di ALISA DEL RE.

questo testo è stato pubblicato sul n. 51 della rivista “Alternative per il Socialismo”, che ringraziamo

Negli ultimi anni è esploso a livello mondiale un movimento femminista con lotte che sembrano a tutt’oggi inarrestabili: lotte declinate singolarmente nei territori contro legislazioni patriarcali, per maggiori spazi di libertà, per un azzeramento delle pratiche di sfruttamento dei corpi e con una partecipazione estesa alle grandi manifestazioni globali. Le parole d’ordine di Non una di meno come il #metoo e il #wetogether hanno scatenato la possibilità per le donne di tutto il mondo di svelare i rapporti di potere tra i sessi, la brutalità e la violenza di questi rapporti, hanno acceso una luce vivida nella penombra dei rapporti interpersonali e sociali, tenuti finora nascosti dalla passiva accettazione dei ricatti culturali.

Il superamento della prospettiva acritica e sostanzialmente “essenzialista” di una “sorellanza universale” di donne in quanto donne con l’emergere di posizioni contrapposte su temi quali il transessualismo, il queer, la prostituzione, la pornografia o la gestazione per altri, per non menzionarne che alcuni, ha creato nel movimento un pluralismo per molti versi salutare e arricchente. Ma l’elemento più interessante riguarda la proclamazione da parte di Nudm di due giornate di sciopero globale dal lavoro produttivo e dal lavoro riproduttivo – 8 marzo 2017, 2018 – contro la subordinazione violenta delle donne nel sistema neo liberista odierno. Mettere insieme due sezioni della “forma lavoro” mantenute separate dalle analisi correnti sul lavoro è stata un’operazione importante, che ha evidenziato come l’emergere di nuove soggettività imponga una struttura diversa delle lotte e un terreno più complesso rispetto alle lotte di fabbrica, terreno che comprende contratti precari, lavoro invisibile, intermittente, informale, gratuito, migrante e l’uscita dall’isolamento del lavoro riproduttivo per trasformare il #metoo in #wetogether.1

Lo sciopero globale femminista

Solo la determinazione delle donne è stata capace di reinventarsi e di organizzare uno sciopero globale. Invadere le strade di tutto il mondo, unite dalle stesse parole d’ordine, in un mondo che impone sempre più aspramente la chiusura delle frontiere ha dimostrato che la risoluzione delle donne supera i confini.

All’obiezione che lo sciopero non sarebbe stato uno strumento adatto, che era simbolico e che non apparteneva ai percorsi femministi, si è risposto con la memoria dello sciopero del 1975 in Islanda2, tanto per fare un esempio. Ma si può tranquillamente affermare che la diminuzione delle nascite in atto e in periodi pregressi, particolarmente evidente in momenti di crisi e di incertezze economiche, deve essere ascritta ad uno sciopero della maternità usato dalle donne per segnalare il rifiuto di condizioni inadatte ad una prospettiva di vita decente.

L’obiettivo dello sciopero femminista è stato la trasformazione radicale della società: contro la violenza economica, la precarietà e le discriminazioni per sovvertire le gerarchie sessuali, le norme di genere, i ruoli sociali imposti, i rapporti di potere che generano molestie e violenze. Le rivendicazioni più importanti sono state: un reddito di autodeterminazione, un salario minimo europeo, un welfare universale, garantito e accessibile, autonomia e libertà di scelta sui corpi e sulle vite, contro la violenza del razzismo istituzionale e dei confini.

Ma scioperare è sempre una grandissima sfida, soprattutto oggi perché ci si scontra con il ricatto di un lavoro precario, di un permesso di soggiorno, di un lavoro informale e invisibile. Vengono messe a nudo le difficoltà che si presentano quando l’azione politica incrocia le vicende sessuali e l’incidenza del potere e del denaro nelle singole vite, oltre all’asimmetria delle forze in gioco. Inoltre la violenza simbolica e quella quotidiana e reale riguardano soggettività diverse con cui fare i conti.

