di SAVERIO ANSALDI.

 

 

Immaginiamo una tiepida e soleggiata domenica di maggio, nel corso della quale la maggioranza dei francesi sia costretta a scegliere fra l’algido François Fillon, il serial killer thatcheriano cammuffato da rispettabile notabile di provincia, e la sorridente Marine Le Pen, l’ultimo baluardo nazional-fascista contro le riforme neoliberali e globalizzate. Una tale scelta potrebbe coincidere con il farsi realtà di quello che un importante settimanale transalpino definitiva questa settimana nel suo titolo di copertina come « un desiderio di destra ». Cerchiamo di capire meglio il senso di un tale desiderio alla luce di quello che i possibili elettori di Fillon e di Le Pen potrebbero esprimere con il loro voto domenica 7 maggio 2017. Va da sé che escludo per ora l’eventualità della presenza di una candidato della sinistra socialista e repubblicana al prossimo scrutinio presidenziale. Le cose potrebbero cambiare nei prossimi mesi, ma l’ipotesi mi pare altamente improbabile visto le divisioni che regnano, anche solo fra il Presidente Hollande e il Primo Ministro Valls, sull’opportunità di proporre un unico candidato « di sinistra » contro quelli della destra .

Mi sembra che si debba in primo luogo intendere un « desiderio di destra » in un senso soggettivo ed oggettivo e che questo « doppio senso » vada applicato agli elettori dell’uno e dell’altro campo. Siamo quindi di fronte a quattro possibili linee intepretative. Qual’è il desiderio soggettivo di destra espresso dagli elettori di Fillon ? Chi sono quelli che l’hanno votato e scelto nel doppio turno delle primarie ? Si tratta in primo luogo dei ceti sociali più ricchi, a cominciare da quelli che sono sottoposti alla tassa patrimoniale (che Fillon vuole appunto sopprimere), del settoro bancario e della finanza, delle assicurazioni, dell’impreditoria medio-alta legata alla Confindustria, dei liberi professionisti, delle rendite speculative legate ai fondi di investimento, dei pensionati con fonti di reddito derivanti dalla proprietà di beni immobiliari. Quella Francia già da sempre ricca che si è arrichita ancora più dopo il 2007 e che intende ad ogni costo e con ogni mezzo difendere tali posizioni. Cosa che Sarkozy non è riuscito a fare fino in fondo. Di qui la sua uscita di scena. Il desiderio oggettivo di questi elettori di Fillon è allora abbastanza semplice da interpretare : più autorità nella difesa del bottino acquisito, accrescimento della frattura fra rendita e salario, messa in liquidazione definitiva degli ultimi cascami del Welfare repubblicano. appropriazione – privatizzazione del capitale delle ultime aziende a participazione statale (trasporti, sanità, difesa). Ci sono ancora ampi settori dell’economia francese sui quali si possono mettere le mani senza sporcarsele troppo. Senza dimenticare la religione. Che ha svolto un ruolo importante nell’elezione di Fillon. Questa Francia è profondamente cattolica, è quella che è scesa in piazza per mesi contro la legge Toubira sulle unioni civili, e che crede fermamente nell’uso del cattolicesimo militante come andidoto all’Islam. Buone azioni (in borsa) e crocifisso, insomma.

Passiamo adesso al desiderio soggettivo dei possibili elettori del Front National. Commercianti, artigiani, piccoli-medi imprenditori, agricoltori ormai privi dei sussidi comunitari, impiegati pubblici e privati con reddito minimo (Smic), ampie frange della classe operaia (soprattutto del Nord) ormai ridotte allo stremo dalla dismissione del settore industriale, pensionati delle piccole e medie imprese. Sono queste le categorie sociali che si rivolgono al Front National e che Marine Le Pen chiama « gli esclusi e i dimenticati » della globalizzazione neoliberale, fomentando il loro desiderio e i loro timori con il solito ritornello dell’immigrazione e della violenza islamista. Cosa chiedono questi elettori lepenisti ? Chiedono più protezione sociale e più sovranità, riduzione degli squilibri salariali attraverso massicci interventi pubblici e uscita dall’Europa e dalla sua moneta unica. Le frontiere e i muri come difesa contro i flussi migratori e la sovranità forte di uno Stato interventista come garanzia di un futuro migliore. Prima la Francia, l’Europa (e il resto del mondo) aspetterà. Una sorta di modello ungaro-polacco al qua del Reno piuttosto che un protezionismo egemonico alla Donald Trump.

