Pubblichiamo qui l’editoriale dell’ultimo numero (anno Xl, 1, marzo 2022) della Rivista Critica del Diritto Privato, dedicato ai temi dell’identità e della riproduzione sociale.

Di ADALGISO AMENDOLA e MARIA ROSARIA MARELLA

Adalgiso Amendola – Maria Rosaria Marella

Da qualche decennio il tema dell’identità è al centro del dibattito civilistico e questa Rivista ne è una testimonianza sin dai suoi primi numeri.

L’emergere dell’identità personale, nella giurisprudenza innanzitutto, è stato salutato come l’emblema dell’evoluzione del diritto privato in senso personalistico, il diritto ad essere se stessi figurando come espressione avanzata della libertà di autodeterminazione e dell’assunzione da parte del diritto della complessità della persona umana.

Se dunque l’affermazione dell’identità nel diritto privato è da considerarsi un avanzamento, uno fra i sintomi più espliciti del processo di costituzionalizzazione che lo attraversa, non era e non è scontato associare a tale acquisizione il profilarsi della crisi di una delle categorie fondanti del diritto liberale, la categoria del soggetto di diritto.

In realtà, attraverso percorsi almeno in parte autonomi dal pensiero femminista che per primo ne ha disvelato la matrice, maestri del diritto civile come Pietro Rescigno, Stefano Rodotà, Nicolò Lipari hanno da diversi angoli visuali fatto luce criticamente sulla crisi che attraversa la categoria della soggettività giuridica, plasmata, dietro l’astrattezza del soggetto formale, su di un’identità dominante prepotentemente legata alla proprietà e alla produzione: quella del maschio bianco, adulto, abile, alfabetizzato e possidente. Ecco allora che la crisi della categoria concettuale va indagata attraverso la crisi di quell’identità.  O  meglio, attraverso la crisi dell’opposizione produzione/riproduzione, in cui quel modello si iscrive, e della gerarchia che  la ordina, sovraordinando il primo termine al secondo, a sua volta reso tendenzialmente invisibile ed espulso dal discorso  giuridico, come già abbiamo avuto modo di evidenziare.

Risultato del vacillare di quella gerarchia è l’attuale frammentazione della soggettività giuridica, che si risolve nell’affer- marsi di una crescente pluralizzazione delle identità, più precisamente nell’emersione di molteplici identità non-dominanti, in forte tensione fra riproduzione sociale, donde traggono origine, e produzione – verso cui vengono attratte. Un fenomeno, questo

già chiarito magistralmente da Pietro Rescigno laddove mette in evidenza la “rivalutazione del minore nella sua qualità di persona”, ma anche l’emergere nella trama del diritto di  famiglia della donna, il minore e l’anziano non perché produttori, ma piuttosto come soggetti inseriti in maniera privilegiata nel ciclo del consumi in quanto ‘deboli’.

Pluralizzazione delle identità e frammentazione della soggettività sono, dunque, l’altra faccia della crisi della gerarchia produzione/riproduzione. La visibilità che la riproduzione sociale va via via guadagnando, in modo interstiziale, nel diritto, è fortemente legata all’emersione prepotente delle identità minoritarie. Le donne, le soggettività LGBT+, i minori, gli anziani sono oggi riconosciute dalle carte dei diritti sovranazionali, dalle convenzioni internazionali e dalle costituzioni più recenti come soggettività autonome, destinatarie di specifici ‘pacchetti’ di diritti e di altrettanto specifici divieti  di  discriminazione  nei  confronti del pubblico e nei rapporti fra privati. Non senza tensioni, si diceva, e tentativi di riproporre quella gerarchia in altre forme e nuovi contesti. Poiché le dinamiche di invisibilizzazione sono ancora e sempre in atto: come ha sottolineato da ultimo Angela Harris, il discorso giuridico dominante resta in grado di ostacolare trasformazioni sociali radicali come sono i processi di decolonizzazione, costruendo come non-soggetti le identità razzializzate che si pongano al di fuori dei parametri occidentali.

È dunque evidente che l’identità è ora – per parafrasare Alexis de Tocqueville – “il grande campo di battaglia”. E qui si gioca la responsabilità del giurista. Innanzitutto nel comprendere la realtà sociale in cui iscrive i suoi discorsi.

A cominciare da una prima presa d’atto: la tutela dell’identità nella sua dimensione collettiva ha prodotto e può produrre effetti perversi in varie direzioni. Perciò, se il diritto e le istituzioni giuridiche di norma generano e rafforzano gerarchie  sociali fondate sulle identità, fintanto che l’identità resterà al centro dei progetti di riforma, sarà sempre parte del problema.

