di MARIA ROSARIA MARELLA, ENRICA RIGO.

 

 

1. Le cliniche legali come strumento di giustizia sociale.  1

In un libro dal titolo intrigante – Storming the Court: How a Band of Yale  Law Students Sued the President–and Won (Goldstein, 2005) – un professore di legge prestato alla narrativa racconta di come, agli inizi degli anni ’90, un gruppo di studenti di Yale abbia deciso di portare in giudizio il Presidente degli Stati Uniti per la prassi di rimpatriare forzatamente i rifugiati haitiani, detenuti al di fuori di ogni legittima procedura nella base di Guantanamo e senza che venisse data loro la possibilità di chiedere asilo sul suolo americano. Guidati dal professore Harold H. Koh, e con il supporto di un affermato studio legale che ha offerto pro bono la propria collaborazione, gli studenti hanno messo da parte i manuali per la preparazione degli esami al fine di dedicarsi, notte e giorno, alle ricerche per istruire il caso e per recarsi a Guantanamo a intervistare i detenuti. Si tratta probabilmente del caso più noto – almeno in anni recenti – che esemplifica come una clinica legale possa farsi portatrice di istanze di giustizia e soggetto attivo di trasformazione; nonché di un buon esempio per raccontare l’entusiasmo, la dedizione e le forme di collaborazione che possono essere mobilitate attraverso la metodologia didattica delle cliniche legali, ben al di là di quanto normalmente accada per gli insegnamenti tradizionali del diritto.

Quella della Yale Law School è sicuramente una vicenda paradigmatica per i nessi che coagula tra attivismo, cliniche legali, battaglie per i diritti civili, giustizia sociale e critica del diritto. L’attivismo degli studenti di YLS vanta, infatti, una tradizione di almeno mezzo secolo, quando gli anni Sessanta hanno improvvisamente fatto irruzione nella prestigiosa istituzione, portando, assieme alle questioni razziali, di genere, e di giustizia sociale, la contestazione fin dentro il tempio progressista del “judicial activism” e del realismo anti-Harvard. Come ha sottolineato Laura Kalman (2005), lo scossone prodotto dalle accuse di razzismo, sessismo, ed elitismo trovò del tutto impreparato un corpo docente adagiato sulle proprie convinzioni liberali, che si credeva per questo immune dalle critiche degli studenti di estrazione borghese. D’altro canto, il caso di YLS conferma come le facoltà di legge, anche le più liberal, rivelino una comprovata capacità di resistere e neutralizzare le trasformazioni. Lo nota pragmaticamente la stessa Kalman (2005); ma è Duncan Kennedy, una delle voci più influenti dei critical legal studies, a metterlo a tema riflettendo sui curricula degli studi giuridici e il significato politico della gerarchizzazione delle discipline (1982; 1983). La riflessione di Kennedy prende l’avvio proprio dalla generalizzazione della sua esperienza: studente a Yale alla fine degli anni Sessanta, quando, le cliniche legali si affacciano sulla scena come promessa di trasformazione per il futuro degli studi giuridici, e docente ad Harvard negli anni Ottanta, dove le cliniche legali si sono ormai affermate come complemento dell’approccio procedurale al diritto (Kennedy, 1983). Così come accaduto per altre prospettive critiche sul diritto, anche l’esperienza delle cliniche legali è stata progressivamente affiancata da una sua versione moderata, orientata alla professionalizzazione, e epurata dagli elementi di trasformazione politica che l’avevano caratterizzata a cavallo tra i decenni Sessanta e Settanta (ivi, p. 7). In una gerarchizzazione dei curricula accademici che vede al centro la dottrina civilistica in quanto unitaria, sistematica e coerente – in altre parole razionale, così come le istituzioni fondamentali del capitalismo rappresentate dalla proprietà e dal contratto – le cliniche legali appartengono a quella “periferia” del diritto che ha finito per assumere un ruolo funzionale ad ammorbidire il sistema rendendolo più accettabile (ivi). Le osservazioni di Kennedy costringono a un bagno di realismo utile a collocarsi in un dibattito che comincia ad affacciarsi anche in Italia, dove nel giro di pochi anni le cliniche legali sono passate da due a circa venti2, e dove emerge pertanto una forte esigenza definitoria. In un panorama di esperienze anche molto diverse fra loro, sembra infatti difficile stabilire quali di queste possano davvero dirsi cliniche legali assumendo come discrimine obbiettivi di trasformazione sociale o di accesso alla giustizia per i soggetti svantaggiati. Se nel quadro delle law school statunitensi l’intento di giustizia sociale è giustificato da un contesto istituzionale che non prevede un accesso universale alla tutela dei diritti, in un sistema come quello italiano, dove almeno formalmente è assicurato il patrocinio a spese dello Stato per chi non può permettersi una difesa tecnica, una simile argomentazione può contare su radici meno solide. D’altro canto, alla luce dell’imprescindibile funzione di interesse pubblico dell’università, è impensabile che ogni iniziativa didattica improntata all’apprendimento esperienziale, svolta in molti casi a favore di soggetti terzi, possa fregiarsi di un valore culturale e sociale aggiunto. Uno strumento come quello delle cliniche legali dovrebbe quindi trovare giustificazione in una missione di pubblica utilità, ovvero – per utilizzare il linguaggio, pur ambiguo, dell’Agenzia Nazionale di Valutazione della Ricerca – nella produzione di un “bene pubblico” volto ad aumentare “il benessere della società” (ANVUR, 2013). Visto in questo senso, l’accesso alla giustizia non è solamente un diritto individuale universalizzabile ma, come già sottolineava Mauro Cappelletti, “un incessante progresso sociale, che implica un dibattito costante sia sulle modalità di accesso, che sull’idea di giustizia che ne risulta” (Cappelletti, Garth, 1981, p. 2). Si tratta in definitiva di una sfida culturale – per cui la variabili teoriche sono intese come virtù produttive anziché come vizi di sistematicità (Mezey, 2001) – all’interno della quale è impossibile predeterminare il posizionamento, radicale, progressista o conservatore, che assumeranno i singoli attori, tra i quali figurano certo anche le cliniche legali.

