di SANDRO MEZZADRA.

Intervento introduttivo alla prima sessione della scuola estiva 2018 Resistenze molteplici, Passignano sul Trasimeno, 13 settembre 2018

a. Il tema e l’obiettivo di questa prima sessione della scuola estiva

Ci ritroviamo a Passignano in un contesto politico profondamente mutato rispetto alle scorse edizioni della scuola estiva di Euronomade, in Italia così come a livello globale. E scontiamo un sostanziale disorientamento, in particolare nel nostro Paese, di fronte a una destra ogni giorno più aggressiva, capace di consolidare il proprio consenso attorno ai naufragi nel Mediterraneo, alla diffusione capillare del razzismo, alla caduta di un ponte. Non abbiamo soluzioni da offrire, ma siamo convinti che il tempo del disorientamento debba cedere il passo al tempo di una ricerca e di una sperimentazione condivisa tanto sul terreno della teoria quanto sul terreno delle pratiche politiche. E riteniamo che un contributo essenziale a questa ricerca e a questa sperimentazione debba venire da un tentativo di analizzare il mutamento radicale che si sta determinando negli equilibri (e negli squilibri) globali: solo collocandola all’interno di questo “mondo sottosopra”, la stessa congiuntura italiana risulta comprensibile nei suoi tratti di fondo – e, questa è la nostra scommessa – nella sostanziale fragilità dei suoi assetti.
Questa sera vorremmo da una parte cominciare ad avanzare e a verificare alcune ipotesi sugli scenari globali emergenti, proponendo dall’altra alcuni criteri di metodo per l’analisi della dimensione “geopolitica”: l’assunzione della tensione tra “geopolitica” e “geoeconomia” (tra confini territoriali e frontiere del capitale) come asse centrale della nostra discussione e la convinzione che oggi più che mai le forme assunte dall’ordine e dal disordine globale – la riorganizzazione degli spazi politici ed economici nonché le tensioni tra essi nella globalizzazione – sono una variabile cruciale per qualsiasi progetto di trasformazione radicale dell’esistente, indipendentemente dalla scala su cui questo progetto si esercita in prima battuta. Non v’è dunque contraddizione tra analisi geopolitica e analisi della composizione di classe (per richiamare un tema classico della nostra tradizione): la prima è piuttosto dimensione interna alla seconda e viceversa.

b. Il decennale della bancarotta di Lehman Brothers

Dopo aver celebrato il centenario della rivoluzione sovietica e, decisamente più in sordina, il cinquantenario del ’68, ricorre questa settimana il decennale del fallimento di Lehman Brothers. Dieci anni fa, in questi giorni, eravamo riuniti a Bologna per uno dei seminari di Uninomade da cui scaturì un libro importante, Crisi dell’economia globale. Mercati finanziari, lotte sociali e nuovi scenari politici. In un articolo sul New York Times di martedì scorso [qui], Andrew Ross Sorkin (autore di Too Big to Fail, 2010, uno dei libri di maggior successo sulla crisi del 2007/8) ha insistito in modo convincente sul perdurante effetto di quella crisi – tanto negli USA (nonostante una congiuntura economica che rasenta la piena occupazione secondo le statistiche degli uffici federali) quanto a livello globale. Da una parte la crisi ha determinato una profonda trasformazione degli scenari politici statunitensi (con la nascita di Occupy Wall Street, che passando attraverso la campagna di Bernie Sanders nel 2016 oggi determina tra l’altro l’emergere di una nuova generazione di politici democratici di “sinistra”, e del Tea Party, che ha posto le basi per l’ascesa di Trump). Ma la crisi ha più in generale, secondo Sorkin, fatto segnare una rottura del “contratto sociale tra i plutocrati di Wall Street e la società nel suo insieme”, ovvero la fine di quella privatizzazione del keynesismo attraverso i mercati finanziari (base materiale essenziale del carattere “promissorio” del neoliberalismo) che Christian Marazzi in particolare analizzava nel nostro libro.

