Di ANTONIO NEGRI. 

Perché ho scelto quest’argomento, «Lenin visto da Marx», per rispondere alla domanda di discutere il “Lenin dei filosofi”? Perché quando guardavo a quei filosofi che conoscevo e amavo come Lukacs o Gramsci o Althusser, mi sono accorto che sovrapponevano Marx e Lenin quasi automaticamente – in maniera entusiasta e pragmatica. D’altro lato anch’io, quando considero l’altra parte di me stesso, il militante, rispetto al filosofo che umilmente sono, non riesco immediatamente a separare Lenin da Marx. Il “marxismo-leninismo” fu cosa indissolubile nella Bildung comunista del XX secolo. E allora mi sono chiesto: come avrebbe Marx guardato a Lenin? Se il “marxismo-leninismo” che abbiamo conosciuto nel secolo scorso, è divenuto un’atroce farsa dogmatica – gli stessi Marx e Lenin ce lo concederebbero – essi stavano comunque insieme nella testa di compagni che le rivoluzioni le hanno fatte: come ha potuto avvenire? Vorrei dunque guardare Lenin, colui che la rivoluzione l’ha fatta, dal punto di vista di Marx, di colui che la rivoluzione l’ha pensata, e lo farò dal mio punto di vista, convocando altri marxisti di tanto in tanto ad accompagnarmi.

Come procedere? Mi è sembrato utile seguire due vie. Nella prima farò il tentativo di svolgere il confronto Marx-Lenin in un quadro sincronico, guardando in un solo specchio come se essi affrontassero questi cinque problemi (è il massimo che mi sentivo di discutere in maniera sommaria nel tempo che mi è concesso): 1) come si confrontavano al materialismo ed alla dialettica? 2) ed alla fabbrica? Cioè al lavoro vivo ed all’organizzazione del lavoro? 3) ed al mercato mondiale e all’imperialismo? 4) ed allo Stato? 5) ed alla definizione del comunismo?

La seconda via, politica, del confronto consisterà nel chiedersi se, guardando la cosa da Marx, nella tendenza rivoluzionaria della lotta di classe Lenin costituisca (o no ?) un momento di realizzazione del programma comunista.

Cominciamo dunque dal materialismo e dalla dialettica: in che maniera potrebbe Marx considerare l’approccio leniniano alla dialettica materialista come strumento logico-pratico di trasformazione della realtà? In Marx la dialettica, come sappiamo, è una cosa complessa. “Differente”, perché, se è vero che Hegel non è un “cane morto”, è anche vero che la dialettica marxiana “rimessa in piedi” prende ampiamente le distanze dalla tradizione dialettica: essa è infatti un’ontologia del lavoro vivo – dove il lavoro vivo, esprimendosi nella soggettivazione di classe, cooperando e resistendo allo sfruttamento capitalista, produce e riproduce in forme antagoniste il mondo della vita. Quella di Marx è dunque una dialettica “costitutiva” e non sublimante, una dialettica di antagonismo e non di Aufhebung: la si assume qui non in termini kojeviani (di riconoscimento e di emancipazione) ma in termini materialisti di soggettivazione antagonista e di lotta di classe. La dialettica marxiana stringe così le forze produttive e i rapporti di produzione e riconosce nella relazione capitalista che li lega, le leggi di un ordine stolto ed ingiusto, organizzato sullo sfruttamento nel produrre e sulla gerarchia nella gestione del potere. Allo stesso tempo, il materialismo marxiano è costituito nella storicità e permanentemente rinnovato dalla lotta di classe – dove la dialettica si presenta nella forma di un antagonismo che distribuisce le consistenze dell’essere reale. Dentro questi intrecci e questi scontri si forma un paesaggio nel quale si sviluppano insieme, da un lato, figure materiali del comando e dello sfruttamento e, d’altro lato, produzioni di soggettività – resistenti ed innovatrici, rivoluzionarie. Questa definizione dell’azione dialettica vale per Marx (senza interruzione) dagli scritti giovanili, attraverso gli scritti storici, fino ai Grundrisse ed all’opera intera su Il Capitale.

