di MARCO ASSENNATO e TONI NEGRI.

Cofferati dice: attenti, quello che si è costituito con La Sinistra non è un partito ma un gruppo parlamentare; Rodotà dice: bisogna costruire un “terminale” sociale. A nostro parere, non avendo nulla in contrario alla costruzione di gruppi parlamentari e/o di terminali sociali, sembra comunque inopportuno che il gruppo parlamentare e/o il terminale sociale si confondano l’uno con l’altro. Se il punto d’arrivo vuol dare figura al punto di partenza, è scorretto; se il gruppo parlamentare vuol presentarsi come partito è scandaloso. Qui di seguito introduciamo con alcune note il dibattito su un documento che è stato posto alla base della costruzione de La Sinistra italiana.

Recuperiamo un testo di Carlo Galli che si presenta come piattaforma ideologica della nuova Sinistra Italiana. Un testo curioso, che lascia pensosi. Galli, com’è noto, è stato pensatore limpidissimo nelle celebri pagine che ha dedicato a Carl Schmitt, molto più chiaro di quanti, negli anni ’80, hanno voluto cercare nel giurista nazista ricette per l’avvenire del movimento operaio organizzato. Ed è un autore che ha compiuto negli ultimi venti anni un doloroso e sincero avvicinamento, dal suo originario liberalismo anticomunista, verso sinistra. Ma questo testo, intitolato Molte fini, un nuovo inizio. Tesi per una sinistra democratica, sociale, repubblicana [→ qui], non rende davvero giustizia al suo autore. Proviamo dunque a costruirne una critica puntuale. Le tesi si configurano – in effetti – come sistematiche: Metodo; Lavoro ed Economia; Politica; Partito, in negativo (il PD); Partito, in positivo (Sinistra). Subito ci scappa un sorriso: «è da superare il togliattismo senza Togliatti. Il realismo senza grande idea da preservare e da realizzare non è sinistra, ma è solo opportunismo». Ci chiediamo se un tale incipit sia ironico. Dobbiamo supporre, purtroppo, che non lo sia. Non possiamo certo – per ragioni biografiche e anagrafiche – argomentare oltre: cederemmo al prurito di stendere qui ed ora un elogio, una volta tanto, del Migliore e del suo comunismo terzinternazionalista. Tanto per dire che non val la pena di mischiare capre e cavoli. Ma sarebbe di cattivo gusto e quindi – sorridendo perplessi – andiamo oltre.

Un metodo in ritardo.

Carlo Galli denuncia «la miseranda situazione in cui versa la socialdemocrazia europea» scoprendo post-faestum la strutturale organicità della terza via di Blair e Giddens, rispetto all’impianto neoliberista. Vien da dire: meglio tardi che mai. Almeno qualcuno ricorda che se il PD di Renzi è quello che è, non lo si deve a un qualche Blitzkrieg di palazzo, ma ad una lunga contrapposizione, praticata e rivendicata dal più grande partito della sinistra italiana rispetto ai corpi sociali. Al fatto insomma che il PDS, poi i DS, fino al PD, hanno praticato una lettura sistematicamente subalterna e reazionaria del salto di paradigma economico-politico avvenuto negli ultimi lustri. Anzi: suggeriamo a Galli di allargare l’archeologia al PCI di fine anni settanta, così da disinnescare in anticipo un’ennesima nostalgia: perché lì le istituzioni del movimento operaio ricusarono definitivamente il loro legame organico con il proletariato metropolitano. Due società, si diceva allora, una democratica e repubblicana e l’altra nichilista e terrorista, si contendono il campo. I partiti della Repubblica, perciò, indossarono l’elmetto. Sono cose, queste, che chi vuole può ormai chiaramente vedere.

Oggi la contraddizione centrale è quella che contrappone ristretti strati elevati, in grado di comprendere le dinamiche del capitale mondiale, e di determinarle attraverso leve economiche o tecnico-burocratiche (a tali strati si aggiungano le forze capitalistiche medie), e gli immensi strati subalterni perennemente agiti e incapaci di protagonismo. La contraddizione centrale è insomma che la società degli individui concorrenziali, che dovrebbe essere il trionfo dell’umanesimo moderno, è organizzata in modo tale che la grandissima maggioranza delle persone è sottoposta a processi di spossessamento dell’autonomia (economica e intellettuale) di cui non è pienamente consapevole (grazie al ruolo mistificatorio dei media).