c. Il ciclo politico globale

Se la crisi del 2007/8 continua ad agire nello scenario statunitense, non meno profonda e gravida di conseguenze appare la sua persistenza sul livello globale. In molti, all’interno di Euronomade, abbiamo parlato di una “stabilizzazione reazionaria” [qui] per definire il ciclo politico globale di cui il governo Salvini è una variante. Questo ciclo politico si afferma sulla sconfitta dei movimenti del 2011 (il grande ciclo transnazionale e transcontinentale di occupazioni delle piazze) e interpreta un tratto essenziale dell’eredità della crisi del 2007/8: la consapevolezza cioè che il neoliberalismo e la finanziarizzazione non garantiscono legittimità politica e coesione (stabilità) sociale. Il ritorno dello Stato e della nazione come protagonisti in questa congiuntura (negli USA come in Italia, in Turchia come in India, in Russia come in Cina, mentre più complesso sarebbe il ragionamento sugli sviluppi latinoamericani dopo la fine dell’era dei “governi progressisti”) surroga questa crisi di legittimità e coesione, presentandosi invariabilmente caratterizzato da un alto tasso di autoritarismo e chiusura e senza mettere in alcun modo in discussione gli aspetti fondamentali dello stesso neoliberalismo. Quel che ne risulta è l’emergere di formazioni ibride, contraddistinte da vari gradi di combinazione tra nazionalismo, autoritarismo e neoliberalismo.

d. La crisi dell’egemonia statunitense

Siamo convinti che dietro alle tensioni e alle trasformazioni dei rapporti di potere a livello globale (tensioni e trasformazioni che assumono ad esempio le forme della guerra commerciale, ma anche quelle della guerra guerreggiata in molte parti del mondo) agisca come tema di fondo la crisi dell’egemonia statunitense. Anche da questo punto di vista la crisi finanziaria del 2007/8 è stata un passaggio fondamentale e continua a produrre i suoi effetti. Sia chiaro: parlando di crisi dell’egemonia statunitense, non sottovalutiamo certo l’enorme accumulazione di potere e ricchezza (oltre che di forza militare) negli USA. Basti pensare alla Silicon Valley e allo strapotere (pur significativamente contrastato in Paesi come la Cina e ora anche in India) di attori come Google, Apple, Facebook e Amazon nel “capitalismo delle piattaforme”, oppure – su un piano solo apparentemente diverso – al persistente ruolo dell’inglese come lingua globale. Il punto è tuttavia che gli Stati Uniti sono ormai incapaci di dettare i ritmi e le modalità dello sviluppo capitalistico globale, ponendosi come vertice del suo governo.

Il dibattito statunitense interpreta questa situazione attraverso la descrizione del tramonto dell’“Ordine internazionale liberale” sorto con la fine della seconda guerra mondiale, fondato sull’egemonia americana, sull’espansione del libero commercio, sul rule of law e sul multilateralismo. Questo ultimo punto è particolarmente importante, considerata l’avversione di Trump al multilateralismo e la sua propensione per accordi bilaterali (come si è visto nel caso della Corea del Nord e come si vede ora nel caso della rinegoziazione del NAFTA), nella prospettiva di ritagliare spazi specifici di influenza statunitense (a detrimento della prospettiva di un governo mondiale, “imperiale”). La stessa politica dei dazi, pur senza enfatizzare eccessivamente la razionalità delle politiche di Trump (decisamente contrarie agli interessi di attori fondamentali del capitalismo statunitense, anche nel settore manifatturiero), può essere letta in questa prospettiva – come un tentativo di ridurre o sospendere gli scambi commerciali, per determinare un tempo in cui rinegoziare le loro regole. Dopo il tentativo di Bush Jr. di riaffermare l’egemonia statunitense sul piano direttamente militare e quello di Obama di spostare sul terreno “morale” la costruzione egemonica (senza cessare le guerre e intensificando gli attacchi attraverso i droni), la politica di Trump sembra accettare la nuova posizione degli USA nel sistema mondo, puntando sullo Stato nazionale come “potere separato” e funzionale a una politica post-egemonica.

e. Sconnessione tra ciclo politico e “leggi di movimento” del capitale sulla dimensione globale

