di TONI NEGRI.

Pubblichiamo le prime pagine del secondo volume dell’autobiografia di Toni Negri Galera ed esilio. Storia di un comunista (a cura di Girolamo De Michele, Ponte alle Grazie, 2018, pp. 448, € 19.50); ⇒ qui la prima recensione di Angela Mauro

1. La cella

«Questa è la sua camera» gli dice il maresciallo facendolo entrare nello stanzone: cinque metri per cinque al pianterreno del carcere. Lettino carico di coperte in angolo, lavandino di ferro arrugginito sulla parete di faccia, bugliolo a lato. La finestra con un vetro rotto davanti all’inferriata di sbarre.

La prima cosa che fa un coatto quando entra in una cella vuota: la esplora. Ne misura a lunghi passi lunghezza e larghezza, verifica l’altezza con un piccolo salto col braccio teso, batte col tacco il pavimento e con le nocche le pareti per tentate imperfezioni murarie nascoste; infine si volge alla finestra e ne accarezza le sbarre, sornione. Appena arrivato in un carcere il coatto ti dice in quale braccio e a che piano e quante celle ci sono da un lato e dall’altro: questo esame dovrebbe stabilire se vi è, o meno, una possibilità di evadere. Probabile che finga: i coatti sono bugiardi – questo Toni lo apprende più tardi, quando anche lui, con minore esattezza ma sufficiente approssimazione, avrà misurato la sua nuova cella mimando quei movimenti.

Ma la sera del suo arresto, quando arriva nel carcere di Rovigo, Toni non ha il garbo del coatto nel controllare la situazione: aveva un’immagine assai generica dell’ospitalità carceraria, reagisce protestando con timidezza e, senza svestirsi, si butta sul letto caricandosi addosso tutte le coperte: teme gli effetti dell’umidità del luogo e dell’aria fredda che, entrando dal vetro rotto, gli sbatte addosso. Non ha voglia di pensare: comincia a contare le pecore per addormentarsi. È stordito, non impaurito: ha dimenticato il mandato di cattura che gli avevano letto otto ore prime. Continua a contare le pecore in ordine inverso: cento, novantanove, novantotto… Il sonno non viene, il rubinetto gocciola: si alza in piedi lottando con le coperte, il pavimento è sudicio, scivoloso, il rubinetto non si chiude; piscia nel bugliolo, stupito del rumore che fa. Dopo alcune ore entra un gruppo di guardie, Toni fa per alzarsi: «Stai, stai» dice il caporione, mentre un’altra guardia fa un rumore infernale verificando l’inferriata, percorrendola con una sbarra di ferro… sì, è intatta. Escono sbattendo la porta: Toni si addormenta.

Quando lo arrestarono e fu portato in auto da Milano a Rovigo, e passarono al tramonto accanto ai colli Euganei, Toni, guardando quei colli che aveva amato, si disse, chissà perché: «Non tornerò più a vederli… ciao Padova». Qualche anno dopo un amico gli disse: «Tornerai, e un giorno via 8 febbraio sarà chiamata via 7 aprile».

2. Orrore

Il mattino il maresciallo riceve Toni: gli chiede come si sente. Toni si informa sulla possibilità di incontrare avvocati e famiglia: dice che presto gli farà sapere.

Toni è del tutto spaesato, ma trova il modo di chiedergli – con ironia – quanto tempo debba passare perché possa mostrare la propria innocenza: il maresciallo si è mai trovato dinnanzi a una situazione simile? Il maresciallo gli racconta di un innocente vero – lo sottolinea con forza – rimasto in carcere alcuni anni prima che i giudici potessero liberarlo: la burocrazia, sa, professore… Poi gli chiede se ha da leggere; a risposta negativa lo accompagna in uno stanzone – si vede la polvere nell’aria rischiarata delle fasce di luce dalle finestre socchiuse. Sulla porta c’è scritto Biblioteca: qualche centinaio di libri accatastati qua e là, molti lasciati dai vecchi inquilini. Toni cerca fra la robaccia: scova un’edizione completa del teatro di Shakespeare e se la porta in cella. Non è triste né spaventato: indignato, forse. È confuso nel cercare di capire che cosa succederà, non sa ancora che c’è stata una retata, e non può immaginarne la portata e le proteste che ha scatenato. Il giorno dopo gli fanno prendere l’aria in un cortiletto dell’edificio della direzione del carcere; passeggia con lui un maturo carabiniere in borghese che puzza di polizia politica (perché un carabiniere e non una guardia carceraria?). Si chiacchiera del più e del meno, Toni gli chiede del Milan, quattro parole e basta. A un certo punto una radio locale rompe il silenzio della passeggiata – tre ragazzi sono saltati in aria a Thiene, mentre preparavano una bomba: volevano protestare contro il rastrellamento del 7 aprile. Il carabiniere osserva Toni che tira diritto trattenendo l’orrore, schiacciandolo nel petto.

Rientra nello stanzone che funge da cella, piange: è la prima volta, e sarà l’ultima. Continua a leggere Shakespeare.

3. Kafka o Shakespeare?

Sentirà dire mille volte che gli eventi iniziati il 7 aprile ’79, quando lui e i suoi compagni furono accusati di insurrezione armata contro i poteri dello Stato, furono una vicenda kafkiana: una serie di fatti dal principio inventata nell’assurdo, che sembrò poi insolubile tanto fu pasticciata. Una vicenda burocratica girata male, un imbroglio giuridico mal gestito da giudici d’assalto, come allora erano chiamati i magistrati che, a loro dire, difendevano le istituzioni dall’attacco terrorista e, a dire dei vecchi magistrati, facevano confusione quando non facevano danni. Una storia alla Kafka, insomma: si entra nel Castello e non se ne esce più, intrappolati da una colpa assurda causata da giudici oscuri e meccanici, e riprodotta nella coscienza degli accusati che di quella condizione si fanno essi stessi prigionieri. Può darsi: apparve tale anche a Toni, nei primi giorni. Ma ci volle poco per chiarirsi le idee: davvero quelle immagini letterarie non erano adatte a descrivere la situazione, ci voleva ben altro. La vicenda che gli toccava non era burocratica, ma del tutto politica: non macchina insensata ma tragedia nel politico – Shakespeare, non Kafka. Si trovava a combattere una lotta aperta, non un destino; il nemico era quello Stato che si diceva invincibile – ma Toni non lo sentiva tale: perché fingerlo imbattibile? Non era appunto lo Stato che aveva sempre combattuto da quando era diventato comunista, misurandone talora falle e debolezze – e sempre l’ingiustizia? Quante volte, per fargli paura, gli avevano raccontato che lo Stato era sovrano, che in esso agiva la necessità dell’ordine civile: una forza laicizzata dai moderni, ma sempre fondata nell’assoluto? E, per imporgli l’obbedienza: che il potere burocratico era la razionalità di quel potere? Quante idiozie!, reagiva il professore di Dottrina dello Stato: qui c’è un potere nemico. Non trascendenza ma immanenza, non giustizia ma violenza, non diritto ma imbroglio: il potere del nemico di classe, del PCI e della DC, l’espressione del compromesso storico. Toni ricordava un vecchio dicton di Guido Bianchini: «Per i comunisti la tragedia non è un destino ma una lotta». Dunque bisognava battersi, denunciare le ingiustizie, il colpo di mano politico. Ma che cosa era accaduto davvero? Nel mandato di cattura c’era scritto «insurrezione»: ma non c’era scritto con chi l’avesse promossa, e non gli sembrava d’averla fatta, e gli sembrava impossibile averla fatta da solo.

Un Kafka che gira a vuoto: un Kafka reso comico?

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