Di FANT PRECARIO

1. Yalta è un solo colore:

Per noi boomers Yalta è come la puzza di marcio che si respira nei portoni quando il mare grosso non fa scolare le fogne. Yalta è come un padre che si scazza perché “con quello che ho fatto per te”. Yalta sono Jim Brannigan e Arkadij Renko, due scanzonati poliziotti che al momento giusto, però, ti sparano. Yalta è una prigione bifronte che ci alletta con più frigoriferi e/o più casermoni popolari con riscaldamento centralizzato a seconda della parte del muro che vedi.

Quando arriva a Yalta la guardia rossa è già stanca, sul berretto scolpiti e nel cor non mostra più un martello e una falce incrociati ma i pennacchi e i galloni dorati di Zukov. Anche ai figli della libertà non era andata meglio. Su tutto e tutti si spandeva una cortina che non era di ferro ma di fumo di fonderia, di schiene rotte.

Baffo e Paralisi, peraltro, l’avevano studiata bene e il fatto di essersi inventati due maschere per inebriare non i propri sudditi ma quelli dell’altra sponda ci costrinse a privilegiare una via anziché l’altra (di solito quella altrui, notoriamente più verde): tutte e due, però, portavano ad un solo portone, quello dell’industria fordista.

Se guardi le foto del 1947, le differenze tra famigliola USA e sovietica sono poche (forse un po’ più modeste quelle rosse, ma il progresso arrideva ad entrambe).

Che la merda sia sempre marrone lo si capì subito e la conferma ci fu nel 1953. Morti e feriti a Berlino morti e feriti per scongiurare la legge truffa da noi. L’astuto marchingegno mostrava i primi segni di usura, all’osteria come nei bars il malcontento serpeggiava, ma fu con l’avvento dei figli di Yalta che il gabbo emerse.

2. Un figlio di Yalta non pensa al domani:

Se togli al gendarme la sacralità del manganello, se non vivi la sua presenza come giusto e salvifico fardello, lo stato democratico (perché entrambe le “squadre” si definivano tali, a maggior ragione ai tempi del disgelo di JFK e Nikita) ti viene presto a noia.

Il 31 ottobre 1965, a Lipsia vi fu una dimostrazione, successivamente ricordata come Leipziger BeatDemo; scesero in piazza in 2.500 ragazzotti al grido “Libertà per i beatfans” contro il ritiro del permesso di suonare a 47 band musicali su 56, in particolare ai Die Butlers. La fabbrica di stato Musima aveva prodotto solo per loro delle chitarre rosse. Ascoltiamo, herbstlaub, attacca il vibrato è subito Apache, poco importa se non c’erano i cavalloni, la via surfista al comunismo era posta.

Ecco cosa pensava e scriveva Ulbricht: domenica 31 ottobre gruppi numerosi di capelloni si sono riuniti nel cuore della città di Lipsia, cercando di causare disordine. Poiché questi figuri disturbavano i passanti, ostacolavano il traffico e si atteggiavano provocatoriamente nei confronti della polizia, si è reso necessario chiamare il pronto intervento per eliminare il disturbo alla quiete pubblica e alla sicurezza dei cittadini. Le iniziative poste in atto dalla polizia, coadiuvate dalle milizie d’ordine della FDJ, hanno in breve tempo ristabilito tranquillità e ordine.

Ancor Ulbricht si doleva dei propri giovani: “Penso, compagni, con la monotonia di Je-Je-Je, e cosa significhi, sì? Dovreste mettervi fine. […] È proprio vero che dobbiamo copiare ogni sudiciume proveniente dall’ovest? “. Tra musica da scimmie del ventennio e sudiciume realsocialista dove la differenza è sottile. Erano gli anni del blues revival, la british invasion avrebbe scardinato più di un confine, ma tant’è, il capitale, magari di stato, poneva le basi per il futuro Kossiga Andreotti, miseria e poliziotti.

E nel mondo libero?