Una volta descritti i caratteri fondamentali del ciclo politico globale e una volta assunta come sfondo di questo ciclo la crisi dell’egemonia statunitense, occorre domandarsi quale sia il rapporto che oggi si determina tra geopolitica e geoeconomia, ovvero tra il mondo “internazionale” (che continua a essere organizzato attorno agli Stati) e quelle che possiamo chiamare (con un po’ di ironia) le “leggi di movimento” del capitale sulla dimensione globale –nel “mercato mondiale” per dirla con Marx. Per un lungo ciclo storico, l’articolazione all’interno di variabili equilibri egemonici tra questi due piani (tra spazi politici e spazi del capitale, o tra confini territoriali e frontiere del capitale per richiamare i termini che ho proposto nel mio lavoro con Brett Neilson) ha certo funzionato efficacemente: nell’insieme dei dibattiti che a partire dagli anni Novanta dello scorso secolo si sono svolti attorno al tema della “globalizzazione” l’ipotesi prevalente era tuttavia che quell’assetto fosse entrato fondamentalmente in crisi e che un nuovo “ordine” stesse emergendo. La tesi dell’“impero”, presentata da Michael Hardt e Toni Negri nel 2000, andava precisamente in questo senso – proponendo una lettura antagonistica di quel nuovo ordine.
In che senso possiamo interpretare da questo punto di vista il rinnovato protagonismo degli Stati nazione nell’attuale congiuntura? Penso che vada in primo luogo sottolineato il fatto che gli Stati realmente protagonisti nelle convulsioni e nelle trasformazioni dell’ordine e del disordine globale sono Stati continentali (USA e Russia, Cina e India), che puntano a organizzare in una prospettiva egemonica grandi spazi economici oltre che politici. Chi pone sullo stesso piano, analiticamente e politicamente, questi Stati continentali e uno staterello come l’Italia è semplicemente vittima di un’illusione ottica, e non si rende conto della assoluta marginalità politica ed economica a cui il “sovranismo” condannerebbe il nostro Paese. Più in generale, tuttavia, non si può non rilevare che la tendenza alla riorganizzazione del sistema mondiale attorno a grandi Stati con forti propensioni nazionalistiche entra necessariamente in tensione con quelle che chiamavo le “leggi di movimento” del capitale sulla dimensione globale, caratterizzate (oggi più che in qualsiasi precedente epoca storica) dalla tendenza a produrre spazi autonomi (fin sotto il profilo dei sistemi di governance e normativi) rispetto agli spazi politici degli Stati – con l’emergere di una “geometria alternativa della geografia politica”, come la ha definita in un libro importante (The Stack. On Software and Sovereignty, 2015, qui) Benjamin Bratton. Per fare soltanto tre esempi di cruciale rilevanza, questa tendenza è stata ampiamente descritta negli ultimi anni a proposito del cloud (e dunque dei mondi digitali), delle piattaforme, della stessa finanza e della logistica.
Ora, non si tratta in alcun modo di supporre una linearità nell’adeguamento del “mondo internazionale” a quelle che (anche per questa ragione con qualche cautela e ironia) definivo “leggi di movimento” del capitale. Non si può certo escludere che momenti di “irrazionalità” politica (rispetto a una presunta “razionalità” capitalistica) determinino persistenti sconnessioni con le logiche globali del capitale – fino agli scenari evocati da molti con il riferimento agli anni Trenta del Novecento. Non va del resto dimenticato che il “capitale” (il “capitale complessivo”, come Marx lo chiamava) è composto da una pluralità di attori spesso in conflitto tra loro, e che alcuni di questi attori possono trarre vantaggio da scenari politici che appaiono in contraddizione con l’interesse capitalistico complessivo (comunque lo si voglia definire). In ogni caso la tensione e la potenziale contraddizione tra spazi politici e spazi del capitale (la loro mancata articolazione) rappresentano un criterio fondamentale per i nostri “appunti geopolitici”. E indicano un fattore potenziale di crisi, una cruciale fragilità nell’assetto complessivo dell’attuale congiuntura globale – con riflessi che necessariamente investono anche le nostre province.