Come si confronta Lenin a questa ontologia dialettica della lotta di classe? In maniera assai laboriosa. La cultura socialista dalla quale egli nasce e di cui è imbevuto, è materialista in senso classico: empirista, positivista (con qualche scivolamento darwiniano) e soprattutto etica, illuminista. Del marxismo, il giovane Lenin assorbe il metodo sociologico, la capacità di analisi della «formazione sociale», il gusto per la determinazione dell’oggetto e per la sua astrazione: nulla di particolarmente dialettico. «La scienza deve muovere da ciò da cui muove la storia reale. Lo sviluppo logico delle determinazioni teoriche deve quindi esprimere il processo storico concreto del divenire e dello sviluppo dell’oggetto. La deduzione logica non è che l’espressione teorica del divenire storico reale della concretezza indagata»: così riassume Ilienkov. E questo iniziale impianto è confermato, nella prima maturità di Lenin, nella polemica contro gli «otzovisti» e gli empiriocriticisti – il loro kantismo metodologico (fermo ai risultati dell’ «Estetica trascendentale»), l’idealismo che completa il loro discorso (uno sforzo per recuperare valori popolari da integrare al materialismo epistemologico), il conclusivo dualismo ripugnano a Lenin. Ma deve riconoscere di esserne stato lui stesso implicato: in qual modo avrebbe potuto infatti combinare nel suo rozzo materialismo giovanile un disegno politico che pretendeva l’ “indipendenza” per l’avanguardia di classe operaia, se non in base ad una sorta di sintesi di positivismo sociologico e di avanguardismo etico-politico? Non c’era, in quel primo esperimento teorico leninista una esplicita assenza di dialettica? E ancora, nel Che fare?, la teoria del partito non sarà debitrice di un materialismo sperimentale e sociologico, anche se ormai del tutto privo di ogni risonanza neo-kantiana e dualistica? E non sarà ancora quest’assenza di dialettica del tutto evidente, ad esempio, nella sottovalutazione dell’esperimento dei soviet nella rivoluzione del 1905? E non è quest’assenza di dialettica che correttamente gli rimproverano Luxemburg e Trotzky?

In questi momenti, appunto in riferimento alla prima esperienza politica del «soviet»,  si può ancora notare quanto la critica leniniana sia lontana dalla dialettica marxiana della «necessità-possibilità», così straordinariamente utilizzata nella storia delle Lotte di classe in Francia e nel 18 Brumaio. In Lenin, infatti, manca quella dimensione genealogica che in Marx domina la narrazione della lotta di classe – fosse essa pur sconfitta politicamente e schiacciata fisicamente. «Ben scavato, vecchia talpa!», detto da Marx dopo una pur gloriosa sconfitta operaia, è un’esclamazione che in Lenin non potremmo udire che dopo il trionfale Ottobre del ’17. Mentre invece troviamo prima, in Lenin, «l’inevitabile» trasformarsi della tragedia bellica in insorgenza rivoltosa, «il necessario» irrigidirsi delle forze controrivoluzionarie (ed anche socialdemocratiche) dopo il Febbraio, ecc. – dove all’analitica marxiana della genesi e della possibilità è contrapposta, in Lenin, un’appassionata (ma talora fredda) determinazione concreta del momento politico. Che questa determinazione non abbia comunque nulla a che fare e che non possa esser confusa con romantiche teorie della decisione carismatica e dell’evento eccezionale, lo vedremo più sotto.

Quando, all’inizio del 1917, la rivoluzione si avvicina, diviene possibile che Lenin legga, a modo suo, la Scienza della logica di Hegel – questa volta, supponiamo, sotto gli occhi benevoli di Marx. Tre ordini di problemi gli si squadernano innanzi: in primo luogo, la scoperta di una chiave definitoria di una dialettica del reale – Lenin scopre qui «il «sorgere immanente delle differenze – e cioè, la logica interna, oggettiva dell’evoluzione e delle lotte delle differenze polarizzate». In secondo luogo, la dialettica come strumento di riduzione della complessità e di innovazione del reale – se la «natura facit saltus», la critica hegeliana della gradualità storica deve essere fortemente apprezzata. E qui – fondamentale – ecco il terzo tema: la scoperta teorica della soggettivazione. Lenin procede dal commento della «Dottrina del concetto» della Logica hegeliana, per concludere: «la verità è un processo. Dall’idea soggettiva l’uomo perviene alla verità oggettiva attraverso la prassi»… e la prassi soggettiva qui emerge come specificazione della dialettica, in quanto essa va oltre – comprendendola – la concezione dell’essenza come connessione e mediazione: la prassi è il motore della determinazione della verità.

Al contrario di quanto, leggendo i Quaderni hegeliani di Lenin, sostiene Althusser. Egli infatti nega che qui, in Lenin, si dia sintesi fra lo «spinozismo» materialista inerente all’epistemologia ed il volontarismo pragmatico dell’esperienza rivoluzionaria. Marx (contro Althusser) lo riconoscerebbe invece, perché in Lenin la conquista dell’unità del punto di vista dialettico consiste non nella sintesi di un approccio teorico frastagliato, ma nella produzione di soggettivazione rivoluzionaria. La dialettica qui conquistata diviene subito un’arma, meglio, una «protesi» del soggetto rivoluzionario nelle Lettere da lontano e nelle Tesi d’Aprile. È stato questo, sulla dialettica, sul metodo, un lungo episodio dell’avvicinamento di Lenin a Marx: era stato difficile andare oltre la teoria del rispecchiamento in epistemologia, oltre il positivismo sociologico e l’avanguardismo etico-politico nel delineare la dialettica fra necessità e libertà – ma infine, in Lenin si è dato rovesciamento della sintesi di materialismo e idealismo, di empirismo e volontarismo etico attraverso la costruzione di un dispositivo produttivo di soggettività. È qualcosa che, con percorsi del tutto diversi ma convergenti, Lukacs e Gramsci ci hanno insegnato ad apprezzare e che cancella le successive, equivoche avventure dell’epistemologia staliniana. Non sarà infine inutile qui ricordare che gli scritti di Mao Tze Tung Sulla pratica e Sulla contraddizione seguono la traccia leniniana.