La proclamazione dello sciopero ha posto in evidenza quindi diversi problemi, ma in particolare ha rivelato la rigidità dei bisogni riproduttivi e la necessità di rendere più esplicita l’interconnessione tra vita e lavoro, tra vita e sfruttamento: ha messo al centro delle analisi il lavoro riproduttivo e le sue caratteristiche complesse. Il femminismo con le sue lotte ha fatto emergere il lato B dell’estrazione del plusvalore dalla vita. Ma questo lato oscuro necessita, particolarmente oggi, non solo di essere messo in luce ma anche di essere conosciuto nella sua interezza, compresi gli elementi di contraddittorietà che lo caratterizzano.

La domanda da fare è: come si può scioperare da un lavoro d’amore (emozionale)? Come si può scioperare se i destinatari del lavoro sono nostri cari e i loro bisogni sono rigidi e vitali? È importante conoscere gli elementi che costituiscono il lavoro di riproduzione e vedere che rapporto hanno con il mercato e con lo sfruttamento, dentro quadri culturali in cui questi elementi annegano nelle dinamiche della responsabilità personale e nella ricerca di una felicità rappresentata dall’adattamento a dei ruoli predefiniti. Un metodo politico di conoscenza è l’inchiesta, già usata nel passato per la costruzione di lotte operaie.

Inchiesta e lavoro di riproduzione

Quando Marx nel 1866 propose ai delegati del consiglio centrale provvisorio dell’associazione internazionale dei lavoratori una “inchiesta statistica sulla situazione delle classi lavoratrici”3 l’intento era di strutturare una conoscenza approfondita dei meccanismi di sfruttamento, mettendosi alla pari con le conoscenze dei padroni e di sviscerare gli elementi strutturali dei rapporti capitalistici di produzione dati spesso per scontati. L’obiettivo politico di accelerare la consapevolezza dei lavoratori – e dei quadri di partito – su questi temi era la conseguenza dell’indagine, e si otteneva non per mezzo dell’inchiesta in sé, ma grazie alla struttura preesistente della I Internazionale nel 1866 e del Partito operaio francese in seguito.

Nell’inchiesta non si trova quasi nulla che riguardi il costo (o il tempo) di “produzione domestica” di questi beni, dei quali viene richiesto solo il prezzo di mercato. Eppure era evidente che per il capitale la sussistenza doveva costare il meno possibile: quindi ridurre a zero il costo del lavoro di riproduzione (dell’utilizzo e della trasformazione di questi beni) affidandolo ad un “lavoro d’amore” – quello delle mogli, madri o figlie – era un modo efficace per tenere bassi i salari e contribuire al processo di accumulazione.

Il rilancio dell’inchiesta operaia, teorizzato e praticato in Italia dai “Quaderni Rossi” all’inizio degli anni ’60 coniuga un’analisi delle specificità del “neo-capitalismo” – il capitalismo fordista – con la proposta di una linea politica incentrata sull’antagonismo irriducibile della classe operaia della grande industria. Ma nel corso degli anni ’70 l’inchiesta militante (in particolare la pratica della conricerca teorizzata da Romano Alquati)4, condotta fuori dai luoghi di produzione tenderà a sciogliere quell’unità di conoscenza e opposizione sulla quale si era basato il metodo insieme analitico e politico dell’operaismo. La pratica politica dei gruppi e dei movimenti (in primis il movimento femminista), d’altro canto, politicizzando la vita quotidiana e l’investimento sul corpo, comincerà a sperimentare nelle lotte quello spostamento del conflitto nella sfera della circolazione del quale proprio Tronti e Negri forniscono la teoria, con la divisione tra forza-lavoro (oggetto del marxismo come scienza) e classe operaia (soggetto del marxismo come rivoluzione).

Nel passaggio dall’operaismo militante ai gruppi femministi negli anni ’70 emerge in Italia tra le femministe radicali di formazione marxista l’analisi legata alla struttura della giornata lavorativa e alla dimensione di autonomia all’interno della vita complessiva delle donne. Partendo dalla definizione marxiana della forza lavoro: “merce speciale che è contenuta soltanto nella carne e nel sangue dell’uomo”5 il femminismo marxista definisce “lavoro” anche quell’attività gratuita di riproduzione degli individui e della specie storicamente attribuita alle donne (ai ruoli “femminili”)6.

