Di ROBERTA POMPILI.

Primo sipario. Lo sfogo

“La prima notte del giudizio” (regia Gerard McMurray, sceneggiatura James DeMonaco, 2018) . In un tempo distopico, in un quartiere povero di New York, viene realizzato un esperimento di natura sociale e politica. Avvalendosi delle teorie di una psicologa opportunamente chiamata a supervisionare il progetto, i Nuovi padri fondatori d’America” (NFFA), politici alla guida del paese, autorizzano per una notte in questa zona urbana, accuratamente separata dalla città dei ricchi, lo “sfogo”: la possibilità per gli abitanti del quartiere di commettere violenze ed omicidi che rimarranno impuniti.

Ma per scatenare la guerra identitaria, individuo contro individuo, non sarà sufficiente elargire del denaro ai partecipanti dell’esperimento, che piuttosto di ammazzarsi reciprocamente usciranno perlopiù in strada a fare festa. Dovranno, per questo motivo, come piano b segreto, inviare delle opportune truppe armate di guastatori e mercenari, nazisti e fascisti per creare tensione odio e violenze.

Il film mostra con efficace chiarezza il legame originario tra modello economico e sociale e la sua stampella ideologica, la psicologia di impronta cognitiva-comportamentale (su questo innumerevoli studi, per esempio di Dardot e Laval). Questa chiave di analisi considera gli uomini (e le donne)  soggetti avulsi dai rapporti sociali e dai contesti culturali ed economici; tali individui astratti sono affetti da tensioni, stress, emozioni che possono compromettere la loro corretta capacità razionale di agire e di autorealizzarsi. Il rituale dello sfogo, viene concepito a partire dagli studi della “scienza contabile delle emozioni” al fine di rafforzare la sicurezza della società (evitare disordini imprevisti).

“La prima notte del giudizio” mette in scena, di fatto, lo sdoganamento istituzionale della violenza come forma fondamentale della governance securitaria neoliberale, elemento catartico e purificatorio attraverso il quale rimporre l’ordine “naturale” delle cose, e dunque riprodurre i confini di razza/genere/classe, ribadire subalternità, disuguaglianze e sfruttamento.

Secondo sipario. Tempeste emotive

Di recente sono state emesse una serie di sentenze in diverse città italiane che hanno riguardato violenze commesse contro le donne, violenze sessuali e femminicidi. Tali sentenze hanno destato particolare clamore poiché sono state comminate agli imputati delle pene ridotte e moderate rispetto alla gravità delle azioni commesse: quello che ha destato più preoccupazione sono state le motivazioni emesse dai giudici per giustificare le scelta di tali sentenze.

A Rimini un reo-confesso del femminicidio di una donna frequentata per qualche tempo, ha avuto la condanna ad una pena a 16 anni per effetto della concessione delle attenuanti generiche e della scelta del rito abbreviato. Tali attenuanti sono state riconosciute, oltre che per la confessione e per il comportamento tenuto successivamente al delitto, in quanto la gelosia provata dall’imputato è stata ritenuta un sentimento “certamente immotivato e inidoneo a inficiare la sua capacità di autodeterminazione”, essa determinò in lui, “a causa delle sue poco felici esperienze di vita” quella che il perito psichiatrico che lo analizzò definì una “soverchiante tempesta emotiva e passionale“.

A Genova, per il femminicidio della moglie il tribunale ha deciso di condannare un uomo con una pena di 16 anni, anche in questo caso per effetto della concessione delle attenuanti generiche e della scelta del rito abbreviato. Il dibattito si è incentrato sulla misura della pena, tema evidentemente abbastanza facile da veicolare nei mass media. Ma il punto significativo in realtà prescinde dagli esiti finali sulla scena, frutto delle scelte processuali, e riguarda anche in questo caso, come quello di Rimini, il tipo di motivazione che ha condotto il Tribunale a concedere le attenuanti generiche. Le motivazioni addotte si collocano sempre all’interno del paradigma psicologico  delle emozioni:  l’uomo era in questo caso mosso “da un misto di rabbia e disperazione, profonda delusione e risentimento” e “ha agito sotto la spinta di uno stato d’animo molto intenso, non pretestuoso, né umanamente del tutto incomprensibile”. Ancora la giudice ha scritto che l’uomo ha di fatto “reagito” al comportamento della donna, un comportamento “del tutto incoerente e contraddittorio” poiché lei lo aveva “illuso e disilluso nello stesso tempo”. La moglie, infatti, gli aveva detto di aver lasciato l’amante ma, si riferisce nella documentazione del Tribunale, lei “non era in grado di lasciarlo”.