Si tratta allora di convogliare il rifiuto dell’identitarismo in una direzione diversa dalla riproposizione di una soggettività ‘spettrale’, spettro di una nozione che ha ormai perduto i suoi riferimenti.

2. Le lotte per il riconoscimento hanno prodotto spesso identitarismi ‘strategici’, dando luogo all’utilizzo dell’identità come chiave per forzare le linee di inclusione e di esclusione: le identità sono stati grimaldelli politici per rafforzare la lotta dei diritti, per ampliare l’ambito delle soggettività accettate come maggioritarie e comunque per trasformarne la mappa. In questo senso, le identity politics hanno evidentemente giocato un ruolo di rottura. Dall’altro lato, le identity politics hanno favorito reidentificazioni essenzialiste, e hanno rischiato di aprire la strada alla tanto temuta frammentazione degli status e alla moltiplicazione all’infinito dei profili soggettivi, dinamiche avvertite da molte parti come autodistruttive rispetto alla forza emancipato- ria dei diritti.

La divisione tra chi sottolinea il ruolo comunque progressivo delle politiche dell’identità, intese come rottura delle gerarchie consolidate e della centralità del soggetto tradizionale, e chi mette in guardia dal loro potenziale distruttivo rispetto alla forza emancipatoria del soggetto ‘universale’, non tiene conto  però delle nuove forme in cui si sta dando oggi la reazione identitaria. Nella guerra culturale che si produce intorno alle identity politics, il richiamo alla forza delle identità non ha più nulla di progressivo. Anzi, l’indentitarismo più chiuso e tradizionalista, e spesso violentemente rivendicativo, non nasce all’interno delle rivendicazioni delle politiche dell’identità, ma struttura i discorsi di chi si esercita nella denuncia continua dei rischi che quelle politiche comporterebbero per una presunta ‘identità occidentale’. Contro le rivendicazioni in termini di ‘razza’ e ‘genere’, si proclama una sorta di nuovo identitarismo, questa volta giocato come reazione all’indebolimento del ‘soggetto occidentale’ che le identity politics provocherebbero. Un identitarismo di ritorno, espressione non più, come il vecchio identitarismo strategico delle identità minoritarie, dell’emersione di nuove soggettività non ricomprese nelle grammatiche tradizionali del riconoscimento, ma, al contrario, incentrato su un’estrema difesa delle identità tradizionali e un tempo egemoniche ora vacillanti. Si tratta appunto, come dicevamo, di una sorta di ritorno spettrale dell’identità, che coincide non con l’affermazione di elementi trasformativi e generativi, di nuove domande e profili emergenti oltre il soggetto formale di diritto, ma della traccia residuale di un  riferimento  identitario tanto più riaffermato quanto più perduto.

Negli ultimi mesi, due esempi hanno evidenziato quanto questo ritorno di identità spettrali condizioni la discussione e il conflitto sulle politiche del riconoscimento e delle identità. Il primo esempio emblematico ha investito un  elemento  cruciale del dibattito europeo sull’identità, qual è sempre il controllo delle migrazioni, in un momento particolarmente cruciale quale è lo scoppio della guerra nel cuore d’Europa. Il dibattito sull’accoglienza di chi è in fuga dalla guerra in Ucraina si è subito incagliato, molto significativamente, sul doppio scoglio  dell’identità e della gerarchia di genere: i paesi europei hanno accettato pienamente l’urgenza morale del riconoscimento del diritto di fuga dalla guerra, ma all’interno del confine chiaramente  segnato da whiteness e riproduzione. Mentre emergeva l’urgenza di un’estensione immediata e universale della protezione umanitaria, alcuni stati dell’Europa orientale (Polonia e Ungheria in primis) hanno immediatamente chiesto di salvaguardare i criteri fondati sulla cittadinanza, escludendo le persone migranti dall’accoglienza. La tensione qui è evidente: da un lato, come molti studi in materia di riproduzione sociale e migrazioni hanno da tempo messo in risalto, la centralità del lavoro di cura e di riproduzione, in tutti sensi – dalla riproduzione strettamente biologica a quella sociale più estesa – mostra il superamento delle gerarchie produttive fondate sul soggetto cittadino, maschio e la- voratore. Si afferma, nell’urgenza di una protezione umanitaria generalizzata, la centralità delle figure di donne, migranti e ‘straniere’ il cui lavoro riproduttvo, relazionale e sociale non può essere più nascosto come marginale e subordinato alle esigenze strettamente produttive. Dall’altro lato, la gestione delle migrazioni, anche nel cuore dell’emergenza di guerra, continua a dover fare i conti con cittadinanza e razza come criteri  di  selezione: così, l’Europa, nel momento in cui si è trovata finalmente a spingere per una trasformazione autenticamente universalista nel governo delle migrazioni, ha dovuto contrattare con una logica dei confini e dell’identità. Si è così riproposto lo schema di una solidarietà riconosciuta soltanto alle donne ‘bianche’, e solo in quanto subordinate, come supporti riproduttivi, erogatrici di cura, a una ancora una volta riaffermata centralità del cittadino maschio, impegnato nei compiti di difesa militare.