Sul secondo punto, Marx può invece riconoscere un’assoluta fedeltà leniniana al suo metodo: quando cioè si parla della fabbrica e dell’organizzazione della lotta di classe. Nessuno in Russia, in quegli anni, aveva letto il Capitale meglio di Lenin e meglio lo aveva tradotto sul terreno politico (ovvero nell’organizzazione).

La fabbrica sta, dall’inizio, al centro dell’analisi di Lenin, come lo era in Marx. È nella fabbrica che il concetto di capitale si scopre immediatamente come concetto di sfruttamento e di lotta di classe ed è qui che la lotta di classe operaia determina le condizioni di costruzione dell’organizzazione e del progetto comunista.

Si sa che Marx (contro ogni oggettivismo materialistico che si voglia «scientifico») pretende che la lotta di classe sia sempre studiata dai due lati: lotta di classe operaia, prima e, poi, la lotta di classe dei capitalisti contro la classe operaia. Anche in Lenin l’attenzione è sempre sui due poli – questa è la condizione dell’analisi. Trasformare le letture della lotta di classe operaia in capacità di organizzazione, predeterminando così volontà e strumenti del processo sovversivo, è il cammino marxiano seguito con estrema determinazione da Lenin. Non sarà inutile sottolineare che su questo passaggio, condizionato dalla presenza dell’avversario di classe, Marx ha insegnato che la teoria è presa di posizione necessariamente settaria, è porsi in un Kampfplatz (Althusser e Tronti l’hanno ben sottolineato). E Lenin insiste: «in tutto il mondo civile la dottrina di Marx si attira la più grande ostilità e l’odio più intenso da tutta la scienza borghese (sia ufficiale che liberale) che vede nel marxismo una specie di setta perniciosa. E non ci si può aspettare un atteggiamento diverso poichè una scienza sociale imparziale non può esistere in una società fondata sulla lotta di classe. In un modo o nell’altro tutta la scienza ufficiale e liberale difende la schiavitù del salariato mentre il marxismo ha dichiarato una guerra implacabile a questa schiavitù. Pretendere una scienza imparziale nella società della schiavitù del salariato è una stolta ingenuità, quale sarebbe pretendere imparzialità da parte degli industriali nel considerare se occorre aumentare il salario degli operai diminuendo il profitto del capitale».

Ma torniamo alla fabbrica e al quadro epistemologico ricavato da Lenin da Il Capitale, ed insistiamo sulla coincidenza del procedere di Marx e Lenin. Una coincidenza che è una reinvenzione. Risolvendo in maniera definitiva il suo debito con il materialismo positivista, Lenin reinventa – in maniera indipendente – gli elementi fondamentali della metodologia elaborata da Marx nella Einleitung («Quaderno M» dei Grundrisse del 1857 – testi che Lenin non poteva conoscere). E li rielabora in termini di soggettivazione politica ed organizzativa: il concetto di “astrazione determinata”, la prospettiva “analitica tendenziale” ed il “dispositivo pratico di costruzione del vero”. E, come Marx potrebbe riconoscere, li utilizza in maniera assai fedele. L’astrazione determina il grado di potenza della classe operaia, nella «formazione sociale» che le è propria alla fine del diciannovesimo secolo (una potenza ancora molto «limitata e fragile» – dice Lenin – ma pur sempre l’unica su cui poggiare il processo rivoluzionario): questo è l’oggetto dello studio leninista Sullo sviluppo del capitalismo in Russia. Il metodo della tendenza, in secondo luogo, permette di strutturare quella potenza «limitata e fragile» in figura di avanguardia e di capacità egemonica nel Che fare?. Infine, l’analisi e il programma sono affidati al dispositivo critico del loro accertamento pratico. Si tratta di fare della fabbrica in rivolta e dell’avanguardia che vi si è espressa, il perno del processo organizzativo rivoluzionario. Marx avrebbe riconosciuto, come Lenin fa, l’immaturità della classe operaia russa per la rivoluzione (lo presuppongono, infatti, le lettere alla Zasulic). Quanto a Lenin, qui espressamente dichiara: «il grado di sviluppo economico della Russia (condizione oggettiva) e il grado di coscienza e organizzazione delle grandi masse del proletariato (condizione soggettiva), legati indissolubilmente, rendono impossibile l’emancipazione immediata e completa della classe operaia»– ma contemporaneamente permettono, meglio, affermano la necessità di rovesciare questa consapevolezza in un movimento continuo, dove la capacità, da parte dell’organizzazione, di mantenere aperta la lotta e di assorbire nell’organizzazione ogni altro strato di popolazione sfruttata prevalga su ogni altra considerazione. Nella riflessione autocritica che Lenin sviluppa dopo e sulla rivoluzione del 1905, diviene centrale questa concezione aperta della fabbrica, ormai destinata (dall’emergere dei soviet) ad una vocazione rivoluzionaria, socialmente includente e totalizzante. La lotta di classe operaia è un torrente che deborda dalla fabbrica dove la corrente più impetuosa si è formata: l’organizzazione deve seguire.

