di FRANCESCO RAPARELLI.

Le brevi note che seguono servono a proporre un lavoro politico comune, di base e di ricerca nello stesso tempo, e indicano una prima (provvisoria e parziale) mappa. Le informano una convinzione: solo una rinnovata insistenza sull’inchiesta, e dunque sulle lotte (di classe) metropolitane, può disporre sul giusto terreno la coalizione sociale di cui c’è urgenza, o i processi di «verticalizzazione» che pure sembrano necessari. Sì, piena coincidenza tra lotte e inchiesta. Nella consapevolezza dello scarto che sempre sussiste tra verifica singolare e immaginazione programmatica. Ma nella determinazione, assai marxiana, che solo le collisioni singolari/molecolari, nel loro accumulo discontinuo, possono assumere «il carattere di collisione tra due classi».

 Il vuoto italico di questi mesi non aiuta la ricerca. Anzi. Sollecita scorciatoie, quasi sempre allontana dal lavoro politico di base, quello scarsamente preso in considerazione dai riflettori mediatici, quello sommerso dalle fatiche di un sociale non solo disperso, frammentato, ma anche rissoso, spesso sconfitto, quando non depresso. Eppure risulta difficile capire, se non in questo campo polemico, dove una militanza comunista priva di nostalgia dovrebbe provare a muovere i suoi passi migliori. A maggior ragione con la cronicizzazione della crisi europea e globale, che fa dell’«accumulazione originaria» regola permanente: come leggere diversamente i processi di impoverimento e/o declassamento? gli attacchi, forsennati e continui, al salario diretto e indiretto? le recinzioni dei commons e il carattere estrattivo e finanziario del capitale?

 Se scrivo e sollecito questa ricerca pratica, lo faccio a partire dallo sforzo collettivo che, a Roma, stiamo portando avanti con le Camere del Lavoro Autonomo e Precario. Per una descrizione più dettagliata, rinvio al sito e ad altri testi, ora mi limito a poche battute, utili a dare riferimenti minimi. Le Camere nascono nell’autunno del 2013, in tre spazi autogestiti di Roma, e si connettono in una comune associazione sindacale. Gli spazi sono: la fabbrica recuperata Officine Zero (Casal Bertone), l’atelier autogestito Esc (San Lorenzo), lo studentato autogestito Puzzle (Tufello). CLAP difende lavoratrici e lavoratori senza tutele, quelle/i escluse/i dal welfare, il lavoro che nessuno difende, quello autonomo (partite Iva, freelance, professionisti atipici e degli ordini) e precario, chi il lavoro lo perde, chi lavora e non viene pagato. Nel farlo, prova a connettere tre funzioni che, nella crisi dei sindacati tradizionali, tendono sempre più alla scomposizione: servizio (assistenza legale e fiscale), organizzazione (delle lotte), mutualismo (tra le lotte).

 Nell’esperienza fatta in questi due anni, anche in combinazione con il Laboratorio romano dello Sciopero Sociale o nella Coalizione dei lavoratori autonomi “27 febbraio”, sono emersi in primo piano nodi o focolai su cui varrebbe la pena appuntare l’attenzione. Va da sé che si tratta di lotte molecolari, che faticano a diventare vettori di generalizzazione, che indubbiamente ancora molti passi devono compiere nel senso della coalizione che serve. Si presentano come piccoli cristalli, cristalli liquidi neanche a dirlo, «specchio del vivente» metropolitano e della sua crisi. Per punti.

 Lavorare nella Sanità. Mentre la Legge di stabilità sancisce un taglio alle spese sanitarie di 15 miliardi in 3 anni, si estende la maglia delle Sanità privata, in particolare di quella integrativa. Nel Lazio parliamo del 70% circa della Sanità pubblica: fondi pubblici, commisurati ai posti in convenzione e alla capacità produttiva, ma gestione privata della forza-lavoro. Parliamo di lavoro altamente qualificato, ma pagato sempre meno, spesso in ritardo. Al rapporto di lavoro di tipo subordinato si è sostituito, in percentuali fuori controllo, la collaborazione con partita Iva. Spesso la partita Iva è “agita” dal lavoratore, molto più spesso è subita e gli indici di subordinazione del rapporto sono sfacciati. Di più, ai ritardi nei pagamenti della prestazione possono accompagnarsi veri e propri buchi o mancati pagamenti. Per un anno, a volte di più. Il committente pubblico, in assenza di lotte, finge di non vedere, se vede non si muove. E il lavoratore fatica a incrociare le braccia: il lavoro di cura è in primo luogo una relazione, difficile da rompere. I datori lo sanno, promettono e sfruttano senza posa.