Il testo intreccia la retorica solita su radicalismo ed estremismo, alto e basso della società, il piagnisteo sugli «strati subalterni perennemente agiti e incapaci di protagonismo», la lamentatio sull’inconsapevolezza dell’individuo atomizzato e il peana del «disagio, anomia, apatia o protesta populista». La sinistra dunque è innanzitutto, secondo Galli, un lavoro sulla coscienza e sullo spirito individuali, la rottura dell’inconsapevolezza dei minorati e subalterni che agitano la deriva delle nostre società. Un intellettuale collettivo o un corpo istituzionale d’élite, che porta il popolo beota a più miti consigli.

L’ordoliberismo che è esplicitamente contenuto nei Trattati europei e che implica l’esportazione a tutta l’Europa dell’ideologia economica tedesca e del modello del marco, è una potentissima ideologia capace di effetti pratici notevoli, ma naturalmente elude e nasconde la grande divisione della società e i suoi conflitti; oltre a fondarsi su un’idea e una pratica di società organica che risultano in realtà socialmente consociative e teoricamente fondate sull’assunto della naturalità del mercato interpretato come se questo fosse di pari rango rispetto alla politica, l’ordoliberalismo è al servizio di una declinazione dell’economia in senso neomercantilista che produce una gerarchizzazione delle economie europee intorno al centro tedesco (unico punto necessario, da perseguire con ogni mezzo).

Come si vede, la sezione su lavoro ed economia prosegue la diagnosi delle perverse astuzie della storia neoliberista, ridotta ad «ideologia». Vi si squaderna allora la fine delle illusioni: dell’organica composizione tra interessi del capitale e interessi del lavoro; del naturale diffondersi di benessere a partire dal sostegno ai profitti d’impresa; della meritocrazia; e così via seguitando. Per esplodere infine in una scoperta e in un’orgogliosa, quanto patetica, protesta. La scoperta: «il disposto dell’articolo 3 della Costituzione è sostanzialmente violato». La protesta: «Lo Stato non è l’infermeria del Capitale».
Il tono indignato prosegue nella sezione Politica, nella quale leggiamo: «deve finire la denigrazione qualunquistica e reazionaria della politica e del ceto politico […] e con questa anche l’idea che i corpi politici e sociali intermedi, partiti e sindacati siano realtà essenzialmente burocratiche e parassitarie». Contro il qualunquismo imperante nel sistema mainstream, l’autore si propone di difendere le assemblee elettive repubblicane dall’assalto all’arma bianca subito per mano di «un leader para-carismatico, supportato dall’imponente dispiegamento dei media». Da qui la critica rivolta al Partito Democratico, che è ormai – secondo l’autore – come la DC e la proposta, subito praticata, di uscire via da quella organizzazione che ormai «difende lo status quo». Come da qui la proposta di un «nuovo riformismo» che «riequilibri il rapporto capitale lavoro», piattaforma decisiva di questo nuovo soggetto, ispirato dai valori della Costituzione Repubblicana e tutto rinserrato nei confini saldi e sicuri del territorio italiano.

Vecchi ricordi.