La base di partenza non è ideologica, ma, mutuata dalla pratica operaia, si articola in lotte connesse a bisogni immediati di liberazione. La traslazione dalle lotte di fabbrica per la salute, per gli aumenti salariali uguali per tutti, per i trasporti gratis, si struttura nella richiesta di servizi sociali e di una ridefinizione del welfare legata al riconoscimento di problemi materiali concreti e immediati, costitutivi del lavoro di riproduzione della forza lavoro7. Presentando la famiglia come una componente tenuta nascosta dell’economia, le teoriche femministe hanno mostrato che le sfere del lavoro e della famiglia, anziché essere autonome l’una dall’altra, si dispongono in un continuum.8 Il lavoro domestico privato gratuito è definito quindi come socialmente necessario, produttivo, in grado di costituire per il capitale un plusvalore indiretto, anche se sembra produrre solo valore d’uso.

La rivendicazione del “salario al lavoro domestico” deriva dalla volontà di rendere visibile il lavoro domestico come sforzo produttivo e, al tempo stesso, per sottolineare che non si tratta di qualcosa legato alla “natura femminile” o ai ruoli precostituiti (dopo tutto, è solo lavoro).

Con ciò si afferma che produzione di merci e riproduzione delle persone appartengono a due ambiti interrelati e non è possibile definire un confine netto tra i due settori soprattutto al giorno d’oggi, quando la produzione capitalista ha invaso la vita, e quindi la riproduzione. In essi il capitale gerarchizza e organizza le attività umane al fine della propria riproduzione, sviluppando il legame in due sensi: il primo, più chiaro, è quello già descritto della produzione diretta di valore, il secondo è quello in cui le qualità della cura come produttrice di valore entrano nel lavoro salariato di produzione di merci e servizi.

Ma le effettive dimensioni del lavoro di riproduzione, che diventa sempre più complesso perché in parte socializzato e perché aumentano le aspettative sulla qualità della riproduzione degli individui, non sono chiare: il metodo teorico marxiano dell’inchiesta diventa necessario per capire come e su quale terreno le soggettività possono riuscire ad esprimere con le lotte il desiderio di cambiamento.

Il metodo dell’inchiesta femminista sul lavoro riproduttivo: il partire da sé. Lavoro elementare, lavoro di riproduzione, lavoro di cura

Il metodo dell’inchiesta femminista su questo tipo di “lavoro” è stato fin dall’inizio il “partire da sé”, senza delegare ad altri il patrimonio di conoscenze che le donne hanno della riproduzione e della cura, senza inoltre nasconderlo dietro le fumosità dei “ruoli naturali”, della famiglia, del “privato”, dell’amore e della felicità domestica.

Il partire da sé relativamente al lavoro di riproduzione degli individui permette di chiarire il modo in cui i bisogni vengono definiti, e sulla base di questo, la posizione di coloro che forniscono assistenza e di coloro che la ricevono. Viene alla luce la responsabilità dei soggetti a cui è attribuita la funzione di riproduzione, in rapporto al mantenimento o all’esternalizzazione dal privato – dalla famiglia – e al trasferimento (salariato o meno) di molte delle sue funzioni al mercato.

L’inchiesta femminista non si colloca, come quella operaia di Marx, all’interno di strutture organizzative (sindacali o politiche), è piuttosto il frutto della produzione di soggettività delle lotte femministe nel mondo, con un riconoscimento internazionale del peso del lavoro di riproduzione e della violenza con cui è imposto.

Una prima verifica consente di scomporre in diverse fasi il lavoro di riproduzione, basandosi sulla descrizione delle caratteristiche del lavoro, sui soggetti che lo svolgono, sui beneficiari e sulle possibilità di ricorrere al mercato sottraendolo alla gratuita responsabilizzazione del suo svolgimento.

La fase più semplificata del lavoro di riproduzione9, e che tende ad essere utilizzata come definizione generale, è quella del lavoro domestico, ciò che gli economisti chiamano “lavoro elementare”10, cioè quegli atti che servono a sopravvivere: pulire, lavare, cucinare, fare la spesa, ecc. Il lavoro elementare è il più semplice, il più socializzabile, il più trasferibile, tradizionalmente attribuito alle donne, non è mai stato in maniera esclusiva gratuito o scambiato per segno d’amore: nella storia più recente le classi abbienti e la borghesia hanno sempre assegnato alle domestiche il lavoro elementare.