 Terzo settore. C’è una altra faccia di Mafia Capitale, quella che non interessa alla stampa che conta, quella per cui non si sbizzarriscono grillini e penne manettare: il lavoro non pagato. A Roma il caso ha raggiunto un’estensione drammatica, ma forse è tema nazionale. L’esternalizzazione dei servizi sociali ha ridisegnato il welfare urbano, e questo è vero da tempo. Ma, nella crisi, il terzo settore ha dato il meglio di sé, spostando l’asticella dei diritti di chi nel sociale lavora da poco a quasi nulla: non solo l’Expo di Milano, ma la Capitale e i suoi servizi sono tenuti a galla dal free job. Ammortizzare i tagli significa, per la maggior parte, pagare tardi o mai gli operatori sociali. Anche in questo caso forza-lavoro molto qualificata, spesso giovane. Anche in questo caso, è fatica incrociare le braccia o fronteggiare la cooperativa. Nel terzo settore, che è sempre lavoro di relazione e di cura, saltano i confini, la densità affettiva conquista la scena produttiva. Rompere la “comunità” e aprire la lotta significa affrontare tensioni durissime, in primo luogo con sé stessi, poi con gli utenti, che non sempre capiscono o accettano.

 Lavoro autonomo. È senso comune, nella sinistra e nel sindacato italici, confondere lavoro autonomo e impresa, partita Iva ed evasore. Di più: secondo questo senso comune, il lavoro autonomo sarebbe, per sua natura, ricco. Chi non è ricco, ha le spalle coperte dalle rendite familiari o da molto altro. Tutto ciò, almeno da un ventennio, è falso. Con la crisi, dunque da quasi un decennio, questa falsità grida vendetta. E finalmente anche i numeri, le prime inchieste quantitative, cominciano a chiarirlo.

 Secondo l’ISFOL, i professionisti autonomi e i freelance che non sono imprenditori e non hanno dipendenti sono 3,5 milioni, e producono il 18% del PIL. Ma è nell’inchiesta svolta recentemente da Daniele Di Nunzio ed Emanuele Toscano (per l’associazione Trentin e la FILCAMS-CGIL) che troviamo altri dati importanti: il 57,8% di un campione di 2210 autonomi guadagna fino a 15 mila euro lordi all’anno; il 13,2% tra i 15 e i 20 mila euro, il restante 28,9% più di 20 mila euro. Il pregiudizio, tenace, risponde: no, si tratta di finte partite Iva, di lavoro dipendente mascherato. Vero, ma solo in piccola parte.

 Scavando tra i numeri, emerge una verità assai scomoda, tanto per il sindacato quanto per l’auto-percezione del lavoro professionale e della conoscenza: gli autonomi sono componente significativa dei contemporanei working poor. Affermazione che vale per freelance e professionisti atipici, così come per le professioni degli ordini (avvocati, giornalisti, architetti, ecc.), un tempo contraddistinte da redditi alti e prestigio sociale. Non soltanto, infatti, crollano i compensi o aumentano i ritardi nei pagamenti; ad aggravare la situazione ci sono tanto l’accanimento fiscale e previdenziale quanto l’esclusione dal welfare (malattia, ammortizzatori sociali, ecc.). Il mondo degli autonomi, seppur segnato da alti livelli di formazione, si scopre tra i più fragili, economicamente e socialmente.

 Lavoro migrante. Aiutiamoci, ancora, con i numeri. I posti di lavoro perduti in Italia durante la crisi, tra il 2008 e il 2014, sono 954 mila. Si tratta, chiaramente, del saldo fra le perdite di alcune categorie di lavoratori e gli incrementi di altre. I lavoratori di nazionalità italiana hanno perso 1 milione e 650 mila posti, ma i lavoratori stranieri ne hanno guadagnati circa 700 mila. I lavoratori relativamente giovani (under 45) hanno perso 2 milioni e 700 mila posti, ma quelli relativamente vecchi (over 44) ne hanno guadagnati quasi 1 milione e 800 mila. E dentro ciascuna di queste categorie, le donne occupate sono sempre andate meglio dei maschi. Più migranti, più anziani, più donne: i tratti caratteristici della modificazione strutturale del mercato del lavoro italico. I migranti, in particolare, conquistano la scena un po’ ovunque, a Sud, dove sono oltre il 90% della forza-lavoro agricola, come a Nord (logistica). A Roma, oltre che nei cantieri edili, si addensano nella ristorazione e nel commercio. Spesso senza contratto, quasi sempre pagati meno degli italiani (con obbligo a restituire parte del salario al datore, affinché quest’ultimo ammortizzi le tasse), molto spesso non pagati, se non maltrattati.

Stiamo parlando di campi assai ampi, all’interno dei quali, a Roma, abbiamo avviato e a volte concluso positivamente le prime vertenze. Ma siamo solo all’inizio, tanta la strada da fare. Eppure emergono i primi elementi comuni, decisivi per costruire, dal basso, pretese e programma: sotto-occupazione, anche quando la forza-lavoro è altamente qualificata; svalorizzazione del lavoro; lavoro gratuito. In questi campi – sicuramente ce ne sono altri altrettanto fondamentali – e a partire da questi elementi varrebbe la pena riaprire l’inchiesta, fare coalizione.

 

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