Che dire a questo punto? Anche a noi vengono in mente vecchi ricordi. Ad esempio: in un celebre scritto del 1° maggio 1990 [Post-scriptum sur les sociétés de contrôle, → qui; una traduzione italiana → qui], Gilles Deleuze articolava, a partire dal lavoro di Michel Foucault, una serie di differenze specifiche che il tempo presente impone alle pratiche di trasformazione politica. La reazione isterica, il rigetto cieco e violento con il quale gli intellettuali della sinistra italiana hanno recepito Deleuze lungo il ventennio ’70-’90, sono noti, e non val la pena di soffermarvisi oltre. Non più, almeno, della considerazione che merita il ridimensionamento ad ostico teoretico, le piaghe heideggeriane o lacaniane, che vengono imposte dalla letteratura accademica italiana al suo pensiero. Si tratta, ci pare, di sintomi storici. Essi segnalano un limite invalicabile, per chi non riesce a sopportare di sbirciare il mondo da quelle lenti, per vedere se un qualche appiglio si trova, da articolare in lavoro politico. Torniamo quindi a quel celebre post-scriptum sulle società di controllo. Diceva Deleuze: Foucault ci ha lasciato una straordinaria cartografia delle società disciplinari. Ne ha individuato il luoghi reali – la famiglia, la scuola, la caserma, la fabbrica, l’ospedale, la prigione. Li ha spezzati per discernervi il rumore sordo della battaglia. Due forze, l’una in contrasto con l’altra, si contendevano il campo disegnando, di volta in volta, originali rapporti di potere e di sapere. Le società disciplinari tendevano a concentrare, distinguere, ordinare, comporre «una forza produttiva il cui effetto deve essere superiore alla somma delle forze elementari». Qui stava la loro forza e qui la loro tragedia.
Ma Foucault ha anche dimostrato, diceva Deleuze, quanto breve sia stato in effetti questo percorso. Quanto rapidamente le società disciplinari siano entrate in crisi. Da qui un problema. Il movimento operaio e sindacale europeo è stato legato in tutta la sua storia alla «lotta contro la disciplina», al conflitto all’interno degli «ambienti di confinamento». Vi ha praticato forme di antagonismo efficaci e vincenti. La bestia meccanica del regime di fabbrica non ha sbranato la sua preda. Al contrario. La storia del movimento operaio degli ultimi trent’anni, certo complessa, non è affatto innocente. Lo stato regolatore che amministrava la pianificazione capitalistica, con il suo intero sistema di rappresentanza, come anche il regime di fabbrica, la scuola di massa e di classe, la famiglia tradizionale, i regimi di cura, i costumi borghesi, sono stati mandati a carte e quarantotto da una stagione intensa di lotte sociali. Si è trattato di un antagonismo di soggetti praticato in una guerra civile, perché tale era diventato il rapporto capitalistico nella seconda metà del Novecento.
unita_salario_di_merdaI padri (o i nonni) del comunismo volevano che la classe operaia distruggesse se stessa, per distruggere la fabbrica e il rapporto di sfruttamento industriale. Sarebbe forse ora di cominciare a dire che se non esiste più la classe operaia classica, quella che soffriva un salario di merda e un lavoro di merda – titolo celebre di un giornale togliattiano – è forse perché un conflitto è stato praticato, con tutta la sua ambivalenza e ambiguità. E se oggi il carattere specifico della forza lavoro risiede più nell’intelligenza, nella cultura, nella capacità di relazione, che nella mera quantità del tempo di vita rubato dal rapporto di valorizzazione, forse ciò dipende da una traiettoria che è stata impressa dall’antagonismo sociale al rapporto di potere delle società disciplinari. Si dirà, a questo punto: dunque s’è fatta la rivoluzione e non ce ne siamo accorti? Ma la domanda soffre ancora di un punto di vista che forse andrebbe abbandonato definitivamente: quello sguardo sintetico, pienamente dialettico, che intende il conflitto politico come binario e catartico, tutto proteso verso una risoluzione, che una volta e per tutte mette un punto sublime alla storia. Un momento magico in cui il reale e i valori, il soggetto e l’oggetto, il giudizio e la disciplina, l’individuo e la totalità, il presente e l’avvenire smettono di collidere e si stringono in un armonico e consolatorio abbraccio.

Lavoro politico e ideologie regressive.