2. Le cliniche legali come strumento di globalizzazione di un modello di giustizia.

Alla voce “Legal clinic”, l’enciclopedia open-source Wikipedia elenca 24 paesi dove sono presenti cliniche legali, inclusa la striscia di Gaza, la Bielorussia e la Somalia. Un esercizio efficacie per rendersi conto di come tale elenco sia parziale è quello di incrociarlo con i partecipanti alla 7° conferenza mondiale del network Global Aliance for Justice Education (GAJE) tenutasi a Nuova Delhi nel dicembre 20133. Oltre all’Italia, dall’elenco di Wikipedia mancano infatti paesi come la Malesia, la Tailandia, il Laos, il Perù, l’Argentina, il Pakistan, il Marocco e la Nigeria – solo per citarne alcuni. In ambito come quello giuridico, saldamente ancorato alla tradizione romanistica-continentale, che al più dialoga con quella anglo-statunitense, capita raramente di avere l’occasione di sedere allo stesso tavolo con una docente di diritto costituzionale della Giordania, con un avvocato del Pakistan e con le responsabili di una clinica legale transazionale che opera tra Malesia e Tailandia. Per essere più precisi, si tratta di un’esperienza che può capitare ogni due anni, in occasione appunto della conferenza GAJE. Per sgombrare il campo da ogni tentazione esotizzante o culturalista, è bene chiarire da subito che la diffusione globale delle cliniche legali parla un linguaggio comune, il cui lessico comprende concetti quali “public interest law”, “experimental learning”, “professional values”, e così via. Secondo Frank Bloch e Madhava Menon, si può parlare di un vero e proprio movimento globale, che ha cominciato a mettersi in rete a partire dai decenni Ottanta e Novanta, e la cui agenda è quella di diffondere la metodologia delle cliniche legali per preparare gli studenti di legge “a comprendere e assimilare le proprie responsabilità in quanto membri di una professione di interesse pubblico, volta all’amministrazione della giustizia, alla riforma della legge, a rendere equa la distribuzione dei servizi giuridici nella società, alla protezione dei diritti individuali e degli interessi pubblici, nonché ad affermare gli elementi fondamentali della propria professionalità” (Bloch, Menon, 2012 p. 271)