Siamo ora nel ’17: qui, punto di vista marxiano e dispositivo politico leninista coincidono, nel rapporto continuo che stringono fra l’analisi della composizione della classe operaia nella fabbrica e (all’interno della divisione sociale del lavoro) dei rapporti antagonisti di capitale e, d’altra parte, il progetto di dare di quella composizione una figura di Partito. Fare della classe il Partito, questo è il passaggio da percorrere. Con una risoluta variante ed un punto di innovazione leninista: l’urgenza politica di riequilibrare l’ordine fra “composizione tecnica” e “composizione politica” della classe. Che vuol dire: l’organizzazione deve prevalere non solo sull’inerzia dei comportamenti della classe e sulla spontaneità delle lotte, ma deve farlo rispecchiando ed esprimendo le masse proletarie. Nessuna trascendenza organizzativa, ma incorporazione delle masse sovietiche al Partito. In quelle condizioni storiche  determinate, Marx avrebbe senz’altro approvato questa decisione.

Che si dava in una situazione ben diversa da quanto analizzato da Marx nelle sue Guerre di classe. Perché Lenin, quando la rivoluzione si annuncia, non ha difficoltà a sperimentare l’unità possibile delle masse proletarie – operai, contadini, artigiani, soldati – e non deve percorrere l’accidentato terreno sul quale esse si erano presentate a Marx sia nel ’48 e seguenti, sia nel ’70 e seguenti, con mille divisioni e progetti. Quando la rivoluzione russa scoppia, le distinzioni marxiane nell’analisi di classe sono per Lenin secondarie. Anche le difficoltà che l’unità con i contadini trova a fronte dell’accelerazione impressa al processo insurrezionale (e soprattutto al blocco settario che i “socialisti rivoluzionari” determinano), non sono mai considerate da Lenin momento di “rottura”, ma sempre e solo momento di “ritardo”. Significativo mi è poi sempre apparso il fatto che in Lenin raramente si parli di Lumpenproletariat russo. Di contro, fare della classe il Partito, riassorbire attraverso l’azione soggettiva, attraverso i soviet, la massa del proletariato nella costruzione di una «forza rivoluzionaria» e – questo questo diviene il compito che prevale su ogni altra determinante dell’agire, nelle urgenze presenti del processo di conquista del potere. E se Marx aveva condannato la debolezza teorica e l’incapacità politica di quel primo governo della classe in lotta che era stato la Comune parigina, proprio attorno alla gestione della violenza, della sua organizzazione ed uso, Lenin accentuerà la polemica ed insisterà – nello spirito di Marx – sull’urgenza di costruire la «forza». Attenzione: la forza non è la direzione ma la soggettività di massa. Come la Luxemburg, a proposito del 1905 e del 1917, non si stancherà di sottolineare.

Qui si apre tuttavia un altro problema. Esso si pone a Lenin quando, trionfando la rivoluzione in Russia, egli ne intravede l’apertura globale, lo scontro «fatale» con l’imperialismo – così come Marx aveva avvertito quando l’analisi del rapporto di sfruttamento si era aperta nel Capitale all’analisi del Weltmarkt, del mercato globale. Che cosa avviene dunque se spostiamo l’analisi e l’azione dal piano locale a quello globale?

Per Lenin, quanto avviene sta nella continuità del processo rivoluzionario. Lo schema dell’analisi sulle nuove dimensioni dello scontro è quello stesso che aveva portato alla rivoluzione russa – insistito, rafforzato. Nell’Imperialismo, la tendenza dello sviluppo capitalista (intreccio a livello globale di socializzazione dell’impresa produttiva e finanziaria del capitale, che conclude ad una «putrefazione» dei rapporti fra forze produttive e rapporti di produzione, fra classe operaia che gode dei surplus coloniali e il capitale imperialista che li estrae) si scontra direttamente con l’espansione strategica del processo rivoluzionario russo, determinata dalla crescente soggettivazione delle forze antagoniste a livello globale. Il tema politico, per la prima volta, viene così posto ben al di là di quanto dell’ «imperialismo» avessero detto Hobson o Hilferding. Così, per Lenin, lo schema performativo del progetto di lotta non muta. Certo, i caratteri “politici” e “nemici” dell’imperialismo sono rafforzati: come scriveva Luciano Ferrari Bravo, per Lenin «l’imperialismo è figura mondiale del comando politico del capitale sul lavoro: l’acutizzarsi di conflitti interimperialisti e della “concorrenza” monopolistica internazionale, lungi dal disgregare o allentare i termini di tale comando, ne costituisce anzi un momento storico di formidabile centralizzazione. Lenin non si stanca di avvertire: occorre non lasciarsi confondere dalla forma, pacifica o violenta, del processo, occorre non lasciarsi sfuggire la sua sostanza unitaria». Ciò detto, si dovrà riconoscere che, a fronte della rivoluzione sovietica, l’imperialismo viene costretto ad un «salto di qualità», che investe tutte le determinazioni dello sviluppo capitalistico, che solo dunque nel quadro dell’imperialismo trovano ora ragione e qualificazione.