La logica neoidentitaria è emersa anche nel lungo dibattito che ha portato alla non approvazione, per il momento, del discusso ddl Zan sull’allargamento all’identità di genere della tutela antidiscriminatoria. La  preoccupazione  espressa  da  più parti è stata tutta all’insegna dei timori per l’ulteriore indebolimento delle identità giuridicamente protette: come se l’inserimento dell’identità di genere accanto alle altre differenze, ne comportasse la svalutazione, una sorta di inflazione delle identità. Eppure, anche in questo caso, aiuterebbe uno sguardo alle trasformazioni concrete dei rapporti lavorativi e sociali su cui incidono le normative  antidiscriminazione.  Chi  ha  sottolineato la centralità del lavoro di riproduzione sociale, ha messo in luce come questa non più nascosta centralità fa emergere in primo piano, nella forza lavoro, non più la classica ‘prestazione lavorativa’ standard, ma un lavoro relazionale, affettivo, che pervade, ventiquattr’ore su ventiquattro, tutta la vita lavorativa, rendendo poroso il confine tra tempo di vita e tempo di lavoro, e, ancora una volta, facendo saltare l’immagine di un lavoro produttivo misurabile e astrattamente separabile dall’attività relazione, affettiva e di cura che lo attraversa. L’identità di genere, in questa trasformazione, non segnala affatto ‘un’identità in più’ da tutelare, una ulteriore ‘nuova’ differenza distinta e separata di cui si chiede una nuova tutela: segna, al contrario, una dimensione di ricchezza trasformativa che riguarda ogni identità, che chiede tutela ora anche mentre costruisce e decostruisce il ‘suo’ genere all’incrocio tra natura e cultura, in un potenziale espressivo che attiene alla capacità relazionale affettiva della persona. La reazione identitaria qui ancora una volta, giocando sul timore dell’indebolimento identitario e della moltiplicazione degli status, finisce per non cogliere la trasformazione interna e relazionale delle identità, di tutte le identità, che emerge nella richiesta di nominare l’identità di genere. Ancora una volta: saper leggere la centralità della riproduzione sociale oltre l’opposizione  tra mondo produttivo – quello dei cittadini laboriosi e dotati di identità centrali e consolidate – e mondo ‘improduttivo’, abitato dalle soggettività marginali e spesso in transizione e in divenire, permette di riconoscere la centralità del potenziale espressivo e relazionale delle identità, contro i blocchi ‘binari’ costruiti intorno all’identitarismo difensivo, da ‘tramonto della civilità’, con il cui ritorno continuiamo a fare i conti.

3. L’impatto sul diritto e i suoi soggetti dell’emergere di questi aspetti aperti e generativi delle identità, delle nuove soggettività che si muovono lungo le linee delle trasformazione di razza, di genere e di classe, è difficile ancora da misurare. È certo però che, se letto così, il terreno delle “politiche dell’identità” non può essere vissuto aprioristicamente come un terreno ostile e nemico, e produttivo di nuovi identitarismi.

La pura e semplice difesa del soggetto universale e astratto rischia, in definitiva, di costituire una trincea culturale di retroguardia: non riesce a leggere la crisi di quella astrazione, e, non troppo paradossalmente, finisce per favorire, invece di prevenire, le ricadute nell’identitarismo.