In sistemi giuridici tra loro diversissimi, le cliniche legali riescono così a imporre un obbiettivo di riforma comune dei curricula accademici, riorientando la formazione dei giuristi verso la giustizia sociale (ivi, p. 273). La diversità e pluralità degli approcci è mantenuta, dal momento che gli studenti possono essere coinvolti nei progetti più vari: da programmi di riforma legislativa che partono delle comunità, a questioni riguardanti i migranti, ad attività che mirano ad alleviare la povertà (ivi, p. 277). Si tratta di un’agenda che non è certo immune dalle critiche, non tanto perché segnali un imperialismo culturale nelle parole d’ordine che vengono veicolate, ma perché, ancora una volta, mette in luce l’ambivalenza del modello delle cliniche legali che, in quanto strumento, si prestano ad approcci e obbiettivi diversi. Visto dal prisma di una critica radicale – alla quale il movimento delle cliniche legali paga un debito teorico – il modello di giustizia sociale appena descritto può certo apparire poco più che consolatorio. Quasi che gli studenti di legge debbano fare il pieno di buoni propositi durante gli anni della loro formazione, perché destinati a una professione dove prevale il tornaconto personale, il profitto e l’egoismo4. Per sottrarsi a tale destino, una volta affermatisi come professionisti, potranno certo impegnarsi in attività di “public interest”5, magari affiancando pro bono il lavoro delle cliniche legali, con l’obbiettivo di introdurre dei meccanismi correttivi delle sperequazioni prodotte dal mercato. Diversamente dallo scetticismo dei realisti che nega la possibilità di fondare razionalmente i valori morali, secondo l’approccio di un diritto orientato al “public interest”, l’interpretazione della legge, e eventualmente le sue proposte di riforma, possono contare su orientamenti razionalmente fondati che si radicano nella realtà materiale (Ikawa, p.199). Tra questi vi è sicuramente quello di un’equa implementazione dei diritti e di uguali possibilità di accesso alla giustizia, per i gruppi svantaggiati così come per quelli avvantaggiati, per coloro che detengono il potere così come per coloro che ne sono esclusi (p. 201).

Si tratta, in definitiva, di un programma pienamente ricompreso entro i perimetri della tradizione liberale; che sembra dare ragione a Neil Mac Cormick (1985) quando sostiene che la formazione del giurista è volta alla realizzazione di un “Democratic Intellect” liberale6. Peraltro, riportando le cliniche legali nel perimetro dell’approccio liberale al diritto, esse vengono restituite ai presupposti teoretici da cui avevano preso le distanze nei decenni Sessanta e Settanta: a quel metodo socratico, i cui fondamenti sono l’unitarietà, la sistematicità, la coerenza e, in definitiva, la razionalità della dottrina giuridica. Lo stesso metodo che giustifica la gerarchizzazione dei curricula accademici, con la messa al centro del diritto civile e la marginalizzazione delle prospettive interdisciplinari, procedimentali, delle cliniche del diritto, e così via.

Si potrebbe certo guardare al percorso appena delineato come a una contraddizione insita nella diffusione globale delle cliniche legali; o dare ragione a chi vede nell’esperienza delle cliniche legali un efficacie dispositivo di rassicurazione delle coscienze accademiche. In entrambi i casi si diminuisce però la portata di un fenomeno che va al di là dei tentativi di inquadrarlo. In un bel saggio della metà degli anni Ottanta, Mark Tushnet, scriveva che le cliniche legali hanno a che fare con le persone, con un’esperienza giuridica non strutturata e con le emozioni. Tutte caratteristiche che sono associate con la sfera femminile, e che sono considerate un fattore di disturbo rispetto alla formazione giuridica tradizionale fondata sull’astrazione, la struttura e il ragionamento. Secondo Tushnet, proprio il disagio che le cliniche legali procurano tra il corpo docente più tradizionalista rende appropriata una metafora che le accomuna, non tanto alle province di un impero dominato dagli insegnamenti dottrinari tradizionali, ma a delle enclave che resistono a discapito dei loro vicini più potenti (Tushnet, 1984, p. 274). La globalizzazione della clinical legal education, più che essere riducibile a una forma di imperialismo culturale, mostra dunque i caratteri tipici di un meticciato post-coloniale, destinato a “provincializzare” – come forse direbbe Chakrabarty (2000) – la cultura giuridica tradizionale.

