Di ROBERTA POMPILI

Analessi

Ero davvero molto piccola quando mia madre mi portò a vedere il miracolo. Una lunga fila di persone erano in attesa davanti alla casa della nostra vicina. Quando fu il mio turno, mi avvicinai con timore e reverenza ad osservare il volto di Cristo impresso nell’osso della seppia che veniva mostrata nella cucina, allestita per il pellegrinaggio. D’altra parte non ero particolarmente stupita, poiché se dio doveva proprio palesarsi in un paese di mare, non poteva scegliere posto migliore che quello della rete di un pescatore. Qualche anno dopo, mi trovai a frequentare la sede di un gruppo di compagni e compagne di Lotta Continua, che avevano aperto una radio libera proprio nel quartiere dove abitavo. Non solo ci invitavano a fare i programmi radio: “come può essere un quartiere a misura di bambino, bambina? Cosa vi manca?” ma organizzavano anche dei bellissimi giochi all’aperto. Ogni anno i/le compagn* si cimentavano nel Santo Antonio: nel pieno recupero della tradizione popolare, mettevano su un gruppetto canoro che si sarebbe aggirato (gruppi di amici e associazioni lo fanno tuttora) con fisarmonica, chitarra e tamburelli per tutto il paese. La notte del 17 gennaio il gruppo canoro dava il via al suo patrimonio di canzoni dedicate al Santo nemico del demonio, prima fuori dalle abitazioni e poi all’interno delle case dove venivano offerti salsicce e vino rosso e dolci. Nella sapiente rielaborazione del rito e nella sua commistione sacra e profana si costruiva una straordinaria cornice dentro la quale venivano veicolate di volta in volta, tra un bicchiere e l’altro, radicali discussioni di carattere micro e macropolitico, sociale e culturale. Neanche a dirlo l’universo colorato di questi improbabili cantori e cantrici era eterogeneo per età, sesso ed anche competenze canore.

Il dio umano della rete

Guardo un poco frastornata uno degli altarini che a Napoli sono stati dedicati a Maradona: il giocatore è morto da alcuni giorni e il senso di lutto che ha attraversato molte persone è una cosa che mi riguarda. Mi sono subito domandata: perché? Perché questo uomo – sicuramente un eccezionale giocatore, un uomo gioioso e appassionato, costantemente dalla parte degli ultimi, ma anche cosi pieno di difetti, vulnerabile e umano – poteva essere vicino a cosi tante persone lontane nel tempo e nello spazio? e non solo napoletane (o argentine), non solo appassionati e appassionate di calcio, o tifosi che lo hanno visto giocare in campo, ma anche giovan* che non erano neanche nat* quando el diez indossava le scarpette. In un’intervista, che ho pescato in rete, una giovanissima napoletana raccontava il rituale domenicale a cui aveva assistito per anni a casa dei suoi nonni: in un tempo-spazio caracollato, venivano proiettate le partite del Napoli con Maradona e ogni partita veniva rivissuta come se fosse giocata dal vivo, con la stessa gioia ad esultare ogni volta per quei gol, emblema di sogni individuali e collettivi realizzati. Ognuno dentro la rete ha preso il suo pezzo, ha assemblato il suo Maradona, in una stretta connessione culturale ed empatica: chi i gol del riscatto dei sud del mondo (Napoli, Argentina), chi le immagini che lo vedono a fianco dei grandi protagonisti delle lotte anticoloniali e antimperialiste (Fidel), oppure quelle della marcia contro Bush, o vicine alle donne della Plaza de Mayo, quelle in cui balla o canta una cumbia a lui dedicata (La manos de Dios), o concede una intervista. O anche quelle in cui si allena con il sottofondo delle parole magiche e profetiche di Live is Life (vivere è la vita, quando a tutti avremo il potere, daremo tutti il nostro meglio). Lo abbiamo visto e rivisto e poi ne abbiamo parlato, riparlato, scritto e riscritto: i racconti di episodi di generosità, amicizia e beneficienza hanno riempito il web, mentre sono stati pochi e poche a soffermarsi sugli aspetti negativi della sua vita.  (D’altro canto la generosità, l’amicizia, la gratuità nel e del gioco, la solidarietà non sono proprio quei valori fortemente messi in crisi dall’individualismo neoliberale?) Abbiamo visto il grande e commovente rituale di saluto nello stadio di Napoli, fino a che l’assemblaggio della rete è diventato sempre più potente e il mito popolare ha assunto i tratti della magia: in una notte stellata qualcuno ha filmato nel cielo, nella bellissima luce della luna tra le nuvole, l’apparizione della sagoma di Maradona con la maglia numero 10 dell’Argentina. Come tutte le divinità, perenne opera di una alterità materialmente prodotta e costruita dall’umano, Maradona ci ha offerto una straordinaria cornice, un grande template per dare vita a noi stessi, per parlare di noi stessi, delle nostre debolezze, dei nostri desideri, della nostra potenza. Una cornice posizionata, meridiana, subalterna da cui ripensare i rapporti di potere e il mondo. Perché Maradona divide. I media mainstream, i poteri del grande business del calcio, le voci del paese della legalità e del decoro, le voci del paese/nazione strutturalmente razzista costruito innanzitutto attraverso un colonialismo interno continuamente riprodotto: costoro non hanno potuto fare altro che rincorrere le sue celebrazioni cercando di addomesticare l’evento (celebriamo il calciatore e non l’uomo, se avesse giocato in una squadra del nord …), ma hanno potuto fare ben poco, perché questa volta il “template”, appunto, lo abbiamo messo noi. In una notte di novembre, il rituale che ha celebrato il saluto collettivo di Napoli nello stadio sfavillante di luci e di calore ha espresso una spiritualità politica che ci ricorda i rituali femministi delle grandi manifestazioni di Non Una di Meno. De Martino sosteneva che nel simbolismo mitico-rituale, i miti e le cerimonie devono essere considerati nel loro dinamismo e nella loro concretezza, perché in esse si ripetono continuamente la vicenda della ripetizione e della ripresa, catabasi e anabasi, fondazione e apertura, origine e prospettiva. L’umanità del general intellect è in cammino da tempo e inizia a produrre la sua storia culturale come autonoma.

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