Nel dibattito intorno al soggetto e alla sua crisi, da tempo però ci sono piste di indagine che cercano di  comprendere  la sfida contenuta nelle identity politics, evitando di riprodurre l’alternativa tra difesa del soggetto astratto e reazione in nome di neoidentitarismi vecchi e nuovi. L’attenzione per il concetto di intersezione ha aperto per esempio ricerche molto produttive. Anche in questo caso, l’attenzione al paradigma della riproduzione sociale può indicarci su quale terreno un concetto come quello di intersezione può dare i suoi frutti migliori. L’intersezione nasce come attenzione alla complessità  e  alla  pluralità delle dimensioni di razza, classe e genere all’interno proprio del dibattito sul diritto antidiscriminatorio. Ha il merito di far dialogare queste dimensioni, costituendo un antidoto alla chiusura identitaria, alla incomunicabilità delle diverse figure dell’oppressione. Soprattutto, l’intersezione ha mantenuto aperta una tensione tra oppressione e sfruttamento, tra differenze di genere e di razza, e capacità di attraversamento di queste differenze, in nome per esempio di una riattivazione in termini  completamente rinnovati del discorso di classe, e della capacità del riferimento alle dimensioni della classe e dello sfruttamento di costruire ponti e alleanze tra differenze. È senz’altro vero che nel dibattito sull’intersezione, l’attenzione alle identità specifiche e alla loro irriducibilità ha poi prevalso, spesso, su questi elementi di connessione e di trasversalità: il dibattito sulle identity politics ha finito per ‘disciplinare’ gli sviluppi più interessanti dell’intersezionalità. Sviluppi che marciano in realtà contro le ricadute identitarie: verso la valorizzazione, invece, del nesso tra lo sviluppo di una nuova concezione della soggettività, interconnessa e trasformativa, legata all’emersione della centralità degli elementi relazionali, comunicativi ed affettivi della riproduzione, al soggetto neoliberale e prestazionale, tutto incentrato sul cittadino laborioso, maschio, bianco e “buon padre di famiglia”. Ricostruendo questo nesso virtuoso tra intersezionalità e paradigmi della cura e della riproduzione sociale, piuttosto che incistandosi poco produttivamente nella contesa culturale pro o contro le politiche dell’identità, la critica del diritto può contribuire a superare questa impasse culturale che sembra dividere il campo tra difesa del soggetto ‘neutro’ liberale e moltiplicazione infinita degli status e dei particolarismi. Così intese, intersezionalità, cura, centralità della riproduzione, possono essere strumenti critici per quella ricerca di un nuovo stare al mondo del sé, nel segno dell’apertura, della trasformazione e della relazionalità, che ha mosso l’ultima ricerca di Stefano Rodotà verso il superamento dell’identitarismo oppositivo (e proprietario), e dei suoi minacciosi ritorni spettrali: “Quando i  diritti  di  cittadinanza divengono quelli che accompagnano la persona quale che sia il luogo in cui si trova, l’individuazione di questo spazio infinito, di questo nuovo common, porta con  sé  uno  stare  nel mondo che certamente sfida la cittadinanza oppositiva, nazionale, puramente identitaria. Questo è il punto che abbiamo di fronte: come noi oggi definiamo noi stessi attraverso non una identità che ci oppone agli altri ma attraverso la definizione di una identità che ci metta in relazione con gli altri.”

Del resto, se la soggettività giuridica ha oggi un’apparenza spettrale, è allo stesso tempo consistente, e assai urgente, la do- manda di soggettività. In fondo, una buona parte delle trasformazioni che stanno investendo d’impeto il diritto – l’uso sempre più pervasivo dell’intelligenza artificiale, ma soprattutto il caos climatico e le sue ricadute sull’ambiente, le  sue  matrici  e  le forme di vita – si coagulano intorno alla richiesta di una soggettività più larga e inclusiva. La rivendicazione dei diritti delle generazioni future, le istanze antispeciste che reclamano diritti e pari dignità per gli animali, le forme di ‘personificazione’ a tutela dei corpi idrici e di porzioni di territorio sperimentate in varie parti del mondo, tendono tutte a tradursi nella domanda di soggettività giuridica, ossia nella creazione di nuovi soggetti di diritto. E dunque la categoria della soggettività giuridica non è affatto priva di attualità: piuttosto essa ha bisogno di superare l’odierna frammentazione per recuperare una sua validità universale, un’astrattezza che sia ben radicata in un retroterra democratico oltre le gerarchie sociali. Le sperimentazioni e le aspirazioni che investono oggi la categoria del soggetto di diritto vanno appunto in questa direzione. Altrove abbiamo indicato nell’accesso a e nella redistribuzione di ciò che è comune – nella titolarità di diritti fondata sull’essere su questa terra e nella redistribuzione di quanto collettivamente prodotto – il quadro di riferimento di una nuova soggettività formale. Poiché, come avverte Rodotà, “ci sono temi che alla fine incontrano la molteplicità dei soggetti”. I diversi paradigmi che, emergendo da diverse esperienze del femminismo globale, si richiamano alla cura collettiva alla riproduzione, permettono ora di qualificare più concretamente questo “comune”, a partire dal controllo sui propri corpi e sulla propria vita riproduttiva.

Tutto questo non è estraneo alla vocazione del diritto privato. Se l’egalitarismo iscritto nel diritto privato non  corri- sponde alla funzione che esso ha storicamente realizzato, è però vero che esso costantemente tende all’allargamento della  sua base di riferimento, “ha la precisa idoneità a creare le premesse dell’eguaglianza” (Rescigno).

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