3. Le cliniche legali come apparato governamentale

Tuttavia, è altresì indubbio che le cliniche legali, anche laddove è chiara la loro connotazione sociale, l’aspirazione a farsi strumenti di estensione dell’accesso alla giustizia a soggetti che tendenzialmente ne restano fuori, possano inquadrarsi all’interno di una logica governamentale. Ce lo conferma l’originaria intuizione di Jerome Frank, noto esponente del realismo statunitense, il quale già nei primi anni Trenta auspica che le law school si dotino di strutture tipo cliniche o ambulatori (dispensary) che similmente a quanto avviene nelle facoltà di medicina dispensino le prime cure in termini di legal aid a clienti in carne e ossa, cioè insegnino agli studenti l’arte di istruire e decidere un caso giudiziario (Frank, 1933)7. Proprio il riferimento al dispensario medico sembra rivelare la radice governamentale delle cliniche legali: come spiega Michel Foucault (2007), il passaggio alla governamentalità si ha allorché l’esercizio del potere non si incentra più sull’individuo nel suo rapporto lineare col sovrano, ma assume come referente la popolazione, una grandezza attraversata da numerose variabili che non si comanda secondo il registro imperativo della volontà sovrana e dell’obbedienza del suddito, ma si gestisce con modalità realmente medico-amministrative (Amendola e Napoli 2014, p. 596). Ossia attraverso una serie di istituzioni, procedure, analisi e tattiche che agiscono come fattori di influenza sulla base di condizioni reputate esistenti strutturando un ambiente più che regolando direttamente le condotte individuali e collettive (Foucault 2007, p. 29). In questa chiave la metafora della pratica medica quale modalità didattica che arricchisce e completa la legal education rispondendo altresì ai bisogni della società, è dunque non meramente descrittiva, ma autenticamente prescrittiva. Essa indica cioè un’esigenza di governo della società che è immediatamente esigenza di ‘cura’ (dei suoi squilibri e dei suoi conflitti), secondo una genealogia che rinvia alla tradizione pastorale cristiana e a un’idea di comunità da amministrare somministrando rimedi piuttosto che irrogando sanzioni. Il che non vuol dire nulla di definitivo circa gli attuali scopi e potenzialità delle cliniche legali ma probabilmente aiuta a capire il perché della loro diffusione globale.

In proposito è necessario stabilire un nesso fra la globalizzazione della clinical education e la diffusione altrettanto globale delle tecniche di Alternative Dispute Resolution (ADR), entrambe portato del ruolo egemonico assunto su scala planetaria dal sistema giuridico statunitense. Al riguardo non è tanto importante individuare il carattere imperialista della circolazione del modello USA, quanto piuttosto capire a quali esigenze la sua diffusione risponde. Ebbene – procedendo necessariamente per grosse esemplificazioni – possiamo convenire che entrambe le tendenze rispondono a una crisi dei moderni sistemi di amministrazione della giustizia e alle profonde trasformazioni da cui sono attraversati8. Al considerevole aumento del numero delle controversie e dei potenziali utenti dei sistemi di giustizia contemporanei è corrisposto infatti un alleggerimento dei relativi apparati statali, troppo costosi per essere sostenuti da bilanci sempre più in sofferenza, e il conseguente restringimento dell’accesso alla giustizia, in linea con un più generale e drastico ridimensionamento dei sistemi nazionali di welfare.

Le tecniche di ADR, variamente rispondenti a una tendenza a ‘privatizzare’ la giustizia, hanno creato, da una parte, un sistema di giustizia alternativo (e, appunto, privato) destinato alle imprese, così sottraendo al sistema di giustizia statale le controversie di maggiore rilevanza economica e di fatto mettendo fine al principio, fondativo dello Stato di diritto, di una giustizia uguale per tutti. Per altro verso, meccanismi ADR come la mediazione si basano piuttosto sulla valorizzazione, in senso marxiano, dell’esperienza esistenziale, emotiva e cognitiva delle stesse parti della controversia, chiamate ora a gestire direttamente, seppur con l’aiuto di un soggetto terzo – assai diverso, per ruolo e funzione, dal giudice – la lite di cui sono protagoniste. La mediazione familiare, che ne costituisce un esempio eloquente, ma anche i sistemi di mediazione destinati a risolvere le controversie fra professionisti e consumatori sono stati, a ragione, letti come dispositivi biopolitici in grado di governare le controversie fuori dagli ordinari canali di amministrazione della giustizia con la collaborazione essenziale – e lo sfruttamento, cioè l’estrazione di valore – delle competenze e dei sentimenti degli stessi attori sociali in lite, in linea coi modi di produzione propri del capitalismo cognitivo (Cohen 2012; Catanossi 2013).