Certo il differente indirizzo produttivo volto al consumo e non alla grandezza del socialismo consentiva un margine di azione maggiore [nel ’68 si constatava lucidamente che considerati in sé, i giovani sono un mito pubblicitario già profondamente legato al modo di produzione capitalistico come espressione del suo dinamismo […] in seguito all’ingresso massiccio sul mercato di tutta una categoria di consumatori più malleabili, ruolo questo che garantisce un certificato di integrazione nella società dello spettacolo peraltro, laconicamente si chiudeva l’unica via per i blousons noirs è o la presa di coscienza rivoluzionaria o l’obbedienza cieca nelle fabbriche, diversamente, a Est gli intellettuali cercano ora di rendere cosciente e formulare chiaramente le ragioni di quella critica che gli operai hanno messo in pratica a Berlino Est, a Varsavia, a Budapest: la critica proletaria del potere della classe burocratica. Questa rivolta a lo svantaggio di porsi contemporaneamente i problemi reali e la loro soluzione. Mentre negli altri paesi il movimento è possibile, ma il fine rimane mistificato, nelle burocrazie cosiddette socialiste la contestazione non si fa illusione e conosce i suoi fini: deve inventare la strada che vi conduce (De la misere en milieu etudiant)], il ribrezzo verso il “selvaggio” era pari (e la repressione, se possibile, più violenta) e -quanto più conta- identica nei contenuti.

I «capelloni», come li chiamano qui a Roma, sono quei tipi, di apparente sesso maschile, che portano capelli lunghi quasi come le donne, fluenti sulle spalle, talvolta con vezzosi riccioletti sul davanti: secondo una moda mutuata dai Beatles, i quattro giovanotti che l’Inghilterra, anziché premiare come recentemente ha fatto, avrebbe dovuto, per rispetto, della propria reputazione, esiliare in Patagonia […]. Le chiome straripanti non rappresentano tutta l’uniforme di coloro che pullulano da qualche tempo la scalinata di Trinità dei Monti. Tale uniforme raramente prescinde da enormi maglioni, assai patacconi, e spesso sdruciti; da pantaloni blue jeans bene attillati; da alti cinturoni di cuoio stretti alla vita. I più fantasiosi apportano variazioni, come giacche da cow boy con frangette di pelle, oppure – uso che furoreggia in questi giorni – il cappello con la visiera, il fisciù al collo, e il foulard in vita degli apaches. Il ‹capellone›, fedele all’‹omnia mea mecum porto›, è spesso dotato di sacco a pelo arrotolato. Alcuni, come pezzo principale di bagaglio, hanno la chitarra […]. Altri sono provvisti di inverosimili ragazze, le quali, al contrario di loro, i capelli li hanno cortissimi, ma cui li accomuna un evidente disprezzo per l’acqua e per il sapone […]. Ma siccome gli esempi stupidi sono i più sollecitamente seguiti, adesso se ne trovano anche con l’accento di Trastevere. […] Essi afferma- no di esprimere, col loro aspetto, la ribellione: ma non sanno spiegare il perché di una rivolta diretta principalmente contro il parrucchiere e il detersivo. Essi, dicono ancora, esprimono il tormento della generazione della bomba: e bisognerebbe buttargliela, possibilmente carica di insetticida. […] Le autorità hanno detto che d’ora in avanti verrà esercitata stretta sorveglianza sulla scalinata, che verrà dato ordine alle frontiere perché si ponga maggiore attenzione su chi entra in Italia. Questo secondo provvedimento è giusto: come non si entra in India senza farsi l’iniezione contro il colera, come non si va in Congo senza la vaccinazione contro la febbre gialla, non si entra in Italia con i capelli lunghi: siamo in casa nostra, abbiamo il diritto di ricevere gli ospiti che vogliamo, e questi non li vogliamo. […] Occorre […] disinfettare la Trinità dei Monti dai ‹capelloni›. Come si può fare? L’idea potrà sembrare liberticida; e potrà anche meritare la considerazione di ‹istigazione al reato›. Però, visto che l’unico gruppo di ‹capelloni› che le autorità hanno potuto espellere è stato quello coinvolto nella rissa col soldato, non resta probabilmente che andare lì e provocare anche quelli che rimangono. Andare lì, armati di civismo, di insetticida e di forbici. O si lasciano disinfestare e tagliare i capelli, e allora il problema è risolto; o reagiscono, ingaggiano rissa, arrivano le guardie ed è risolto lo stesso (P. Bugialli, Tempi duri per i «capelloni» che bivaccano a Trinità dei Monti, in «Il Corriere della Sera», 6 novembre 1965, p. 3).

Tanto disordine non poteva passare inosservato al, sempre vigile, Prefetto di Milano si comunica che in questa città, dall’autunno scorso, hanno fatto la loro apparizione, in numero sempre crescente, gruppi di giovani cosiddetti «capelloni», in gran parte studenti, elementi immigrati dal meridione e disoccupati. L’orientamento politico di siffatti elementi è, in prevalenza, «anarchico-libertario», mentre piccole frange, che agiscono autonomamente, si ispirano alla «non violenza», all’«obiezione di coscienza» o all’ideologia delle «guardie rosse». Lo «schieramento» conta attualmente, in città e in provincia, oltre 500 aderenti (Rapporto del prefetto di Milano del 27 febbraio 1967, in A.C.S., M.I., Gab., 1967-’70, b. 39, f. 11001/98).