Il lavoro di riproduzione è il lavoro che serve a riprodurre la specie: non è solo fare figli, ma è crescerli, creare le condizioni indispensabili per la continuità della vita. Esso ha a che fare con le persone dipendenti. Già nel suo aspetto basilare generativo dell’umanità è entrato prepotentemente nel mercato con vendita di ovuli, affitto di uteri, compravendita di pezzi di corpi. Chiaramente ingloba il lavoro elementare, ma è anche qualcosa di più. Non si rivolge a un indistinto universo di soggetti, ma a coloro che da soli non ce la farebbero, e non solo per incapacità fisiche o mentali, cioè relativi all’età (bambini e vecchi) o a stati di malattia, temporanei o perduranti nel tempo; ma anche a persone assolutamente in grado di riprodursi, che però non hanno il tempo o la voglia di farlo, sia a causa dell’organizzazione del lavoro salariato, sia per convenzioni sociali che costruiscono ruoli specifici per la riproduzione degli individui. Per una parte di questo lavoro si può ricorrere al mercato, con forme contrattuali individuali (si pensi ad esempio alle badanti) oppure ai servizi del welfare, quando ci sono e offrono una qualche garanzia, e in piccola parte anche ai servizi di volontariato sociale.

Negli ultimi anni, con l’estensione della crisi delle disponibilità finanziarie degli stati e l’aumento della circolazione dei flussi migratori, si assiste ad uno spostamento della parte salariata del lavoro di cura dal welfare statale al mercato, con forme di socializzazione parziale nel territorio dovuta a singole iniziative di cooperazione sociale.11 Ciò è dovuto al fatto che la riproduzione degli individui dipendenti ha rigidità intrinseche ineliminabili dovute all’aumento della speranza di vita, alla maggiore attenzione alla qualità della vita delle giovani generazioni e all’aumentata presenza delle donne nel mercato del lavoro salariato. Oggi, anche nei periodi di crisi è difficile riportarle nel chiuso delle case a fare lavoro gratuito dopo aver sperimentato la relativa indipendenza data dal salario.

Il lavoro di cura, o “affettivo” invece, ha a che fare con le relazioni, con la continuità dei rapporti, con l’affetto, con il sesso. Per quanto riguarda il sesso mi pare evidente che una parte di questo venga delegato al mercato, come nel caso delle sex workers e delle sex aids. In generale è quella sezione del lavoro riproduttivo che sembra meno “lavoro”, quella che non dovrebbe poter essere “contrattualizzata”. Le peculiari caratteristiche di questo lavoro oggi sono state travasate dalle pieghe del privato anche nel mercato, non diventando lavoro salariato, ma facendone parte integrante ed essendo sussunte dalla forma del lavoro richiesta da quest’ultimo. Nell’organizzazione del lavoro salariato, infatti, particolarmente nei servizi alla persona, sempre di più spesso vengono richieste disponibilità di questo tipo. Qualità richieste maggiormente nei settori a prevalente occupazione femminile, ma che si stanno estendendo a tutte le forme di lavoro che richiedono relazione, fino ad imporre adesione, partecipazione emotiva e affettiva e identificazione con la “merce”, “l’azienda”, il “prodotto”, il “marchio/brand”.

Neoliberismo: la sussunzione della cura

L’ingresso nel mercato della sfera più intima dei rapporti, quella affettiva, si ha in primo luogo con l’esternalizzazione di tutta una serie di lavori un tempo svolti per amore, primo tra tutti il lavoro di cura destinato ai bambini, agli anziani fragili, ai malati. Così la riproduzione viene riconosciuta come lavoro, anche se si tratta ancora di un lavoro fortemente stratificato in termini di genere, in quanto riguarda nella maggior parte dei casi donne chiamate a svolgere il “lavoro” di altre donne.