E tuttavia, malgrado l’enorme importanza che la proposta del concetto di imperialismo come progetto di lotta per le masse ha avuto nella riconfigurazione del programma comunista a livello internazionale dopo la rivoluzione d’Ottobre, va subito sottolineato quale vuoto teorico questo programma copra. Un vuoto che oscura il rapporto tra la costruzione teorica dell’imperialismo come terreno di lotta e l’analisi (che manca) delle dinamiche costitutive, propositive, in questo quadro, della lotta operaia. Si assiste qui a una divaricazione massima fra l’analisi della figura imperialista del comando di capitale e l’organizzazione (e il tessuto) della lotta di classe antimperialista. Manca l’anello teorico marxiano che fin qui aveva sorretto (da dentro e da fuori, comunque ininterrottamente) pensiero ed azione di Lenin.

Vista questa difficoltà, come valutarla ripartendo da Marx? In Marx l’analisi del mercato mondiale sembra freddamente oggettiva, rispetto a quella appassionata di Lenin. La distanza che li separa è resa enorme dall’immediata prospettiva della rivoluzione mondiale nella quale si sviluppa il lavoro di Lenin. Marx, quando definisce il «mercato mondiale»  come «massimo compito storico» del capitale, è su un altro pianeta, se confrontato alla descrizione leninista del Weltmarkt come regno di un «gigantesco capitale usuraio» ed immediato terreno di una «lotta finale». E quando Marx completa a suo modo l’analisi, affrontando il tema della «crisi capitalista» (in generale, cioè sul terreno globale), anche in questo caso si differenzia da Lenin che, a questo punto, può considerare la crisi solo in termini catastrofici. Le molte linee di analisi che negli anni ’20 e ’30 del secolo scorso rinnoveranno proiezioni della “catastrofe capitalista”, fra Bordiga e Grossmann, trovano qui una base di lancio. Di contro, Marx, malgrado il ruolo centrale definito teoricamente per il Mercato Mondiale (lì solamente il lavoro – mondiale appunto – è lavoro astratto; lì solamente il denaro è davvero denaro), non può trasformare questo risultato teorico in spazio strategico, in progetto di lotta.

Queste differenze non si possono cancellare, neppure sottolineando la diversità della fase storica (relativa all’imperialismo) nella quale scrivono i due autori (il primo ancora nel momento di prevalente equilibrio nel dominio inglese sul mercato mondiale, il secondo in quella fase di squilibrata riarticolazione di quel predominio che aveva condotto alla guerra ed ora apriva alla prospettiva della rivoluzione mondiale). Resta il fatto che anche in Lenin abbiamo un posizionamento polemico (che a Marx sarebbe piaciuto), da un lato contro quegli autori socialdemocratici che esaltano l’ineluttabile trionfo del mercato mondiale come fine delle contraddizioni di classe e, dall’altro, contro quei liberals che invece lo costituivano progressivamente come una figura normale di «riproduzione allargata» del capitale. In ogni caso, al di là di questo compiacimento metodico, su questo argomento la distanza Marx-Lenin è grande. Forse la distanza più grande, guardata nello specchio sincronico della teoria.

Ma – ecco un paradosso non semplice da gestire – la soluzione del problema posto da questa distanza si avrà solo ripartendo da Marx. Ma di questo più tardi.

Ci sia permessa qui una parentesi. Prima di ritornare alle distanze o alle prossimità teoriche fra Marx e Lenin, abbiamo visto come la rivoluzione mondiale sia per Lenin un fatto, una determinazione specifica. Essa entra nella continuità della rivoluzione d’Ottobre, è una della condizioni di esistenza e resistenza di questa. La distanza fra la rivoluzione russa e l’apertura della rivoluzione mondiale è minima, la continuità è attesa. Questa constatazione, e la riflessione sul “fare” di Lenin in quella situazione, ci permettono di ritornare sull’imputazione di «immediatismo» rivolta al pensiero di Lenin: quasi esso fosse espressione del suo «genio» rivoluzionario, l’incarnazione di una «arte della rivoluzione». È quanto più sopra abbiamo rigettato. In Lenin non c’è nulla, infatti, che possa indurci ad esaltare la sua azione come «bagliore di una solitaria decisione» o prodotto dell’ «eccezionalità» di una personalità speciale. Zizek (nella sua recente apologia di Lenin) può risparmiarsi fantasie lacaniane a questo proposito: se c’è una figura che mai vede la storia e l’azione rivoluzionaria come un vuoto da riempire, è dalle parti di Lenin che si trova. Nell’agire leniniano non c’è trascendenza alcuna. L’accendersi della rivoluzione mondiale a contatto con la prima occasione rivoluzionaria data, è d’altronde cosa che si promette allora la maggioranza del proletariato russo. Di qui il fatto che la concentrazione strategica sia in Lenin sempre contenuta, articolata e sviluppata a contatto con le forze proletarie. L’iniziativa tattica segue. Il pensiero di Lenin ed il suo comportamento non sono definibili come “carismatici”: sono politici, nel senso che tutte le determinazioni sociali dell’agire (e quelle ideali del progetto) sono trattenute, meglio, schiacciate sull’orizzontalità delle condizioni dell’azione – colte, analizzate, collettivamente discusse e decise, predisposte ad uno sviluppo incrementale… Non c’è nulla di più laico del pensiero leninista – non vi puoi trovare alcunchè di romantico, né qualcosa che sfiori l’utopia – e neppure solamente la speranza. Lenin non decide ma si fa decidere. Anche il rischio è ricondotto ad una astrazione determinata che affetta il giudizio. Tutto ciò va detto e insistito per respingere quella ributtante fantasia borghese che fa di Lenin un personaggio di irripetibile virtù – non sottacendone l’eccezionale malvagità. Dégage Carl Schmitt!

