di MAURO PINTO e FRANCESCO FESTA.

 

 

 

1. Da almeno un decennio, la Napoli maledetta e sofferente non produce solo barbarie, isolamento e sopraffazione, ma esprime anche tensioni di resistenze inedite che danno luogo ad autentiche e diffuse forme di partecipazione e di organizzazione delle lotte. La città è attraversata da esperienze di autorganizzazione e comunanza nella lotta, assolutamente diffuse e disseminate che hanno mutato in maniera profonda il volto di aree importanti dello spazio urbano. Riempiendo almeno in parte con entusiasmo e intelligenza il vuoto politico della de-industrializzazione degli anni Ottanta del secolo scorso, la crisi di legittimità delle storiche famiglie politiche e il vuoto di consenso di intellettuali, giornalisti e docenti imbarcati storicamente tra i gruppi al potere e tra i codini e i notabili cittadini.

A ben guardare, Napoli non è nuova a queste interruzioni. Nella sua storia moderna e contemporanea, vi sono stati degli eventi che come una piega hanno raccolto tracce del suo trascorso di rivolte e di tumulti, di ribellioni e di rivoluzioni, durante i quali ha interrotto la modernità e il colonialismo del pensiero politico occidentale per dar luogo a inedite forme di governo. Tant’è vero che, seppur aneddotica, l’immagine di Spinoza che si finge nei panni del rivoluzionario Masaniello è assai prensile della condizione postcoloniale, molteplice e plurale della storia di Napoli1. La chiave di collegamento all’oggi sta nel fatto che i moti subalterni e le rivolte che hanno segnato la sua modernità non stanno dentro la storia dello stato nazione, della costruzione dell’obbedienza formale-razionale all’Uno, al sovrano o a chi abbia tenuto il potere, a seconda dei differenti regimi di governo; ma conservano l’idea dell’organizzazione plurale, federale e post-statuale. La Napoli subalterna ha, in qualche modo, sempre rifiutato l’idea della legge totalmente nelle mani di un sovrano che a suo piacimento ne cambiasse i termini. Infatti sovrani, regnanti, podestà e sindaci si sono alternati a seconda dei tempi sul trono o nell’amministrazione della città, molto spesso come immagine o raffigurazione piuttosto che veri governanti, fino a quando non hanno toccato il contenuto etico dell’organizzazione sociale della città, ossia fino a quando non hanno prodotto leggi eticamente contrastanti gli interessi del popolo e dei cittadini, scontrandosi poi con la resistenza dei moti subalterni. Ecco perché la resistenza all’assolutismo, alla tirannide e all’accentramento è un tratto identitario della storia di Napoli, dal Seicento fino all’oggi. Ecco perché la sua modernità parla la lingua della pluralità e della ricerca di ordinamenti federali, fra più formazioni sociali e territoriali diverse, dove il diritto è al servizio degli interessi dei diversi gruppi sociali, e non di gruppi ristretti.

 

2. Gli spunti che vengono dalla storia degli ultimi secoli ci aiutano, almeno in parte, a leggere le coordinate di quella che in questi mesi è stata fortunatamente chiamata “Anomalia Napoli”. D’altro canto fuori da evocazioni ed oltre la storicizzata tensione ribelle, per leggere l’esperienza napoletana oltre se stessa, è necessario puntare lo sguardo ai processi di periferizzazione operati dalla catena del comando nello spazio europeo. Alla crisi di sovranità corrisponde infatti una profonda crisi di legittimità, mentre il cronicizzarsi della crisi capitalistica si esprime in forme strutturali di sospensione della democrazia che esautorano la capacità di governo dei poteri periferici, spingendo sempre più verso il basso la sovranità delle amministrazioni locali. Questo è quanto è accaduto in Italia con gli ultimi governi, i cui effetti hanno provocato, molto spesso, nel governo di diverse città la sospensione delle attività amministrative, il contingentamento economico-finanziario e, in extrema ratio, commissariamento d’emergenza e attivazione di leggi speciali. La costituzionalizzazione del pareggio di bilancio (associata ai diversi diktat della Troika sulla gestione dei servizi pubblici locali) o la formulazione del Decreto Legge “Sblocca Italia” sono dispositivi d’eccezione che intervengono internamente all’organizzazione sociale dei cittadini.

Quali sono dunque i confini dell’attività politica nello spazio cittadino? Cos’è il governo di una città dinanzi a queste forme di accentramento, d’irrigidimento della governance, e complessivamente di rinnovato assolutismo neoliberale?