Nei giorni successivi si è animato un forte dibattito politico-culturale in relazione alle scelte delle magistrate. In diversi casi negli ambiti femministi, ma anche tra democratici e progressisti, si è parlato di un ritorno al “delitto d’onore”. In realtà quello che è andato in scena è l’ingresso del paradigma cognitivo –comportamentale nelle aule dei tribunali, in altri termini l’ideologia contemporanea che sottende la logica del mercato, in cui l’emozione è piuttosto uno strumento sociale che oscura le differenze di classe, di genere e di razza mettendo in moto un processo di individualizzazione (e auto-trasformazione). Non ha torto, infatti, chi sottolinea come in realtà le sentenze siano conformi a quella giurisprudenza che ha (felicemente!) escluso la gelosia dalle ragioni di non imputabilità, e però non esclude i “turbamenti psicologici” che incidono sulla misura della pena o sulla concessione delle attenuanti. Ma non deve sfuggire che attraverso le perizie e/o valutazioni degli stessi giudici, quegli elementi psicologici risultano ormai esattamente la traduzione “cognitivo-comportamentale” della vecchia gelosia. La quale, perciò, finisce certo per non incidere più sulla considerazione del soggetto “imputabile”, ma per essere utilizzata come vero e proprio parametro di “valutazione” delle sue azioni. Il risultato è una perfetta traduzione della giurisprudenza corrente in termini neoliberali: il geloso non è matto, ed è fuori discussione il ritorno del delitto d’onore: ma allo stesso tempo la sua “crisi”, la sua “tempesta” viene tradotta in termini “psicologici” più adatti perché venga accolta come parametro di valutazione del suo comportamento. Dalla scelta – in fondo propria della tradizione liberale- tra “imputabile” e “non imputabile”, la vecchia gelosia passa ad essere il motore di una considerazione di ordine perfettamente “economico” e valutativo sulle motivazioni del soggetto. Quello che viene evocato in sintesi è il soggetto neoliberale, che, nel suo crack emotivo, la ragione neoliberale accoglie e giustifica (lo sfogo). D’altra parte quando il modello della finanza (con il suo sistema di debiti-crediti-investimenti) entra della vita, le relazioni, ed in particolare quelle segnate da una storica asimmetria di genere (relazioni di intimità e famiglia) sono merce di investimento emotivo e di possibili ricadute nel caso della sopraggiunta rottura di aspettative.

Sul versante opposto abbiamo assistito a Salvini, quello che in una palco di comizio ha portato una bambola gonfiabile chiamandola Boldrini, che con ipocrita e strumentale demagogia criticava le sentenze in oggetto con dichiarazioni del tipo “queste persone devono marcire in galera”. Nulla di strano di fatto se la coppia neoliberismo/fascismo, prova a giocare due carte diverse nella stessa partita.

Terzo Sipario. Verona

A Verona sabato 30 marzo ha luogo il XIII Congresso mondiale delle famiglie, animato da associazioni e gruppi di neocatecumenali, integralisti religiosi, forze di destra e in cui convergeranno esponenti politici della destra radicale, cristiana e integralista da tutto il mondo. Il convegno si auspica un ritorno a una “famiglia naturale”, dichiaratamente eterosessuale, come antidoto alla “crisi demografica dell’Occidente”, ma anche la messa al bando della legge sull’aborto, delle unioni civili, delle adozioni per le coppie dello stesso sesso. Saranno presenti relatori istituzionali del governo italiano importanti: il ministro dell’Interno e vice presidente del Consiglio Matteo Salvini, il ministro per la Famiglia e la Disabilità Lorenzo Fontana, il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti e il senatore Simone Pillon.

Verona rappresenta di fatto un tassello importante nella fase attuale della svolta autoritaria governativa, nel processo di consolidamento del potere reazionario. In questa fase di crisi, infatti, l’autoritarismo entra in scena in sostegno del neoliberismo, come recupero del sovranismo e inversione dello slogan “prima il mercato e poi lo stato”.

Ma è interessante notare come che non si tratta di recupero della “famiglia tradizionale” (su questo si veda il recente articolo di Maria Rosaria Marella) poiché il capitalismo contemporaneo ha già prodotto straordinarie modificazioni nella struttura produttiva, cosi come nell’architettura del soggetto. Qualsiasi vincolo solidaristico tradizionale viene generalmente travolto nel modello individuale dell’uomo-impresa: d’altra parte il processo di individualizzazione procede e assicura salti nella stessa soggettività, mano a mano che si impongono colpi di accelerazione di intensità, prodotte dalla aggressività e violenza dei discorsi politici, dalla governance mediatico- politica, dalla costruzione di nuovi assetti giuridici.

Il potere è nudo è veste i suoi panni più feroci, rivendicando ormai palesemente quella stessa gerarchia e quell’ordine gerarchico che fino a poco prima mascherava attraverso l’ipocrita competizione di individui uguali.

Il suprematismo, l’ideologia che ripropone la nostalgia identitaria di superiorità e  supremazia del maschio bianco, eterosessuale, si pone allora come punto di svolta e di rottura del soggetto neoliberale, il soggetto garante del potere sovrano, della ricolonizzazione di corpi e territori. (piano b).

Eppure non siamo sull’orlo della catastrofe, ma di una straordinaria trasformazione. La forza collettiva che la marea femminista transnazionale ha espresso nello sciopero dell’8 marzo e nella sua articolata lotta contro la violenza sessista sistemica e strutturale è stata in grado di rompere con l’isolamento delle condizioni individuali e locali di sfruttamento e oppressione. Anche a Verona la potenza moltitudinaria del lavoro vivo farà sentire la sua forza.

 

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