E, sempre fra parentesi, in Lenin non c’è nulla di “giacobino”. Non solo perché lo Stato, Lenin, lo vuole distruggere, ma perché non c’è in lui alcun riferimento ad un popolo come ente generico o alla nazione come identità. Il concetto di popolo è dissolto in quello di classe, nella dinamica della composizione politica della classe. Quanto alla politica delle nazionalità di Lenin, essa è organizzata sui principi di autodeterminazione e federalismo, e così subordinata alla lotta di classe. Considerando poi pragmaticamente la figura dello Stato: se in Marx qualche suggestione giacobina, qualche propensione alla centralizzazione (per esempio nel definire il concetto di dittatura) la si può notare, in Lenin è il consenso del movimento di classe operaia e proletaria (e non popolare) ai temi della “rivoluzione sociale”, il consenso ai decreti sulla pace contro la guerra in corso, sull’appropriazione diretta della terra, sulla riorganizzazione del lavoro industriale del 7-8-9 novembre 1917, che conquistano legittimità alla dittatura del proletariato ed alla conseguente governance. Lenin è un illuminista, non un giacobino.

Dopo aver misurato la distanza nella teoria dell’imperialismo, consideriamo un effetto di straordinaria vicinanza del pensiero di Marx e di Lenin, ravvicinando i due successivi momenti di confronto: sullo Stato e sull’immagine (il progetto) del comunismo. Per abbreviare la mia esposizione, terrò assieme questi argomenti. Si può fare? Credo di sì. Anche se, su questi temi, il punto di vista di Marx è prevalentemente teorico e spesso affidato alla critica storica, e l’analisi della capacità dello Stato di intervenire sui movimenti economici o delle classi in lotta di costituire e/o di ostruire la macchina statale, è sviluppata in maniera – oggi si direbbe – strutturale, mentre invece in Lenin “dittatura del proletariato” e tematica della “transizione”, del “potere costituente” e della “pianificazione” sono vissuti nella prospettiva del “fare”, dell’invenzione e della gestione diretta delle lotte. Due punti di vista, dunque, l’uno teorico e l’altro pratico (ma la distinzione è sempre impropria), falsamente distanziati dalla diversa temporalità che investe i concetti. Marx ragiona su ciclo e crisi economiche per sottolineare lo sprigionamento delle potenze sovversive del modo capitalistico di produzione; Lenin ragiona dentro un processo rivoluzionario che ha liberato il «potere costituente» di una società in rivolta. Ma i due cammini si intersecano. C’è un punto marxiano che, a proposito dello Stato, è identico a quello di Lenin: la definizione dello Stato come organo della violenza di classe del capitale, come materialissimo appareil idéologique e come macchina organizzativa dello sfruttamento sociale. Bene, queste figure si sovrappongono e, per la lotta di classe operaia, per la rivoluzione proletaria non c’è alternativa alla distruzione dello Stato. In Lenin è esplicito il rovello della temporalità nel processo che congiunge «deperimento» e «estinzione» – parole ed esperienze quanto mai impervie alla definizione. Laddove il risultato dell’ «estinzione» dello Stato non può che essere prodotto da un altissimo grado di soggettivazione rivoluzionaria, questo effetto è continuamente indebolito dalle resistenze e dagli ostacoli che, nel concreto processo di «deperimento», all’ «estinzione» dello Stato si oppongono. Basti ripercorrere la Teoria generale del diritto e il marxismo di Pasukanis per registrare in atto questo grave conflitto e vedere come esso abbia potuto divenire il maggior ostacolo alla costruzione del comunismo nel paese dei Soviet. Ma Lenin, su impronta di Marx, non cede: oltre il socialismo – e la permanenza dello Stato – c’è il comunismo, ossia, secondo Stato e rivoluzione, la scomparsa dello Stato e la sua sostituzione con l’organizzazione sociale del comune. Lenin descrive le condizioni di questo passaggio: la prima condizione dell’estinzione dello Stato è l’eliminazione della «divisione fra lavoro fisico e lavoro intellettuale». La seconda condizione è lo «sviluppo gigantesco delle forze produttive», a partire dal fatto che già solo l’espropriazione rivoluzionaria della ricchezza esistente darà la possibilità di uno sviluppo «enorme» di quelle forze produttive «che ora il capitalismo frena». La terza condizione materiale (preparata sia dalla prima trasformazione che dalla seconda) consiste nel mutamento “qualitativo” della natura del lavoro, implicito nello sviluppo delle forze produttive, che si presenterà come “assemblaggio” del lavoro manuale, fisico, intellettuale e, in secondo luogo, come potenza produttiva del “lavoro associato”. È solo su questa base che l’estinzione dello Stato per Lenin diviene realtà. Tutto ciò è assolutamente necessario per completare la rivoluzione, perché «finchè esiste lo Stato non vi è libertà». Siamo ben lontani dall’ideologia socialdemocratica, siamo ben lontani da ogni mistificazione riformista. Il comunismo militante rivoluzionario, piuttosto, assorbe ed invera l’anarchismo: «quando vi sarà libertà non esisterà più lo Stato», ripete Lenin.