Si dirà allora piuttosto questo: le società disciplinari sono entrate in crisi e sulla scena resta un nuovo dispositivo di controllo che agisce su corpi sociali inediti, composti da proletariato diffuso, migranti, lavoro immateriale e potenze produttive pienamente socializzate. Da una parte, dunque, come suggeriva Deleuze 25 anni fa, una «crisi generalizzata di tutti i regimi di contenimento: prigione, ospedale, fabbrica, scuola, famiglia», che infatti non cessano di essere sottoposti a continue riforme come per dilazionarne la morte certa o almeno «gestirne l’agonia»; dall’altra modulazioni estensive di controllo su corpi biopolitici nuovi, incomparabili a quelli del periodo precedente:

Lo si vede bene nella questione dei salari: la fabbrica era un corpo che portava le sue forze interne a un punto di equilibrio, il più alto possibile per la produzione, il più basso possibile per i salari; ma nella società di controllo l’impresa ha sostituito la fabbrica, e l’impresa è un’anima, un gas. Senza dubbio la fabbrica conosceva già il sistema dei premi, ma l’impresa si sforza di imporre una modulazione di ciascun salario, in uno stato di perpetua metastabilità che passa attraverso sfide, esami e colloqui estremamente comici. […] La fabbrica costituiva gli individui in corpi, con un doppio vantaggio: per il patronato che sorvegliava ogni elemento nella massa; e per i sindacati che mobilitavano una massa di resistenza; ma l’impresa non la smette di introdurre una rivalità inespiabile in termini di sana emulazione, eccellente motivazione che oppone gli individui tra loro e attraversa ciascuno, dividendolo in sé stesso. Il principio modulatore di salario di merito, tenta l’educazione nazionale stessa: in effetti, così come l’impresa rimpiazza la fabbrica, la formazione permanente tende a rimpiazzare la scuola e il controllo continuo tende a sostituire l’esame.

Ora il problema che Deleuze poneva in quel testo è il seguente: come ci si può organizzare di fronte a questo nuovo rapporto di potere, che è insieme massificante, anonimo e individuante, singolarizzante? Un bel problema, che meriterebbe attento studio, scandaglio delle pratiche sociali esistenti, duro lavoro di connessione e organizzazione politica. Invece di fronte a questa domanda lo sguardo della sinistra istituzionale inorridisce e volge altrove. Le tesi di Galli ci paiono un esempio di questo inorridito disprezzo. Si producono perciò in esercizi di autoflagellazione politica, revisionismo debole, compensati dal riemergere qua e là di blande forme di socialismo compassionevole: nuovi umanesimi, nostalgie sovraniste per lo Stato nazionale, canzonette sui bei tempi andati – quando la classe stava ordinata nei ranghi di fabbrica e all’occorrenza veniva fuori in strada, a sporcare di grasso l’abito lindo del buon borghese. Così, si invocano la tutela nazionale del lavoro contro la società plutocratica globale, il ritorno dell’intervento pubblico in economia, politiche per la crescita e la ripresa del dialogo tra le parti sociali: interventi beninteso, attuabili dallo Stato Nazionale Repubblicano, mitico agente sovra-ordinatore ed extra-economico che rimette a posto le disarmoniche dinamiche della storia.
Una bella ideologia regressiva dalla quale si può venir via solo accettando di volersi sporcare un poco le mani, e il vestito. Di guardare negli occhi e camminare accanto ai tanto deprecati soggetti sociali che si anela rappresentare. Ci vuole molto a comprendere che tutta la storia della sinistra politica è stata essenzialmente organizzazione di parte dei movimenti di classe? Tutta: le pagine migliori e anche le peggiori. Una lettura a partire dalle metamorfosi del lavoro e dei nuovi rapporti di classe riconoscerebbe innanzitutto le diverse soggettività sociali investite dalla crisi ed eviterebbe la volgare riduzione delle singolarità produttive in «anomia, apatia, populismo». Così come permetterebbe, di riflesso una ricollocazione dell’analisi istituzionale, realistica e concreta (per usare una parola tanto cara a Carlo Galli). Concreta: cioè in grado di vedere la funzione specifica delle istituzioni e delle Costituzioni nazionali nel contesto della globalizzazione. Come anche l’urgenza di una verticalizzazione almeno europea delle lotte. Quindi: dell’organizzazione politica di cui esse necessitano.
Mentre l’approccio tutto istituzionale di Galli – un vero ritorno dell’autonomia del politico, perduti ormai i riferimenti a Lenin e a Marx – condanna la sua proposta ad anticipare e sostituire i movimenti soggettivi. I quali, per tutta risposta resteranno, facile previsione, del tutto indifferenti a questo blando discorso nostalgico. Per di più con il rischio che la Nuova sinistra preconizzata da Galli, si trovi a collimare effettivamente con le ipotesi neo-nazionaliste del nuovo fascismo europeo: Marine Le Pen fa della repubblica la sua bandiera e quanto resta dello Stato-Nazione lo si può preservare solo erigendo muri, piazzando filo spinato e usando l’esercito contro i movimenti che attraversano l’Europa.