Visto dal lato del mercato si tratta di sottolineare il trasferimento delle qualità particolarmente attribuite al lavoro di cura a molte e differenziate forme del lavoro. Quando si accudiscono famigliari o si lavora in settori come quello della cura, si presume che gli individui manifestino una serie di comportamenti, motivazioni e competenze speciali; l’atteggiamento che ci si aspetta è quello della protezione, della cooperazione, dell’emotività e dell’altruismo. Si dà per scontato che si debbano emanare affetto ed empatia. Spesso si risponde semplicemente ad un’aspettativa sociale.

Queste qualità “femminili”, o del lavoro di riproduzione, oggi sono richieste a largo raggio nel mercato, perché la società è diventata una società di servizi, la produzione di merci si è rarefatta, richiedendo sempre di più competenze che esulano dalla forza fisica e dalla rigidità degli atti ripetitivi. La richiesta dell’immissione qualitativa di fattori emotivi e socializzanti, motivazionali ed affettivi risponde all’esigenza di controllo sul lavoro e sulla produttività altrimenti di difficile realizzazione. Sono caratteristiche, vorrei sottolinearlo, che non sono contrattualizzabili (come si fa a mettere in un contratto l’attenzione, la sensibilità, l’interesse?) e che implicano la necessità di una individualizzazione del rapporto di lavoro12. In ogni caso, il processo di “femminilizzazione del lavoro” richiede a tutti i lavoratori/trici queste qualità che diventano “costitutive” del lavoro in una società della conoscenza e della “relazione”.

L’inchiesta sul lavoro di riproduzione ci porta a questa prima considerazione: «le condizioni che circondano il lavoro delle donne evidenziate dalle femministe oggi sono diventate condizioni generali del lavoro».13

Da un lato esce dal privato una parte del lavoro gratuito ed entra il lavoro salariato, dall’altro nelle aziende vengono richieste le caratteristiche peculiari del lavoro di riproduzione, come la dedizione e le capacità relazionali. Le nuove qualità richieste dai lavori nel neoliberismo ricalcano il modello flessibile, accudente, cooperativo dei lavori della riproduzione: il passaggio è dal “lavoro d’amore” all’amore per il lavoro, saltando i confini dei tempi, dei luoghi e delle pratiche che separavano il lavoro gratuito dal lavoro salariato.14

Se la narrazione romantica del matrimonio eterosessuale è servita per molto tempo a giustificare sia il lavoro domestico gratuito che le relazioni disuguali nel patriarcato, nelle aziende del post fordismo è in atto una riproposizione autistica dello stesso accecamento: il lavoratore hobbesianamente nato come un fungo con il cappello in testa15, senza relazioni, deve affidarsi all’azienda amando il proprio lavoro, condizione per sostenere la propria occupabilità. E l’amore non chiede ricompensa, ma risponde ad una logica molto semplice e diretta: l’ingiunzione ad essere disponibile a lavorare di più e a qualsiasi condizione, spoliticizzando il lavoro e individualizzandone l’esperienza.

Capovolgendo le analisi degli anni ’70, l’inchiesta sul lavoro riproduttivo serve dunque oggi a capire le trasformazioni del lavoro salariato e le qualità richieste per svolgerlo: per rispondere alle aspettative affettive verso il proprio lavoro bisogna amare l’azienda.16

Quale salario può riconoscere queste nuove condizioni di lavoro? Il reddito di base incondizionato e la socializzazione della riproduzione.

Le qualità del lavoro di riproduzione proprio perché legate alla vita e alla riproduzione della stessa, al corpo nella sua interezza, hanno la caratteristica di essere incommensurabili e quindi difficilmente possono essere trasformate nel mercato in salario (quanto vale un sorriso?). Due cose da rilevare, la prima è che la giornata lavorativa senza limiti è la tipica giornata lavorativa di chi svolge lavoro di riproduzione degli individui; la seconda è data da una ulteriore traslazione, e cioè l’adattamento individuale richiesto all’identificazione della vita con il lavoro o del lavoro con la vita, come atto costitutivo dell’esistere come soggetto: esattamente ciò che è avvenuto per le donne per il lavoro di riproduzione e di cura.