È qui dunque che il discorso sullo Stato diviene discorso sul comunismo. Diamo un’occhiata a quel che dice Marx di questo passaggio. È soprattutto nei Grundrisse che Marx propone, nell’analisi dello sviluppo delle contraddizioni che presiedono al modo di produzione capitalistico, un discorso sul comunismo (e implicitamente sull’«estinzione» dello Stato). Questo discorso costituisce un’anticipazione di quanto Lenin verrà dicendo nel 1917, un’anticipazione segreta e impressionante – poiché Lenin non poteva conoscere i Grundrisse, pubblicati a Mosca alla fine degli anni ’30. Guardiamo dunque il cosiddetto Frammento sulle macchine di Marx. Qui, innanzitutto, appare il General Intellect come sintesi della scienza e del lavoro vivo; nei termini di Lenin, la sintesi del lavoro intellettuale e del lavoro manuale. Conseguentemente, per entrambi, la distruzione della divisione sociale capitalista del lavoro. Di nuovo poi, nel Frammento, si presenta l’Individuo sociale, come soggetto cooperativo della produzione; in Lenin, il lavoro associato, dotato di autonoma forza produttiva. E così, infine, nel Frammento e in Stato e rivoluzione, la fine dello sfruttamento, ossia la riduzione del lavoro ad un «bisogno sociale», ad una necessità della vita. Spinoza direbbe ad una cupiditas, ad un bisogno positivo e creativo.

Ma a questo punto riprendiamo il tema dell’«estinzione» in termini politici. In Lenin, come in Marx, le condizioni politiche dell’estinzione prevedono un’articolazione di insurrezione, dittatura, socialismo, tale che attraverso questi passaggi si determini non solo un annullamento violento del privilegio ma una successiva spontaneità del processo estintivo – quando la grande maggioranza del proletariato si sia consapevolmente riappropriata le condizioni di produzione della ricchezza. Nelle pagine dei Grundrisse Marx precede Lenin, nella definizione dei momenti più avanzati del passaggio al comunismo. Vi è un’identità di punti di vista, Lenin non li corregge né li modifica, ma semplicemente li reinventa in quella continuità del metodo rivoluzionario di cui è maestro.

D’altra parte, deve essere chiaro che questo implicito disegno dell’analisi marxiana non era stato dimenticato neppure negli anni della II Internazionale. Ricordiamo: nella tradizione socialdemocratica della II Internazionale andiamo dalla definizione dello Stato ripresa dal Manifesto («il potere politico dello Stato moderno non è che un comitato il quale amministra gli affari comuni di tutta quanta la borghesia», «potere organizzato di una classe per l’oppressione di un’altra») alla più matura definizione, ripresa dall’Ideologia tedesca, che concepiva, nella forma dello Stato, «la sintesi della società civile». Tuttavia, per chi non avesse compreso la critica dello Stato alla stregua della critica dell’economia politica – come spesso avviene nella II Internazionale – Engels avanza nel ragionamento. Raccogliendo un’indicazione marxiana (lo Stato interviene nella tendenza storica dello sviluppo capitalista «per mantenere la produzione privata senza il controllo della proprietà privata»), egli definisce una fase nella quale la borghesia si rivela incapace di dirigere «ulteriormente lo sviluppo delle moderne forze produttive». Qui Engels pone la figura dello Stato come «capitalista collettivo ideale» che «quanto più si appropria le forze produttive tanto più diventa un capitalista collettivo e tanto maggiore è il numero dei cittadini che sfrutta». Lo Stato si rappresenta dunque come l’organizzatore diretto della produzione capitalista. Conclude Engels: «lo Stato, qualunque ne sia la forma, è una macchina essenzialmente capitalistica, uno Stato dei capitalisti, il capitalista collettivo ideale». Non vi è dunque altra via per togliere lo sfruttamento che la distruzione dello Stato.