Diversamente dalle tecniche di ADR, l’attività delle cliniche legali non necessariamente partecipa allo sforzo di ridurre il contenzioso gestito dalla giustizia tradizionale. Anzi in qualche misura tende a compensare il restringersi dell’accesso alla giustizia statale. Tuttavia offre un rimedio ai conflitti sociali più radicali, perché espressi appunto da soggetti e istanze marginali e normalmente espunti dall’accesso alla giustizia, attraverso un expertise tecnico, dunque tendenzialmente neutro, scientificamente qualificato e prodotto da un attore terzo di prestigio quale l’istituzione universitaria. Una lettura della clinica legale in chiave governamentale, dunque, legittimamente metterà in evidenza la fiducia nell’expertise tecnico e l’accesso alla giustizia e/o al diritto come cura del conflitto sociale quali sue caratteristiche essenziali9, non senza sottolineare la valorizzazione del sapere e dell’esperienza emotiva degli studenti partecipanti alla clinica legale e degli stessi suoi clienti quale momento necessario dell’attività clinica. La rilevanza di quest’ultimo elemento è peraltro corroborata e ulteriormente chiarita dalla convergenza fra la diffusione delle cliniche legali in Europa e le linee guida di quel progetto europeo noto come Processo di Bologna, che aspira alla creazione di (e di fatto ha creato) un’ampia area geografica in cui sia vigente un sistema di alta formazione tendenzialmente omogeneo al suo interno in quanto parametrato su criteri, curricula e metodologie fra loro compatibili. Il Processo di Bologna, oltre a introdurre il modello del Life Long Learning, cioè dell’individuo perennemente in debito di formazione, segna il passaggio dei sistemi di formazione superiore (essenzialmente universitaria e essenzialmente europea, ma non solo) da luoghi istituzionalmente deputati all’elaborazione di conoscenza ‘disinteressata’ a sedi di produzione di saperi professionalizzanti, cui si accompagna il disegno di assegnare alla ricerca universitaria degli obiettivi predefiniti, destinandola essenzialmente alla valorizzazione. Dunque le università e, all’interno di esse, le scuole di diritto non devono limitarsi a produrre knowledge, ma devono anche fornire skills, abilità o competenze, sorrette da values. Non è perciò un caso che promotori e sostenitori del Processo di Bologna abbiano visto e vedano di buon occhio l’affermarsi delle cliniche legali su questa sponda dell’oceano: esse sono infatti in grado come null’altro di combinare fra loro questi tre elementi. Nei paesi dell’Europa meridionale, inoltre, la capacità di far appassionare gli studenti di diritto alla professione forense potrebbe avere il significato strategico di invertire la rotta rispetto alla diffusa tendenza a individuare nel pubblico impiego uno sbocco lavorativo tradizionale degli studi giuridici. Ciò che in tempi di ‘dimagrimento’ dell’apparato statale può essere visto come un effetto da incentivare.Legal-clinic

4. Università, conoscenza e cliniche legali come commons

Come già osservato prima, la scoperta di una dark side delle cliniche legali nulla toglie alle possibilità che la loro introduzione nei corsi universitari di diritto dischiude. In effetti è molto difficile determinare a priori o controllare quali possano essere gli esiti prodotti della trattazione di casi concreti, con clienti reali, sugli studenti. Le tematiche maggiormente ricorrenti almeno nelle cliniche legali italiane – immigrazione, carcere, beni comuni – e le esperienze sinora maturate inducono a pensare, all’opposto, che l’effetto di soggettivazione politica o quanto meno la maturazione di una coscienza critica nei confronti del sistema giuridico vigente e dei suoi meccanismi siano conseguenze altamente probabili. Più in generale, nulla impedisce di ‘liberare’ la cooperazione sociale messa all’opera nell’attività clinica dallo studio, le riflessioni, le emozioni di studenti, clienti, docenti sottraendola alla valorizzazione per giocarla in una direzione diversa. Per esempio per ri-costruire legami di solidarietà sociale.

Ed è qui che prende corpo l’idea della clinica legale come bene comune (Cruciani, 2012), dall’analisi della clinical education quale momento peculiare di produzione di sapere giuridico all’interno dell’istituzione universitaria, a loro volta letti, l’uno e l’altra, nella loro dimensione comunitaria e collettiva come prodotti della cooperazione sociale. Il percorso proposto si struttura a questo punto come un caleidoscopio nel quale tre elementi, l’università, la conoscenza e le cliniche legali, si intersecano variamente e si compongono in un gioco di scatole cinesi. Ognuna di queste entità funziona o può leggersi come un commons, dunque come insieme di risorse comuni, collettivamente fruite e, insieme, sede e occasione di produzione di commoning. Il loro intersecarsi è perciò stesso in grado di dar luogo ad un circolo virtuoso di creazione, godimento, redistribuzione di risorse ma, nel contempo, è costantemente minacciato e in concreto soggetto a istanze e pratiche di enclosure delle più micidiali, data la crescente rilevanza dell’immateriale per l’economia capitalistica.