Se ciò è vero, diventa impensabile una contrattazione salariale per elementi non contrattualizzabili e sovente invisibili, ma costituenti le qualità della forza lavoro richieste dal mercato: il reddito di base incondizionato diventa un modo per riconoscere questa nuova forma di fare lavoro con una ridistribuzione della ricchezza prodotta che soddisfi i bisogni della vita. Il capitalismo liberista (post fordista), rimuovendo i confini tra pubblico e privato e mettendo a profitto la vita con inedite forme di investimento sul corpo e sulla vita emotiva e affettiva, obbliga a questo tipo di soluzione, rapporti di forza permettendo, che però non può essere meramente economica perché non risolve tutte le pratiche che costituiscono i soggetti nei rapporti di dominazione, sfruttamento e produzione di soggettività.

Se queste riflessioni investono un modo di pensare la politica che parta dai bisogni, dalla corporeità, dal rapporto di dipendenza di tutti noi con l’ambiente naturale e sociale, dalle condizioni materiali che rendono possibile la riproduzione sociale, attraverso il riconoscimento di una comune vulnerabilità, allora l’inchiesta sulla riproduzione mostra un ulteriore aspetto, che è quello della rigidità dei bisogni delle persone e della conseguente rigidità del lavoro riproduttivo. Nel frammento sulle macchine dei Grundrisse, Marx ipotizza una sostituzione futura del lavoro produttivo da parte delle macchine17, ma è evidente, per tutto quello che abbiamo detto sulle qualità di questo lavoro, che le macchine non possono sostituire la maggior parte del lavoro di riproduzione. Si tratta infatti di un lavoro speciale che, sussumendo come condizione fondamentale la relazione e la complessità dei rapporti, implica il disconoscimento della figura neoliberista dell’individuo imprenditore di sé stesso (e anche l’idea hobbesiana dell’uomo-fungo), tenendo presente che quest’ultima formulazione include anche il fatto che spesso gli individui non sono messi in condizione di riconoscersi come soggetti dipendenti.

Naomi Klein osserva che prendersi cura, delle persone e delle cose, è un concetto assolutamente radicale.18 L’inchiesta sul lavoro riproduttivo non solo colma una lacuna dal punto di vista della conoscenza dei meccanismi di sfruttamento capitalistico, ma permette di individuare le ragioni delle nuove soggettività che si presentano nei campi della resistenza e della trasformazione e permette di allargare l’orizzonte del cambiamento dello stato presente.

L’inchiesta operaia marxiana prevedeva il contatto e la conoscenza con i soggetti della produzione per la costruzione di un progetto politico e organizzativo. Allargata alla riproduzione, oltre a rivelare la densità dei diversi soggetti all’interno del processo di accumulazione e a costituire un adeguamento della conoscenza all’interno degli sviluppi attuali del capitalismo, l’inchiesta impone una nuova prospettiva più totalizzante e una inedita progettualità per nuove forme di convivenza accettabili al di fuori e contro i tempi e gli spazi del lavoro salariato, costruendo forme di cooperazione sociale, di relazione e di socializzazione, ma resistendo ai rischi di una concezione oblativa della cura o di una cooperazione improntata alla gratuità.

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  1. Infatti l’obiettivo proclamato dell’8 marzo 2018 è stato: “La giornata dell’8 marzo sarà sciopero femminista, sciopero dal lavoro produttivo e riproduttivo, dai generi e dei generi e il #wetoogether non sarà solo uno slogan.” Cfr. sVademecum per lo sciopero 8 marzo 2018

  2. Il 24 ottobre del 1975 si svolse lo Sciopero delle donne islandesi per dimostrare quanto fosse indispensabile il lavoro delle donne per l’economia islandese e la società e per protestare per la disuguaglianza salariale e le ingiuste condizioni lavorative. Le partecipanti non andarono a lavorare, né svolsero il lavoro casalingo, né si occuparono dell’educazione dei figli per tutta la giornata. Il novanta percento della popolazione femminile partecipò allo sciopero. Per lo sciopero della maternità, segnaliamo di Francois Ronsin, La grève des ventres, Aubier, 1980. 

