di ED EMERY.

Porte de la Chapelle. Periferia esterna della città. Una pista asfaltata che dovrebbe essere una pista ciclabile, corre lungo il tramway. Ci sono lunghe inferriate di ferro che separano la strada dalla carreggiata che corre sotto la linea della metropolitana. Lungo la strada, l’asfalto accanto alle inferriate è segnato dalle cicatrici di piccoli fuochi di un passato più o meno lontano. Il “perché” di quei fuochi è evidente. Su una bassa ringhiera di ferro, degli uomini sono seduti. Anch’io sono seduto, pensando a niente in particolare. Seduto e fissando a media distanza. Guardo gli uomini seduti in conversazione tra loro. A terra, accanto a loro, ciascuno ha il suo piccolo zaino che custodisce i suoi beni terreni. Questi sono migranti, immigrati, rifugiati in Francia. Sono persone arrivate da molte parti del mondo in cerca di una vita migliore.
Mi siedo sulla ringhiera con loro. Conversazione saltuaria. Con siriani, eritrei, libici e altri, sulle circostanze che li portano qui.
Sopra la testa c’è un ponte. La metropolitana attraversa la strada. Un’altra carreggiata centrale. Un tempo fango, ora calcinato, una volta erboso, ora asciutto. Lo sto osservando, riflettendo pigramente, e mi accorgo di grandi sassi parcheggiati proprio lì. Curioso, penso, rocce: perché? Non c’è logica apparente nella loro distribuzione. Poi mi rendo conto che quei grandi sassi si trovano direttamente sotto il ponte della metropolitana. Questo è precisamente il luogo in cui i rifugiati e i migranti della Francia avrebbero potuto rannicchiarsi, nelle loro tende improvvisate, per ripararsi dai venti e dalle piogge invernali. Le rocce sono state collocate qui come misura anti-migranti, per impedire i piccoli accampamenti. È un aspetto della stessa logica che ha retto l’evacuazione della giungla di Calais. La durezza della politica statale.
Da lontano leggo parole che sembrano essere dipinte a spruzzo su quei massi. “Fraternité”, “Liberté”, “Egalité”. Le parole d’ordine della repubblica francese. Mi suscitano curiosità, attraverso la corsia dei tram per dare un’occhiata.
Uno shock è scoprire che le parole non sono dipinte. Sono scolpite. Inscritte nelle rocce. Scolpite con martello e scalpello su questi grossi pezzi di calcare. Lettere audaci e straordinarie. Quello che abbiamo qui è al tempo stesso un gesto di ironia e un grido di indignazione morale. Le rocce incarnano fisicamente le esclusioni razziste anti-immigrazione praticate dalla Repubblica francese, e allo stesso tempo commemorano le migliaia di persone che sono morte nel terribile viaggio per mare per avere salvezza su queste coste.
Qualcuno, ad un certo momento, ha pensato di scolpire queste rocce della repressione e di dar loro un significato alternativo – di amore e liberazione. Decido di fotografare quello che vedo.
Le rocce non rinunciano facilmente ai loro messaggi. Mi aggiro con la macchina fotografica e penso di catturare quei messaggi. Gli uomini seduti sulle ringhiere mi guardano da lontano (almeno questo pazzo ravviva il loro paesaggio). Poi noto una piccola scultura che mi è sfuggita la prima volta. Essa porta a un’altra e un’altra ancora. Ogni dieci minuti, mentre giro lì sotto, il sole si sposta all’orizzonte, e mette in luce nuove cose che in precedenza non avevo visto. Ad esempio, un’iscrizione su un piano verticale – qualcuno deve essersi inchinato per scolpirla – che recita in francese: “In memoria di tutti quelli che non sono riusciti ad arrivare”.
Un altro intaglio solleva la mia attenzione. Su un piano orizzontale c’è una scritta all’interno di una cornice cesellata. Nel bagliore del sole pomeridiano la prima cosa che attira l’attenzione è una piccola forma a mezzaluna rovesciata. È una barca… nella barca ci sono tre figure. Sono migranti, rifugiati. Il resto della scultura è un turbinio di vento e onde ad alta curvatura. Un battello nell’inferno del mediterraneo. È solo dopo, quando controllo l’immagine presa, che mi rendo conto che il turbinio di vento e di acqua è in realtà un enorme mostro marino, intento a divorare gli occupanti della barca.