Vista da qui, l’effettiva anomalia napoletana è una grande faglia dove prima – e/o più velocemente che altrove – sono caduti interessi, camarille e gruppi di potere locale; i movimenti sociali ne hanno in parte ampliato le forme e soprattutto approfondito le dimensioni. Si comprende meglio, così, quella piega resistente nella storia di Napoli che pare manifestarsi anche nella politica e negli istituti dell’amministrazione pubblica e che scandalizza gli intellettuali embedded, i quali proprio di quel passato, con un colpo di spugna storicista, vorrebbero ripulire l’onta dei moti subalterni. Tuttavia la Napoli città ribelle è uno spazio diffuso e plurale di resistenza fondato sulla contrapposizione fra la sovranità dell’Uno o dei pochi al comando e la potenza dei molti, dei cittadini e – sostanzialmente – del sociale.

Qui si situa la piega storica di Masaniello, di Spinoza e anche di Machiavelli. La sovranità è infatti una relazione di potere e di potenze costituenti. Nell’analisi machiavelliana, il potere è un rapporto dualistico di forza: l’Uno o i pochi versus la singolarità e la molteplicità; il potere assoluto e d’eccezione versus la democrazia assoluta e il comune. D’altronde – ricorda Antonio Negri – parlare di crisi della sovranità è insufficiente, poiché ogni resistenza è anche una costruzione2. La città ribelle è così istituita: alla crisi degli istituti democratici e della rappresentanza si manifesta immediatamente il rifiuto e l’astensione dalla politica istituzionale; in secondo momento, si produce il divenire della resistenza in esercizio di contropotere e autonomia sociale, cioè la costituzione di luoghi di partecipazione diretta e di democrazia assoluta in difesa di ciò che è comune e dello spazio urbano; il terzo passaggio è il superamento del confinamento dell’autonomia sociale e la sua realizzazione in alternativa politica e sociale. É questo il cuore della sfida attuale.

 

3. Una forza democratica che nasce dallo spazio di resistenza, dal basso e molteplice è in grado di divenire potenza comune? Detto altrimenti, è capace di soddisfare gli interessi di parte, superando l’autonomia del sociale e riscrivendo una giurisprudenza innovativa oltre la tradizione amministrativa e legislativa dello stato moderno? Abbiamo rintracciato fin qui alcune tracce per la costruzione d’istituti di partecipazione e democrazia diretta, al di là della forma rappresentativa che davvero poco incide in epoca neoliberista.

Occorre fare un passo in avanti, considerando due piani d’intervento. 1. Il piano giurisprudenziale: rilevare pratiche e categorie giuridiche anche note come multilevel che riconoscano una varietà di fonti di diritto e regolamenti giuridici, all’interno delle quali la spinta che proviene dalle istanze sociale sia riconosciuta. 2. Il piano di lotta: la potenza dal basso di una città ribelle si esprime nella pratica sociale di commoning fra gruppi sociali plurali che trattano beni e servizi della città come comune, cioè non sottoposti a logiche di mercato, alle politiche di austerity e al pareggio di bilancio.

La ragione della delibera dell’amministrazione De Magistris per il riconoscimento di 7 immobili in disuso come bene comune – in realtà spazi già autogestiti, abitativi e associativi – risiede proprio nell’azione di questi due piani che insieme hanno dato luogo a contropoteri sociali in grado di invadere il campo istituzionale. Da una parte, la resistenza diviene potere costituente utilizzando anche fonti del diritto borghese; dall’altra, invece, le pratiche di commoning incarnano la volontà dei molti nella gestione dei servizi e dei beni pubblici come comune. La delibera è un esempio di come si possa resistere a una legge, dettata dalla dottrina ordoliberista e incardinata nella Costituzione: detto altrimenti, di come la potenza costituente delle lotte interrompa il corso dei dispositivi di austerity e di accentramento del comando. Infatti è lo stesso dispositivo che illumina ciò che intendiamo per fonti multilevel e per pratica di commoning: la delibera n. 446/2016 non assegna, bensì riconosce quegli “spazi che per loro stessa vocazione (collocazione territoriale, storia, caratteristiche fisiche) sono divenuti di uso civico e collettivo, per il loro valore di beni comuni”.

 

4. Interpellare l’opzione neomunicipalista vuol dire dunque ripercorrere la catena del comando nell’Europa del capitalismo finanziario. Nel corso degli ultimi anni la spinta trasformativa nei movimenti anti-austerity si è scontrata violentemente contro il coup d’état esercitato dall’assolutismo della Troika a danno dei governi nazionali, per mezzo di commissariamenti, e delle amministrazioni cittadine. La sconfitta greca e la capitolazione di Syriza ne rappresentano l’esperienza più emblematica, nonché, contestualmente, l’immagine più evocativa del fallimento di riunificazione di una sinistra nazionale, eterno ritorno di reduci dal fronte.

