto del partito comunista).

Il libro di Roediger dà conto di questi sviluppi. Mai come oggi, tuttavia, questo è stato vero, tanto sul lato del dominio quando su quello delle lotte: classe e differenza richiedono di essere pensate insieme per articolare una politica che tenga fermo l’orizzonte dell’«universalità» evocato da Haider ma che lo rinnovi continuamente iscrivendo al suo interno una molteplicità di istanze e desideri di liberazione – e recuperando così il significato originario del concetto di moltitudine. È in fondo in questo senso che mi pare venga oggi riscoperta e usata all’interno dei movimenti femministi in molte parti del mondo (in Brasile, in Argentina, in Italia per esempio) la categoria di «intersezionalità», che negli Usa – per riprendere ancora Haider – tende ormai a svolgere «una funzione intellettuale paragonabile a quella di parole come ‘abracadabra’ o ‘dialettica’» (ma con significative eccezioni: Angela Davis, in primo luogo). Edward Said ci ha del resto insegnato ormai molti anni fa che, viaggiando, le teorie si ibridano e danno a volte luogo a imprevisti effetti sovversivi.

questo testo è stato pubblicato sul manifesto del 26 settembre 2018

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