a) Se si guarda all’università, essa ha sin dalle sue origini i caratteri di un commons: concepito come sistema sociale nel quale un pool di risorse – beni immateriali e materiali, mobili e immobili – è fruito in comune ed è funzionale allo svolgimento di attività collettive condotte da una comunità di riferimento – studiosx in tutte le articolazioni (dalla studente, al precario, alla docente titolare di insegnamento), corpo studentesco, amministrativx – che le gestisce in modo partecipato. Sono dunque presenti tutti gli elementi elaborati dalla teoria come costitutivi del bene comune: risorse fruite collettivamente, gestione condivisa o partecipata, comunità di riferimento che individua le risorse in comune ed è attraverso esse identificata10. Peraltro, proprio a partire da quest’angolo visuale è possibile mettere a punto un’analisi delle disfunzionalità del sistema università che puntualmente coincidono con deficit di democrazia, cioè con la marginalizzazione della comunità di riferimento rispetto alle scelte base concernenti l’uso e la produzione delle risorse comuni, materiali e, soprattutto, immateriali11. b) I meccanismi di accentramento del governo della ricerca e della didattica in istituzioni altre rispetto alla comunità universitaria12 investono immediatamente la produzione della conoscenza dentro l’università. Sul carattere di bene comune della conoscenza ci sono pochi dubbi. La conoscenza è un prodotto collettivo in senso autentico e progressivo, e fa capo ad una comunità indeterminata o, quanto meno, non chiusa o precisamente circoscrivibile come la comunità universitaria13. Rispetto all’istituzione universitaria-commons, il ‘sapere universitario’ ha dunque carattere tendenzialmente espansivo, nel senso che per sua vocazione è destinato a non restare rinchiuso entro i confini della comunità che lo produce. In concreto però i fenomeni di recinsione dell’immateriale, il c.d. second enclosure movement (Boyle, 2003), ossia la creazione di diritti di esclusiva sui risultati della ricerca, investono in pieno la produzione di conoscenza nell’università e tendono a saldarsi col sistema di valutazione e, più in generale, coi meccanismi di progressione delle carriere fondate sulla competizione fra ricercatori. Sappiamo bene quanto rilevino i brevetti nella valutazioni di strutture e ricercatori e, ad un tempo, quanto poco siano apprezzate le co-authorship se prive di attribuzione di parti distinte ai singoli autori. Così se da una parte il sapere universitario brevettabile è distolto dalla sua ‘naturale’ espansività per essere artificialmente recintato attraverso gli strumenti della proprietà intellettuale, dall’altra questi ultimi, a dispetto di tutte le critiche mosse da varie angolazioni al mito romantico dell’autore, enfatizzano la creazione individuale e negano il carattere collettivo della produzione della conoscenza. Questo sistema è da un lato funzionale al ranking delle strutture e dei ricercatori, dunque alla competizione all’interno della comunità che produce conoscenza14, dall’altro all’estrazione di valore da quanto creato collettivamente. Più precisamente, dall’allocazione di tale valore al di fuori della comunità universitaria prende forma un modello di università, quello attuale, che mima l’impresa, ne utilizza gli strumenti giuridici, si fa addirittura impresa in alcune sue articolazioni come gli spin off 15. La cosiddetta terza missione dell’università – che ricomprende tutte le attività con le quali le università “entrano in interazione diretta con la società ” (ANVUR 2013; enfasi nell’originale), si mostra così come un contenitore ambiguo che finisce con l’interessare anche le cliniche legali. Non a caso, la terza missione colloca fianco a fianco sia la “valorizzazione economica della conoscenza” – come brevetti o spin off – sia le attività di carattere “culturale e sociale” nell’ambito delle quali “vengono prodotti beni pubblici che aumentano il benessere della società” (ivi). In altre parole, attraverso il ranking delle strutture universitarie, la cooperazione culturale e sociale viene messa a valore in tutte le sue possibili espressioni.