La spazialità delle città si situa nondimeno su una scala di governo evidentemente più piccola e meno potente di quella statuale. Perché allora puntare la propria attenzione su un nesso di governo svuotato di potere? É proprio l’intrinseca vuotezza di potere del governo delle città che rende possibile l’invasione da parte dei movimenti, senza interrompere la tradizione che ha istruito l’azione degli ultimi decenni all’insegna della grammatica zapatista, ossia “cambiare il mondo senza prendere il potere”. E ancora, è questa intrinseca vuotezza che sorpassa il dibattito che ha lacerato i movimenti sociali nel corso dell’ultimo decennio, rendendone aleatorio qualsiasi progetto di attraversamento a fine redistributivo e accrescitivo (ad esempio, il discorso municipalista nella seconda metà degli anni Novanta). Oggi stare dentro o fuori – come suggerisce Sandro Chignola – in sé, non fa molta differenza; non potrebbe essere diversamente alla luce della sostanziale impotenza dei nessi di governo municipale.

La partita si gioca invece nella capacità dei movimenti di invadere il governo della città. Non quale nodo di potere, ma quale terreno di articolazione e organizzazione di contropoteri o di estensione di contropoteri nella sfera delle istituzioni cittadine. Le tracce di questa ipotesi spingono in diverse direzioni: su tutte, la capacità di sperimentare forme di gestione della cosa pubblica che mettono radici in nuove forme di decisionalità che invertono le regole e la direzione del comando ordoliberale; l’organizzazione di forme di resistenza multilivello alle ulteriori spinte accentratrici che vengono dai nodi più alti della catena del comando, detto altrimenti, costruzione ed organizzazione di contropotere istituzionale.

 

5. La lotta per la democrazia assoluta e per il governo dei molti è lotta profondamente anticapitalista. Per dirla con Machiavelli, la lotta dualistica fra i pochi e i molti genera “leggi e ordini in beneficio della pubblica libertà”. Quando il governo Renzi, tramite lo Sblocca Italia, autorizza il commissariamento dell’area di Bagnoli in funzione di un presunto “sviluppo” e “progresso” – in realtà per avocare a sé i poteri di una città ribelle e zittire i movimenti sociali – a quale tipo di governo s’ispira se non a un modello autoritario e anti-democratico? E a quali interessi risponde se i gruppi sociali che vivono la città e il quartiere de-industrializzato di Bagnoli sono espunti dalle decisioni?

Ancora con Machiavelli sappiamo che il conflitto accresce la potenza di una città e – aggiungiamo – esso si esprime nella difesa dei beni pubblici come beni collettivi in opposizione alle forme nocive di gestione della res publica. La lotta delle città contro l’autoritarismo dell’austerity neoliberista, dunque, non può che essere una lotta per la libertà contro la corruzione, il clientelismo e la criminalità del capitale. Per ciò, ad esempio, la lotta contro il commissariamento dell’area di Bagnoli è lotta per una gestione comune dei beni e dei servizi di territorio, ossia per l’accesso a tutte/i dei beni e servizi e per il controllo della gestioni degli stessi, contro la corruzione di chi ha amministrato quell’area, contro chi ha devastato e inquinato quel pezzo di mare e che oggi, dopotutto, si candida a riqualificarne l’ambiente.

La lotta di una città ribelle, dunque, si produce tramite la moltiplicazione delle pratiche di commoning, ossia – repetita iuvant – tramite l’accesso a tutte/i dei beni e dei servizi pubblici e della decisione su di essi. Il che si esprime, giocoforza, con il controllo del flusso di beni e servizi pubblici che passa dalle istituzioni e dalle amministrazioni municipali.