  3. La proposta dell’inchiesta statistica è stata pubblicata nel 1867 (11 punti), poi ripresa nel 1880 per il POF e articolata in 100 domande. Cfr. Karl Marx, L’inchiesta operaia in Archivio Marx-Engels, www.marxists.org 

  4. Per le tematiche della conricerca e dell’inchiesta militante cfr. in particolare: Romano Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1975; Guido Bianchini, Sul sindacato e altri scritti, Edizioni Quaderni del Progetto, Padova 1990; Antonio Negri, “Logica, teoria dell’inchiesta. La prassi militante come soggetto e come episteme”, in Guide. Cinque lezioni su impero e dintorni, Raffaello Cortina Editore, Milano 2003; Antonio Negri, Dall’operaio massa all’operaio sociale. Intervista sull’operaismo (a cura di Paolo Pozzi e Roberta Tomassini), ombre corte, Verona 2007 (prima edizione 1979). 

  5. K. Marx, Il Capitale, Roma, Editori Riuniti, 1956, 1, I, pp. 186-189. 

  6. Tutto un filone di femminismo marxista italiano (penso a Mariarosa Dalla Costa, ad Antonella Picchio, io stessa ed altre) aveva definito già negli anni ’70 la riproduzione delle persone un lavoro. All’inizio del 2012, una sentenza del giudice del lavoro di Venezia, Margherita Bortolaso (non a caso una donna) ha definito una casalinga “lavoratrice non dipendente” concedendo al marito il congedo parentale per la cura dei figli in quanto “entrambi i coniugi lavorano”. Il marito, poliziotto, si era visto negare questo permesso dal suo datore di lavoro, il Ministero dell’Interno, di qui la causa di lavoro. Quindi, la definizione del lavoro domestico come lavoro, e della casalinga come lavoratrice, oggi ha anche una sanzione giuridica. Un’idea che ha fatto strada. 

  7. Cfr. Lucia Chisté, Alisa Del Re, Edvige Forti (1978- 1979), Oltre il lavoro domestico, Milano, Feltrinelli. 

  8. La famiglia viene definita come luogo primario del lavoro riproduttivo necessario al lavoro produttivo e come meccanismo attraverso il quale i salari vengono distribuiti ad alcune figure marginali o tagliate fuori dal mercato del lavoro. 

  9. Una prima stesura di questa analisi si trova in Alisa Del Re “Workers’ Inquiry and Reproductive Labor” in Viewpoint magazine.com, 30.09.2013, qui

  10. Cfr. Boeri, T., Burda, M.C. and Kramarz, F. (eds.), Working Hours and Job Sharing in the EU and USA, Oxford University Press, 2007. 

  11. Cfr. Brunella Casalini, Il femminismo e le sfide del neoliberismo. Postfemminismo, sessismo, politiche della cura, IfPress, 2018. Inoltre possiamo pensare ad esperienze di socializzazione della cura assai diffuse come le “badanti di condominio”, o le “portinerie di quartiere”. 

  12. Questa esigenza la si ritrova nella richiesta diffusa da parte dei sindacati padronali di passaggio da una contrattazione nazionale ad una contrattazione aziendale, per non dire individuale. 

  13. Lisa Adkins, Eeva Jokinen “Introduction: Gender, Living and Labour in the Fourth Shift.” NORA-Nordic Journal of Feminist and Gender Research 16 (3), 2008, p. 142. 

  14. Cfr. Kathi Weeks “Down With Love: Feminist Critique and New Ideologies of Work” in WQS: Precarious Work», 45, 3-4, Fall/Winter 2017. 

  15. Thomas Hobbes nella sua opera De cive (Il cittadino), del 1642, descrive lo stato di natura come formato da uomini (uomini, non donne) considerati astoricamente come spuntati fuori dalla terra come funghi e giunti a piena maturità senza relazioni l’uno con l’altro. 

  16. Il welfare aziendale – ultima frontiera del rapporto produzione/riproduzione – ha questo scopo preciso. Per un approfondimento critico cfr. Alessandra Vincenti, Le famiglie e i nuovi strumenti di protezione sociale: il welfare aziendale, qui

  17. Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, cit. pp. 389-411. 

  18. Laurie Penny “Prendersi cura degli altri è la rivoluzione secondo Naomi Klein” New Statesman, Regno Unito, 2017, qui