Vorrei tuttavia che non ci fosse fraintendimenti su questo punto. Il « desiderio di destra » che si declina in queste quattro forme (soggettive ed oggettive) non rappresenta certo in modo uniforme e compatto quello che desiderano gli altri milioni di francesi che non si riconoscono nelle proposte del Front National e del partito dei Repubblicani. Ma potrebbe invece rappresentare l’unica scelta sulla quale la maggioranza degli elettori dovrà forse pronunciarsi il prossimo 7 maggio. Ed è qui che si apre forse uno spazio di riflessione e di azione che può rivelarsi importante. Come ci ricorda infatti Adorno in un passo della Dialettica negativa, essere liberi non significa poter scegliere fra A e B, ma potersi sottrarre a questa scelta. Si tratta quindi di capire se esistono margini di manovra per realizzare una simile « sottrazione », in altri termini per verificare se il principio logico del terzo escluso possa trasformarsi in una possibilità politica praticabile. Cosa faranno tutti quei francesi che decideranno di non andare a votare per non cadere nella trappola tesa loro dal desiderio di destra ? In effetti la possibilità di un’astensione massiccia al secondo turno delle presidenziali è un’ipotesi che non deve essere trascurata, anche in un paese che possiede uno dei tassi di partecipazione al voto più alti d’Europa. È più che probabile che il rifiuto del desiderio di destra si manifesti in un secondo tempo con la ripresa del ciclo di lotte che ha attraversato il paese la scorsa primavera e che si erano cristalizzate (ma non solo) contro la legge sul lavoro e la riforma dello statuto dei lavoratori promossa dal governo Valls.

Quel ciclo di lotte non è finito. I margini per una sua ripresa dipendono senza dubbio dalla configurazione politica imposta dal secondo turno delle presidenziali. Ma non solo. Essi sono anche definiti dai modi di vita di quei segmenti della società francese che si destreggiano fra precariato e mobilità salariale, ciclo di studi e di formazioni alternate, stages e lavoretti sottopagati, sussidio di disoccupazione e magri contributi pubblici per la casa ed i trasporti. Che vivono nelle banlieues dei grandi conglomerati urbani o sopravvivono alla meglio al loro interno. Modi di vita e di lavoro che sfuggono ad una classificazione rigida e che si sottraggono ad una scelta fra A e B, e forse anche a C, qualora questa terza scelta fosse rappresentata dalla sinistra socialista e repubblicana. Si tratta di quella composizione di classe transversale e differenziata i cui desideri non rientrano in alcun programma politico e che come tale è veramente esclusa dal gioco istituzionale della Quinta Repubblica. È quella che il sociologo Roger Sue ha chiamato in un suo recente saggio la « controsocietà », quella che risponde alla fine del contratto sociale repubblicano creando forme inedite ed innovative di istituzioni orizzontali (associazioni, comitati di sostegno, volontariato) ed organizzando in modo autonomo e non verticalista le nuove forme relazionali del comune1.

Non si tratta quindi di una minoranza disillusa e rassegnata, capace solo di occupare strade e piazze per manifestare il suo impotente malcontento, come ci ripetono quotidianemente i think tankers al soldo dei media e gli esponenenti dei partiti – sia di destra che di sinistra. Si tratta forse di una minoranza, ma che potrebbe esprimere nei prossimi mesi il suo rifiuto del desiderio di destra e affermare il proprio desiderio di altre forme di cooperazione sociale, di altre relazioni intergenerazionali e di altre pratiche del comune.

A patto di non rinchiudersi nella notte della Place de la République ma di rendere visibile quello che già facendo.

 

 

 

 

 

 

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  1. R. SUE, La Contresociété, Parigi, Les Liens qui libèrent, 2016.