5. La clinica legale come commons trasformativo

c) La clinica legale, interpretata e agita come bene comune, declina in termini attuali la vocazione sociale delle law clinic degli esordi, che muovendo da istanze di giustizia sociale hanno inventato forme militanti di access to justice. Le cliniche legali integrano (o possono integrare) commons dalla connotazione fortemente trasformativa poiché la loro finalità precipua è quella di condividere la conoscenza prodotta nell’università con l’esterno, con la più ampia comunità che vive fuori dai confini dell’università. Ciò ha delle ricadute anche in termini di access to justice, nella misura in cui questa venga concepita come un processo sociale. Come sottolineato da Tushnet (1984), nelle cliniche legali gli studenti hanno la possibilità di avere a che fare un’esperienza giuridica non strutturata, ovvero, non ancora definita dalla relazione tra l’avvocato e l’assistito, dalle discipline accademiche, dai massimari della giurisprudenza, e così via. Temi, priorità e obbiettivi vengono costruiti a partire dai concreti portatori di diritti con la quale la clinica di volta in volta entra in relazione. Ma la scoperta di poter affermare in giudizio le proprie ragioni non è certo questione di poco conto (ivi, p. 278), dal momento che nei massimari della giurisprudenza finiscono per lo più le questioni di interesse per soggetti che hanno un capitale sociale, economico o culturale tale da potersi permettere tutti i gradi di giudizio. La clinica legale, in altre parole, consente a temi spesso trattati come marginali dalla cultura accademica (quando non del tutto ignorati) di contaminare i saperi giuridici tradizionali. La sua fisionomia di bene comune è inoltre immediatamente evidente per via della struttura collettiva e tendenzialmente non gerarchica che caratterizza vuoi il suo funzionamento, vuoi la produzione di sapere giuridico „del caso concreto‟ cui da‟ luogo16.

La clinica legale attualizza pertanto la nozione di bene comune più aggiornata e militante proprio perché la sua funzione non sta semplicemente nel garantire l‟uso e la gestione collettiva delle risorse immateriali che la individuano, ma redistribuisce quelle risorse al di fuori della comunità di riferimento, rafforzando o creando ex novo legami di solidarietà sociale (e politica) fra la comunità studentesca e gli attori sociali al di fuori di essa. L‟attività delle cliniche legali da una parte redistribuisce potere sociale e simbolico consentendo a soggetti, in vario senso definiti marginali, di divenire attori sulla scena della giustizia – e certamente l‟analisi governamentale non vale, in quanto tale, ad oscurare l‟impatto dell’adjudication sui rapporti di forza all‟interno della società; dall‟altra essa crea vere e proprie forme di reddito indiretto e si iscrive nei processi di produzione di welfare dal basso attraverso cui prendono forma le istituzioni del comune. Allo stesso tempo, essa appare idonea, almeno allo stato, a „schivare‟ i meccanismi di cattura del valore perché pur „usando‟ la conoscenza prodotta dentro l‟università per redistribuirla, si presenta come una forma di didattica e dunque si sottrae, almeno tendenzialmente, ai meccanismi di enclosure dei saperi che parlano il linguaggio dell‟innovazione e, pertanto, della ricerca.

In definitiva, la clinica legale, proprio in virtù di una genealogia complessa che si è qui cercato di mettere in evidenza, è uno strumento didattico suscettibile di usi diversi: può stare tranquillamente dentro i processi di commodification della conoscenza prima accennati (si pensi alle cliniche legali progettate per fornire consulenza alle banche). Ma può invece costituire un‟enclave di resistenza al modello dominante e di reinvenzione di forme di comune dentro l‟università. Questa conclusione provvisoria consente infine di giocare in senso tattico la coloritura vagamente sociale con cui la riorganizzazione dall‟alto dell‟università è presentata nei documenti ANVUR17. Poco importa, infatti, che il focus della terza missione sia prevalentemente orientato alla sottrazione della conoscenza prodotta dall‟università al public domain. La strada per la restituzione di una parte sia pur piccola e settoriale di sapere al dominio pubblico e alla cooperazione sociale è comunque tracciabile all‟interno di quello stesso contenitore. E a quanto sembra in un numero sempre più ampio di università italiane ci sono le premesse, le motivazioni e le soggettività pronte a percorrerla.

*(pubblicato nel fascicolo n.53, 2015 di Parolechiave (Carocci), dedicato al tema “Giustizia”)

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Rabin R. (1976), Lawyers for Social Change: Perspectives on Public Interest Law, in Stanford Law Review, Vol. 28, pp. 207-261.

Tushnet M. (1984), Scenes from the Metropolitan Underground: A Critical Perspective on the Status of Clinical Education, in George Washington Law Review, Vol. 52, pp. 272-279.

Twiss B. (1942), Lawyers and the Constitution : how laissez faire came to the Supreme Court, Princeton University Press, Princeton.

 

 

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  1. Le autrici hanno promosso alcune tra le prime esperienze di clinica legale in Italia. Nello specifico, Enrica Rigo ha fondato nel 2010, e da allora coordina, la Clinica del Diritto dell’Immigrazione e della Cittadinanza nata presso il dipartimento di Giurisprudenza dell’Università Roma Tre; Maria Rosaria Marella ha fondato e coordina la Law Clinic “Salute, ambiente e territorio”, nata nel 2013 presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Perugia. 