f. Logistica e composizione di classe

Citavo tra gli ambiti decisivi per l’analisi della spazialità della globalizzazione capitalistica la logistica. Personalmente avevo cominciato a occuparmi di questo tema all’inizio degli anni Ottanta, sotto la spinta delle lotte dei portuali a Genova e del lavoro di Primo maggio. Ho ripreso a lavorare sulla logistica negli ultimi anni, ancora una volta a partire da lotte di grande importanza, quelle dei lavoratori migranti nei magazzini della Pianura Padana. Questo lavoro si è subito collegato a livello transnazionale con una nuova stagione di studi critici attorno alle nuove frontiere della logistica, che investono e trasformano radicalmente il lavoro e la vita, gli spazi urbani e quelli globali, tra l’altro attraverso la digitalizzazione (che assume qui, come Benedetto Vecchi spesso ci ricorda, tratti peculiari). Parlare di logistica significa oggi parlare non soltanto di containerizzazione dei porti e dei tracciati disegnati dalla circolazione delle merci, ma anche di piattaforme e “smart city”, di nuovi dispositivi di controllo e organizzazione del lavoro e di inediti stili di vita.
Scrivendo con Toni Negri una presentazione del dibattito di oggi [qui] abbiamo proposto di assumere proprio la logistica – in questo senso allargato – come emblema di quelle che chiamavo “leggi di movimento” del capitale globale (e al tempo stesso come punto di vista analiticamente privilegiato su di esse). Abbiamo scritto di un “accumularsi inestricabile, fisico, di reti energetiche, comunicative, finanziarie che si intrecciano nello spazio e sulla crosta terrestre”. E abbiamo avanzato l’ipotesi secondo cui la politica cinese, “che punta da una parte su una centralizzazione del comando politico interno e dall’altra sul grande progetto di espansione logistica ‘One Belt One Road’”, pare esprimere la più alta consapevolezza delle tensioni e dei conflitti tra spazi politici e spazi del capitale di cui parlavo. Ci sarà certo modo oggi di discutere questa ipotesi, in particolare con l’intervento di Simone Pieranni. Quel che vorrei aggiungere è che l’analisi della logistica (mai isolata dal complesso dell’attuale formazione capitalistica e sempre piuttosto colta nella sua articolazione con altri ambiti di azione economica) apre una prospettiva di fondamentale importanza tanto sui caratteri estrattivi del capitalismo contemporaneo quanto sulle trasformazioni della composizione del lavoro vivo. E mostra in particolare l’alto grado di eterogeneità che caratterizza quest’ultima, l’impossibilità di pensare oggi la “classe” senza pensare al tempo stesso la “differenza” – propone l’urgenza, per noi, di riprendere e aggiornare la categoria di moltitudine. È quello che proveremo a fare nei prossimi giorni, ponendo al centro della nostra discussione i due movimenti fondamentali che in questi ultimi anni hanno sfidato la “stabilizzazione reazionaria” in Italia così come in molte parti del mondo: i movimenti dei migranti e i nuovi movimenti femministi. Questi movimenti, cancellati in molta retorica di “sinistra” sul ritorno della “classe”, sono per noi gli assi fondamentali attorno a cui ragionare per ridefinire politicamente lo stesso concetto di classe.

g. L’importanza di un’articolazione tra politica di classe e politica degli spazi: la questione europea

Concludendo: questa composizione del lavoro vivo (che è una composizione della vita, oltre che del lavoro) è per noi il punto di riferimento fondamentale per cominciare a progettare un’offensiva nel tempo della “stabilizzazione reazionaria”. Donne e migranti, dicevo: due soggetti che, per ragioni e in modi diversi, sono al più inclusi in modo subordinato nell’ordine nazionale – e si prestano a divenire i suoi “altri”, i migranti attraverso la semplice sfida che i loro movimenti pongono ai confini, le donne non appena rifiutano i ruoli loro assegnati dall’ordine patriarcale che a quello nazionale è strettamente collegato. C’è qui una prima ragione della nostra avversione al “sovranismo” e al “populismo di sinistra”. Ma non è tutto: il punto è che oggi – è questa l’ipotesi che si tratta di precisare e discutere – lo Stato nazionale si presenta come radicalmente incapace (tanto più in condizioni come quelle di un piccolo Paese periferico come l’Italia) di articolare politiche sociali ed economiche “progressive”, come in parte è avvenuto in altre epoche storiche (nel tempo dello Stato sociale in Occidente o dello “sviluppismo” in alcune aree del Sud del mondo). La ricomposizione della coesione e della stabilità sociale attorno allo Stato e alla nazione passa necessariamente attraverso chiusura, autoritarismo e razzismo, attraverso la drastica riduzione degli spazi di libertà e uguaglianza – con misere contropartite sotto il profilo delle politiche sociali (la derubricazione del reddito di cittadinanza proposto dal Movimento 5 Stelle a un sussidio di 300 euro al mese per quattro milioni di persone assume qui carattere esemplare), e sempre con un’accentuazione di gerarchie e con un portato di discriminazione dei soggetti di volta in volta costruiti come “anormali”. Non si tratta di escludere in linea di principio che lo Stato (o parte delle sue strutture) possa essere conteso, attraversato e appropriato dalla politica radicale, in condizioni che occorre di volta in volta valutare. Ma quel che dobbiamo rifiutare, costruendo da subito esemplificazioni alternative, è una politica centrata attorno allo Stato, così come viene oggi ossessivamente proposta nel dibattito a “sinistra” non solo in Italia, ma anche in molti Paesi europei e altrove nel mondo. In questo senso l’articolazione tra una politica di classe (rinnovata nel senso che schematicamente indicavo) e una politica degli spazi è davvero fondamentale. Due questioni emergono qui come decisive: la reinvenzione dell’internazionalismo e la capacità di rilanciare la questione europea, in forme che facciano i conti con la radicale crisi del processo di integrazione che vediamo dispiegarsi sotto i nostri occhi. Altri compagni ne parleranno questa sera – nello spirito di quella navigazione in mare aperto che ci occuperà nelle prossime settimane e nei prossimi mesi.

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