 

6. Dinanzi a questa potenza dal basso, il rischio di imbarcarsi nella costruzione di contenitori a sinistra – oltretutto, quale sinistra? – oppure di traduzione dell’eterogeneità in un significante vuoto è una scorciatoia tanto incombente quanto perigliosa. Il punto non è il contenitore o il significante, bensì la tempistica dell’autorizzazione e della decisione politica. In altri termini: alla crisi cronica della rappresentanza istituzionale si risponde con la distribuzione delle decisioni politiche verso il basso e verso l’esercizio di contropoteri sociali, politici e amministrativi. Il che si dà nel rompere quel falso sillogismo che sostiene che “la democrazia è votare, i governi sono democratici e i governi possono fare quello che vogliono fino alle prossime elezioni perché sono democratici”. Si dà, parimenti, nella fuga da ipotesi di autonomia del politico basate su processi di rappresentazione della rottura del paradigma neoliberale che, invece, sono stati concausa della crisi definitiva della politica novecentesca. Il rischio più prossimo, oltretutto, è che questa potenza sociale venga risucchiata da vecchi o nuovi-vecchi apparati e ridotta ad una storia già persa nell’elevazione del Masaniello di turno a custode di una trasformazione esclusivamente simbolica.

Che l’”Anomalia Napoli” si sia situata proprio nella faglia in cui sono caduti i poteri locali è evidente; ma in quel punto è cresciuta anche la cooperazione fra diverse forze sociali, alcuni pezzi di movimenti sociali e l’area politica di De Magistris, che si esprime nella dialettica virtuosa tra autonomie territoriali e diversità politiche. D’altronde, la sfida – tanto lunga quanto ritmata dai suoi tempi – si sviluppa a partire da questa dialettica che è, beninteso, non lineare o compiuta ma, per l’appunto, conflittuale e in continua tensione. Al contrario, l’annullamento di questa diversità condurrebbe ancora una volta a un gioco a somma zero, dove la rappresentazione vincerebbe sulla realizzazione. Che oggi si gioca, tra i vari, su due piani: 1. costruire nuove istituzioni di partecipazione degli abitanti; 2. vincere la battaglia con il governo Renzi e con svariati potentati cittadini e nazionali sul modello di sviluppo dell’area di Bagnoli.

Allargando lo sguardo, osserviamo che a partire da Roma, diverse e ricche sono le sperimentazioni avviate in Italia negli ultimi mesi. Mentre in diverse città spagnole la lunga eredità degli indignados si è tradotta in processi di occupazione e d’invasione delle istituzioni municipali in autonomia con gli spazi della partecipazione cittadina. Ciò che rappresenta indiscutibilmente un avanzamento di questa diversità di paradigmi neomunicipalisti è: l’invasione autonoma e in forme diverse nel governo della città; la messa in discussione tanto degli spazi della militanza quanto di quelli della sfera istituzionale; l’articolazione di contropoteri in base a grammatiche politiche e in spazi inediti, ma badando bene a non confondere la costruzione di nuove istituzioni con l’istituzionalizzazione dei movimenti. Va da sé che tutto ciò sia stato possibile dallo stesso sistema politico europeo, che ha depotenziato i livelli più bassi della catena del comando; ma è proprio tale tempo della politica ad offrire l’opportunità di ribaltare l’arroganza di poteri sempre più distanti dalle sfere dell’umano e di ricomporre, nello spazio della città, quella ricchezza sociale dispersa dal post-fordismo, prima, e dal capitalismo finanziario, dopo.

Vista da qui, la sfida neomunicipalista è una grande occasione che ha una temporalità di lento movimento che nessuna scorciatoia abbrevierà. La dialettica tra le parti, la ricomposizione sociale nello spazio della città, la ri-politicizzazione della vita pubblica e delle decisioni di governo, la costruzione di nuove istituzioni, richiedono un oneroso percorso di avanzamento dei rapporti di forza sociali, dentro e fuori le città. Il miglior sindaco non cederà sovranità per bontà d’animo neanche a questo giro: ogni pezzo di questa sfida richiede lotta, conquista. Non diversamente da quanto la piega storica della città di Napoli, di Masaniello rievocato da Spinoza, ci ha insegnato essere necessaria per interrompere i rischi di assolutismo e di accentramento che incombono nell’essenza dualistica del potere. La stessa messa in rete delle città, processo indispensabile per l’estensione della sfida al cuore del comando europeo, non può tradursi nella messa in rete degli amministratori illuminati, ma nella messa in moto di un processo di organizzazione multilivello. É necessario cominciare ad attrezzarsi prontamente, con le spalle al Novecento, voltando lo sguardo solamente per illuminarsi all’eccezione: all’instancabile e audace spinta per la ricerca dell’eresia utopica, per l’invenzione e l’organizzazione del comune.

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  1. Sull’episodio di Spinoza raffigurato nelle vesti di Masaniello, si rinvia a P. Linebaugh, ‎M. Rediker, I ribelli dell’Atlantico. Storia di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano 2004,  pagg. 119-123 

  2. A. Negri, Fabbrica di porcellana. Per una nuova grammatica politica, Feltrinelli, Milano 2008.