  2. Sul tema si segnala la ricerca, a oggi in corso, condotta da Clelia Bartoli in collaborazione con lo “European Network for Clinical Legal Education” e finanziata dall’eurodeputata Cécile Kyenge, membro del Comitato Libertà Civili, Giustizia e Affari Interni. 

  3. Per il programma della conferenza si veda il sito http://www.gaje.org/conferences/7th-worldwide-conference/ (ultimo accesso 27 marzo 2015). 

  4. Agli inizi degli anni ’40 Benjamin Twiss parlava degli avvocati come di campioni dell’egoismo utilizzando evocando la metafora del cane nella mangiatoia (“dog in the manger”), narrata da Esopo, che impedisce al bue di avvicinarsi al fieno solo perché lui stesso non ne può godere (Twiss, 1942). Il passo è citato anche in Rabin (1976). 

  5. L’espressione “pubblic interest law” viene generalmente ricondotta al movimento di tutela dei consumatori che, negli anni settanta, si è coagulato attorno alla figura carismatica di Ralph Nader, avvocato e attivista politico statunitense di origini libanesi. Su professioni legali e “public interest law”, Rabin (1976). 

  6. Secondo l’influente filosofo scozzese, le leggi che si imparano durante i propri studi sono mutevoli, ma non è così per le abilità di soppesarle, valutarle e proporre argomentazioni che costituiscono l’ossatura della formazione giuridica: “La valutazione critica delle leggi nel contesto sociale appartiene appieno al processo di formulazione e verificazione delle argomentazioni” (MacCormick, 1985, p.178). 

  7. Per l’Italia, si vedano le posizioni espresse negli stessi anni da Carnelutti (1935). 

  8. Al tema aveva dedicato studi importanti già negli anni Settanta Mauro Cappelletti. Per una sintesi e una discussione dello studio di Cappelletti si vedano Id. (1979); Marini (1980). 

  9. Proprio in questa chiave, è da attendersi che quanto più grande è il peso e la diffusione dei conflitti „marginali‟- per l‟emarginazione o la debolezza degli attori sociali coinvolti – che le cliniche legali sono in grado di includere nel sistema della giustizia, tanto maggiore sarà la considerazione che le cliniche legali stesse guadagneranno in termini di riconoscimenti istituzionali e persino di finanziamenti. 

  10. Sia consentito il rinvio a Marella (2012). La possibilità di qualificare l‟università come commons è peraltro ribadita da recenti studi statunitensi che si esercitano ad applicare lo schema del commons al di fuori del suo ambito più tradizionale; Cfr. M.J. Madison, B.M. Fischmann & K.J. Strandburg (2009) . 

  11. In concreto il grado di condivisione nelle scelte gestionali è nel sistema italiano a dir poco insoddisfacente, affidato com’è a meccanismi misti di democrazia diretta e rappresentativa che danno corpo a un sistema nei fatti fortemente gerarchico e a un governo verticistico, ben lontano da una autentica condivisione. Soprattutto il sistema di valutazione attualmente vigente, unitamente ai meccanismi di finanziamento della ricerca, affidati per lo più a bandi europei, sottraggono alla comunità le scelte fondamentali concernenti gli obiettivi e gli oggetti della ricerca e della didattica, che risultano pertanto eterodeterminati. 

  12.  In Italia l‟Agenzia nazionale di valutazione del sistema universitario e della ricerca (ANVUR), affiliata alla European Association for Quality Assurance of Higher Education (ENQA). 

  13. Da questo punto di vista, la conoscenza ha dunque un carattere potenzialmente trasformativo in quanto espressione del comune (Hardt & Negri 2009). 

  14. Per un approccio critico al sistema di valutazione, si veda Pinto (2012). 

  15. Da Wikipedia, voce Spin-Off (diritto): “…l’essenza dello spin-off consiste nell’ideazione di un’innovazione in un ambito di ricerca universitaria, o di attività incentrata in differenti core business, in cui l’innovazione non troverebbe adeguato spazio e/o in cui non si voglia o non si possa sfruttarne adeguatamente le potenzialità commerciali, di fatto creando quindi l’esigenza di dare uno sbocco sul mercato a quell’innovazione mediante una nuova società.”. 

  16. Si consenta ancora il rinvio a Marella (2012, spec. 28). 

  17. Il documento su citato (ANVUR 2013) parla espressamente di public engagement