Di CHIARA GIORGI

La recente raccolta di alcuni significativi testi di Foucault pubblicata da Donzelli nel volume Medicina e Biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, sapientemente introdotto da Paolo Napoli, costituisce un’occasione preziosa per riprendere la ricerca foucaultiana. E al contempo per arricchire una riflessione che, mettendo in tensione i testi di Foucault con le questioni odierne, articoli il dibattito su salute, cura, diritti sociali e libertà individuali.

L’asse portante dei saggi – le conferenze di Rio de Janeiro del 1974, la lezione al Collège de France del 1978 e l’intervista del 1983 – è il processo di medicalizzazione della società, un tema questo al centro della riflessione degli anni Settanta, quando la medicina si fece politica, nel senso che fu investita da una politica del cambiamento. Leggendo questi testi tornano alla mente le elaborazioni di quella stagione straordinaria, in cui anche il sapere medico-scientifico si aprì a una messa in discussione del proprio statuto epistemologico, a un radicale rinnovamento.

Potremmo allora osservare che l’interesse di Foucault per la medicina, oltre a provenire dalla sua esperienza biografica, dal suo metodo di indagine storico-filosofico, è stato sollecitato dal fermento culturale e politico di quegli anni. La sfida dei movimenti nati attorno all’urgenza di riformulare in termini nuovi il rapporto tra medicina, salute, politica e società fu di assumere la salute nella sua dimensione collettiva, come condizione di quella individuale, di farne uno degli assi centrali di nuove pratiche politiche, fornendone una lettura di classe. Potremmo dire, recuperando la lezione foucaultiana, che l’ambito della salute divenne un banco di prova per pratiche di soggettivazione alle prese con i dispositivi di assoggettamento presenti nello statuto della medicina e al tempo stesso con le resistenze che su questo terreno presero forma. Se i movimenti di lotta per la salute assunsero una serie di obiettivi più che mai attuali, Foucault ci fornisce strumenti essenziali per comprendere il dove, il quando e il perché di questo processo di medicalizzazione della società, di questa ascesa della medicina come sapere di governo della popolazione. Essa si situa nel XVIII secolo, quando in Europa prese il via lo sviluppo dell’intervento medico e sanitario, il potere disciplinare si perfezionò e divenne «una nuova tecnica di gestione dell’uomo», basata su una sorveglianza costante degli individui. La ricostruzione della traiettoria dell’intervento medico e delle tecniche di governo dell’essere umano consente a Foucault di cogliere la sempre riemergente validità di alcuni strumenti e modelli (la «quarantena»); così come di uscire dalle secche di un dibattito allora molto acceso suscitato dalle teorie di Ivan Illich e orientato a opporre l’antimedicina alla medicina. Individuare e situare storicamente l’effetto dell’intervento medico a livello biologico, ossia la traccia lasciata da esso sulla specie umana segna la mossa di congedo da improbabili fughe dalla storia, da demonizzazioni irrazionali del potere, da visioni apologetiche della natura umana e del «connubio introvabile corpo-natura-libertà», scrive Napoli, ossia da un ordine del discorso naturalizzante.

L’attenzione di Foucault si concentra quindi su quelle dinamiche che portano già in epoca moderna la medicina a occuparsi di quel che non la riguarda, ossia degli aspetti attinenti all’organizzazione (e alla riproduzione) della società. La medicina si converte in una pratica sociale, si dedica ad altri campi che non sono le malattie e le risposte alle domande del malato, essa diventa con il capitalismo il fondamento dell’attenzione pubblica per la salute del corpo. Ribaltando la vulgata che vedeva nell’ascesa del capitalismo l’origine di una medicina privata e individuale, Foucault sostiene che proprio esso ha come prima cosa socializzato il corpo in funzione della marxiana forza lavoro. A tal proposito compare per la prima volta il termine di bio-politica: «Per la società capitalista è il bio-politico a essere importante prima di tutto, il biologico, il somatico, il corporale. Il corpo è una realtà bio-politica; la medicina è una strategia bio-politica». Le esperienze storiche rintracciate nei testi delle conferenze fondano la critica al processo di medicalizzazione e normalizzazione della società; critica mai astratta, né profetica, bensì volta a illuminare materialmente il legame tra economia, potere, medicina, salute e le sue implicazioni sulle forme della soggettività, siano esse il frutto di meccanismi di potere o l’espressione di iniziative di resistenza.

Un ulteriore momento periodizzante di questa assunzione del corpo e della sua salute a paradigma di governo sono i primi anni Quaranta, dove si situa l’esordio ufficiale del welfare state. È il Piano Beveridge a segnare un passaggio decisivo: con esso si afferma il nuovo diritto alla vita in buona salute. La salute, che infatti entra nel campo della macroeconomia, «si trasforma in un oggetto di preoccupazione per gli Stati», non più «per se stessi, ma per gli individui». È così che si rovesciano i termini della questione: «il concetto di Stato al servizio dell’individuo in buona salute» si sostituisce a quello precedente di un individuo in buona salute al servizio dello Stato.

Individuare le radici storiche di questi processi e delle forme della conoscenza comporta interrogarsi a fondo sul decollo moderno della medicina (che è sia «una medicina dell’individuo», sia «una medicina della popolazione»), sul suo modello di sviluppo e funzionamento, e soprattutto sulle possibilità di una sua correzione e contestazione. Nella traiettoria foucaultiana giungiamo al periodo a noi più vicino, quello in cui si assiste alla trasformazione della salute in merce e in oggetto di consumo – in cui la salute «rappresenta un desiderio per alcuni e un lusso per altri» –, quello nel quale il corpo umano e la salute entrano nel mercato senza che ciò comporti un innalzamento del livello di benessere, sul quale piuttosto incidono i determinanti sociali, ambientali, culturali della salute. D’altra parte, proprio nel periodo in cui Foucault rilascia l’intervista si consolidano nuove politiche di ridimensionamento e riconfigurazione del welfare all’insegna del protagonismo di attività private, logiche di profitto e spazi di mercato nell’ambito dei servizi pubblici.

Su ciò le parole di Foucault contengono un lascito di grande rilievo: la sollecitazione a pensare in termini innovativi il problema del rapporto tra «domanda infinita» e «sistema finito». Ossia, il rapporto tra il soddisfacimento dei bisogni di salute, che non seguono mai un principio di limitazione, le forme di accesso ai mezzi di salute e il loro carattere collettivo, la creazione di istituzioni durature per una sua gestione “altra”. La domanda da cui ripartire potrebbe allora essere: come istituzionalizzare forme di sanità più socializzate? come re-immaginare un nuovo modello di welfare socio-sanitario espansivo, espressione di una gestione partecipata, democratica, comune, fondata sulla coproduzione dei servizi, capace di ripoliticizzare il terreno della produzione di salute e della conoscenza sanitaria?

La questione che torna centrale è quella di una rinnovata combinazione delle istanze di eguaglianza e libertà, come osserva Napoli del diritto sociale alla salute e dei diritti civili. In questa direzione Foucault ci offre un materiale prezioso, ivi compresa un’idea di cura nel senso del prendersi cura, dell’avere cura di sé, degli altri, delle relazioni, del mondo, la quale veicola sempre una dimensione relazionale del soggetto.

Questo articolo è stato pubblicato su il manifesto il 18 gennaio 2022.

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