Ma in tutta la II internazionale v’è solo Lenin che sa recuperare questo insegnamento in Stato e rivoluzione. Bisognava che la rivoluzione si avvicinasse alla conquista dello Stato per scoprire intera la sporca filologia del potere. «Finché ci sarà Stato, non vi sarà libertà», ripete Lenin: finché vige, in qualunque forma viga, la legge del valore, la legge dello sfruttamento – quindi lo Stato che ne incarna il vigore – il proletariato non si libererà. Solo la prassi rivoluzionaria rivolta contro lo Stato poteva liberare il lavoro e così reinventare il marxismo di Marx. È quanto avviene in Stato e rivoluzione. E quindi allora: la costruzione del socialismo per distruggere la legge del valore-lavoro, quindi lo sfruttamento, quindi il socialismo stesso –  questo il cammino che deve essere percorso per liberarsi dal capitale e dallo Stato. Formidabile paradosso dialettico: solo il punto di vista della classe operaia può inventare un oggetto da distruggere per liberarsi! La “barbarie anarchica” di Lenin rappresenta il punto più alto e raffinato della marxiana critica dell’economia politica.

Ci resta, molto brevemente, da spostare il confronto di Marx con Lenin su un terreno storico e di dare risposta conclusiva alla domanda se Lenin costituisca (o no) un momento di realizzazione della fondazione marxiana del progetto comunista. Per essere onesta, la risposta deve dunque andare oltre il terreno teorico, cioè chiedere a Marx un giudizio sull’esperienza del Lenin rivoluzionario, sul progetto iniziale della costruzione del socialismo in Russia. Immagino che questo giudizio sarebbe positivo– perché spiegherebbe la rivoluzione d’Ottobre come espressione di soggettivazione rivoluzionaria del proletariato e come realizzazione di quel desiderio e di quella forza che nascono dalle pagine del Manifesto dei comunisti.

Per concludere con un’approssimazione più precisa il confronto, sarà bene però ritornare a quel punto di massima distanza che abbiamo prima segnalato, riconsiderando le posizioni di Marx e di Lenin sull’imperialismo. Riassumiamo: se l’analisi marxiana del Weltmarkt è del tutto incapace di chiudere la divaricazione rappresentata dal quadro globale sul quale la legge dello sfruttamento capitalista si realizza ed una linea costitutiva delle lotte contro lo sfruttamento operaio a quel livello; e se in Lenin il superamento di questa divaricazione è solo raffigurato da un gesto di volontà politica – la soluzione del problema non è data. Ma, se si vuol pensare la rivoluzione, quella soluzione bisogna trovarla. Perché il terreno della globalizzazione è decisivo per la validazione politica dell’ipotesi comunista. Dicevamo anche, più sopra, che per avanzare su questo terreno e per sanare la sconfitta qui subita dall’iniziativa leninista, sarà necessario ridiscendere alle pagine del Capitale. Laddove Marx problematizza criticamente il momento in cui la valorizzazione e i processi del comando capitalista avrebbero finito per convergere, sovrapponendosi ed unificandosi su scala globale. La dinamica capitalista tende a definire valorizzazione e sfruttamento come funzioni di un sistema globale di produzione ed ogni ostacolo che compare su questo piano, nel lungo periodo deve essere abbattuto: «la tendenza a creare il mercato globale è data immediatamente nel concetto stesso di capitale, ogni limite si presenta qui come un ostacolo da superare». È su questo orizzonte, confrontandosi all’organizzazione globale del potere capitalista, che lo sviluppo della lotta di classe deve dunque essere studiato. Le note di Marx a riguardo del volume sullo Stato che avrebbe dovuto, con quelli sul salario e sul mercato globale, completare il Capitale, sono sparse ed insufficienti e non riconducibili ad una sistemazione teorica generale – sono piuttosto il frutto di un interesse specifico per singole politiche nazionali: il parlamentarismo inglese, il bonapartismo, l’autocrazia russa. Sono i limiti nazionali di queste situazioni politiche che impediscono la concettualizzazione di una teoria generale. Per ogni singolo Stato-nazione Marx era attento ai saggi di profitto e ai differenti regimi dello sfruttamento – in definitiva, alle sovradeterminazioni statali dei processi di valorizzazione, ai blocchi della globalizzazione. In queste condizioni, una teoria generale del potere sul Weltmarkt sarebbe risultata aleatoria e del tutto astratta. Si può ipotizzare che, laddove questo sviluppo non conosca il limite nazionale, una volta raggiunto il livello globale, esso abbia direttamente a che fare con il comando di capitale, senza che si interponga più alcuna mediazione? Probabilmente il compito teorico attuale consiste proprio nello studiare e nell’organizzare le lotte in questa prospettiva: dal superamento dello Stato-nazione alla costruzione di un ambito di lotte globali. Per farlo, le indicazioni del Capitale sono più importanti di quelle dell’Imperialismo, ma è chiaro che è verso le finalità proposte dall’Imperialismo e da Stato e rivoluzione, che la lotta di classe, costruita sui parametri del Capitale, va a convergere. È il punto di differenza massima, quello sul quale Marx obbliga i leninisti a provarsi. Insomma, oggi Marx propone a Lenin di completare il quadro teorico che dal loro agencement era stato impetuosamente avviato.

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