È davvero sorprendente quel che c’è qui sotto la metropolitana.
Le diverse incisioni sono chiaramente fatte da mani diverse. Una, in caratteri quadrati, recita “I rifugiati sono i benvenuti”. Un’altra è un cuore scolpito con la sola parola “Amore”. Altrove, i volti appena finiti appaiono rosicchiati dal lichene che sta iniziando a incrostare le incisioni. A destra, un volto magnifico, un grande profilo di un africano, sembra una stele fenicia. Su altre rocce, le parole “Solidarietà” e “Rifiutato”. E poi una singola grande iscrizione – luminosa e distinta, apparentemente sgombra di licheni – che recita “Karim – 1998-2018”. Splendidamente incisa, con forti curve discendenti. E senza lasciare dubbio sul fatto che qui siamo in un momento di profondo dolore, artisticamente incorniciato in memoriam.
È, nella migliore tradizione del situazionismo francese, questo parco di sculture, un vero détournement. Estetica della sovversione.
Ho una quantità sufficiente di fotografie per documentare questo momento, ed alcune di esse le propongo per questo scritto. Per quello che succede dopo, non ho immagini – solo parole.
Mi sono voltato per esaminare il mio pubblico. Un momento di forte shock. Quello che prima era stato un paesaggio di uomini tranquillamente impegnati nei loro pensieri, o che passeggiavano sotto il sole, ora è completamente nudo, spogliato. Non c’è più nessuno. Il motivo non è difficile da trovare. Al fondo della carreggiata, ci sono tre poliziotti antisommossa, con i loro pesanti manganelli in mano.
Furgoni della polizia antisommossa bianca appaiono per la strada. Sopraggiunge altra polizia, equipaggiata in modo simile. Bloccano i marciapiedi e procedono a controllare i documenti di identità di chiunque possono catturare – quelli che non sono riusciti a raggiungere la media distanza – e molestano la gente, e la cacciano via, e, per quanto ho potuto vedere, prendono alcuni in custodia.
C’era un controllo di territorio. Le persone che non hanno luogo dove andare misuravano la loro esclusione anche dagli ultimi posti dove avrebbero potuto eventualmente, alla fine, trovare un punto fermo. Perché questi uomini si siedono sulle inferriate di ferro? Perché non hanno il diritto di sedere sulle panchine pubbliche. Ho visto tre poliziotti avvicinarsi a due uomini di colore seduti ad una fermata di tram. “Andatevene!” Gli uomini protestano. La polizia spiega loro con forza, che in Francia c’è uno Stato di diritto: “Non hai il diritto di sedere qui”.
Nessun diritto, appunto.
Un giovane uomo, un uomo di colore, con addosso una felpa con cappuccio e le tasche piene. La sua faccia richiama quella della scultura sui massi. È stato cacciato dalla polizia. Quando mi passa davanti, dice: “Cosa dovrei fare? Dove dovrei andare? Di notte dobbiamo andarci a nascondere dappertutto per trovare posti dove dormire. E poi vengono e ci cacciano via. Cosa vuole che facciamo questo Macron?”
La risposta è semplice: Macron ed i suoi compatrioti razzisti vogliono solo che tu vada all’inferno e crepi. Se potessero, avrebbero installato per te lo stesso tipo di trappole velenose che han fatto per i topi che sono tuoi compagni di nottata in questo posto.
Siamo arrivati a Parigi con l’intenzione di far musica per e con i rifugiati e i migranti accampati in piccole tendopoli improvvisate sparse per la capitale francese. Ma, a metà gennaio, quei campi erano stati sfrattati con una grande operazione di polizia, ed ora queste persone sono alla deriva – una moltitudine di singolarità isolate – nei desolati spazi urbani delle periferie esterne. Anche i momenti di solidarietà diventano difficili da sostenere.
In Libano, c’è una valle in cui eserciti invasori, nel corso del tempo, da Alessandro il Grande ad oggi, hanno lasciato i loro nomi incisi nella roccia. Quelle iscrizioni sono conservate e apprezzate come monumento nazionale. Gli intagli di questi sassi, qui davanti, saranno presto riempiti da sporcizia e vegetazione. Eppure, dovrebbero essere preservati, con lo stesso spirito. Sono preziosi.
Karim, chiunque fosse, è morto giovane. E la sua memoria è conservata qui. Come, intagliato su un’altra roccia, «Salut à toi le Soudanais».

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