Contro i nazionalismi.

BurroughsSi direbbe, per usare un vecchio paradosso che, con le tesi di Galli, ritorni la sinisteritas: quella lunga vicenda fatale che lega gli intellettuali progressisti ad un destino di inettitudine, goffaggine, incapacità. Che li obbliga ad indossare sempre a rovesciolinks anziehen – i panni della storia. Laddove invece si dovrebbe interpretare il potenziale liberatorio che sempre è contenuto nella rottura dei rapporti di potere e dei vecchi ordinatori politici. Uno sguardo radicalmente immanente potrebbe funzionare esattamente come critica dei sistemi di sicurezza gnoseologica, rompere le gabbie della storia, aiutarci a perdere gioiosamente i miti antichi. Altrimenti il pensiero affoga. Non vede. Brancola nel buio. Si arena nelle gelide steppe della sconfitta socialdemocrazia europea. E ricomincia a cantare la vecchia canzone: lo stato-nazione, la rappresentanza, la costituzione. Operatori politici che avrebbero dovuto fare emergere la razionalità naturale dei rapporti economici che una cattiva gestione capitalistica – avida e individuale – impediva. Possiamo ricominciare di nuovo con questa illusione?
Non ci si accorge che così si evocano semplicemente quegli specifici strumenti di gestione che avevano funzionato al tempo delle società disciplinari? Non si vede che per questa via si precipita facilmente in ipotesi Rosso-Brune? Si evoca un mondo passato nel quale il capitalismo funzionava per concentrazioni, al fine di garantire la produzione di merci e la proprietà privata dei mezzi di produzione. E nel quale il mercato funzionava come spazio di redistribuzione relativa e asimmetrica degli utili.
Ma torniamo allora a Deleuze. A quel bel post-scriptum: nella situazione attuale – diciamo da un trentennio a questa parte – il capitalismo non è più un sistema di produzione, è piuttosto un rapporto sociale che compra prodotti già fatti o migliora prodotti già socialmente realizzati. Vende servizi e compra azioni. Perciò è essenzialmente dispersivo: «la famiglia, la scuola, l’esercito, la fabbrica, non sono più ambienti analoghi e distinti che convergono verso un unico proprietario, lo Stato o una potenza privata». Sono piuttosto figure «deformabili e trasformabili di una stessa impresa che non ha altro che amministratori». Il marketing scava la logica informale del controllo sociale, l’indebitamento lega i soggetti alla macchina di valorizzazione, le agenzie istituzionali nazionali e sovranazionali assicurano la repressione costante degli eccessi di condensazione sociale che le nuove forme del lavoro biopolitico costruiscono senza tregua. Qui è il punto. Rileggiamo Deleuze per ricominciare ad analizzare i meccanismi di controllo e descrivere ciò che già adesso s’oppone e eccede i nuovi regimi di dominio e sfruttamento. Diceva quel vecchio post-scriptum: i nuovi lavoratori del regime di impresa transnazionale devono essere motivati, formati, valorizzati. Per concluderne: «sta a loro scoprire per che cosa servono, come i loro antenati hanno scoperto, non senza pena, la finalità delle discipline. Le spire di un serpente sono ancora più complicate dei buchi di una talpa». Lavoriamo allora affinché il serpente della coalizione sociale europea strozzi nelle sue spire l’incubo del nazionalismo: tanto di destra quanto di sinistra.

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