I figli di Yalta avviavano la contestazione assoluta al mondo, alla fabbrica, alla disciplina di impresa o partito, al controllo della burocrazia o della chiesa. Essere di qua o di là cambiava poco (il provotariato è l’unico gruppo di ribellione che rimane nella società del benessere. Il proletariato, che è soddisfatto di poter guardare la televisione, è diventato lo schiavo dei politici. […] La nuova lotta di classe si svolge tra il provotariato e la moltitudine dei predatori. Il provotariato è una folla anonima di elementi sovversivi. […] Il provotariato abolisce il consumatore fatto schiavo. Viviamo in una so- cietà autoritaria. […] Le autorità stabiliscono non solo come dobbiamo vivere ma anche di che cosa dobbiamo morire. Il provotariato ha paura della guerra nucleare delle autorità [Volantino allegato ad un rapporto della Prefettura di Milano del 27 febbraio 1967, in Archivio Centrale dello Stato (ACS), Ministero dell’Interno (MI), Gabinetto (Gab.), 1967-1970, b. 39, f. 11001/98].

Mazzate per tutti, repressione.

Anche il Pasolini sbagliato (quello giusto correva su una Benelli, vestito di cuoio nero) volle dire la sua sul Corriere della Sera del 7.01.73 e quasi quasi ci beccava: Noi siamo due Capelloni. Apparteniamo a una nuova categoria umana che sta facendo la comparsa nel mondo in questi giorni, che ha il suo centro in America e che, in provincia (come per esempio — anzi, soprattutto — qui a Praga) è ignorata. Noi siamo dunque per voi una Apparizione. Esercitiamo il nostro apostolato, già pieni di un sapere che ci colma e ci esaurisce totalmente. Non abbiamo nulla da aggiungere oralmente e razionalmente a ciò che fisicamente e ontologicamente dicono i nostri capelli. Il sapere che ci riempie, anche per tramite del nostro apostolato, apparterrà un giorno anche a voi. Per ora è una Novità, una grande Novità, che crea nel mondo, con lo scandalo, un’attesa: la quale non verrà tradita. I borghesi fanno bene a guardarci con odio e terrore, perché ciò in cui consiste la lunghezza dei nostri capelli li contesta in assoluto. Ma non ci prendano per della gente maleducata e selvaggia: noi siamo ben consapevoli della nostra responsabilità. Noi non vi guardiamo, stiamo sulle nostre. Fate così anche voi, e attendete gli Eventi.

3. God save the SED:

Ma torniamo alla DDR. Come il capitale assorbiva ogni novità per sottometterla alla legge del valore, per rendere merce (e quindi oggetto di scambio tra proprietari) ogni espressione musicale (dopo il beat, la vittima predestinata del capitalismo italiano, l’arma per ridurci a ragazzi per bene, tutti famiglia e castello di Manor, fu il prog) il capitalismo socialista si inventò il “Movimento per cantanti” messo in campo dalla FGCI locale per la produzione di musica beat autonoma in lingua tedesca, capace di ricollegarsi ai canti del movimento operaio tedesco e alle canzoni popolari. Un po’ come se, a 18 anni, ti costringessero a cantare tutte le sere per un pubblico di Berlinguerini “Gorizia tu sei maledetta”; si perde il senso delle parole, rendendo omaggio a un simbolo che gli ascoltatori (occasionali/obbligati) hanno volutamente rendere innocuo.

Nel 1976 Rolf Biermann fu cacciato dal Partito e dal paese per il suo impegno politico troppo comunista: recatosi all’estero per un concerto, non gli fu più concesso di rientrare in patria. Nel Paese si sviluppò un acceso dibattito tra intellettuali e artisti, molti dei quali furono costretti dal Partito ad aderire alle misure prese contro il cantautore; chi si rifiutò di aderire fu biasimato pubblicamente e vittima di sanzioni. I Renft Combo, che collaboravano con Biermann, scrissero una canzone in cui denunciavano di essere stati sciolti d’ufficio perché le loro canzoni provocavano “dolore alla classe operaia” e arrecavano “discredito alla Stasi”. Il 22 settembre 1975 il dirigente l’Ufficio Cultura tranciò la discussione: “Non vi abbiamo proibito di suonare, vi abbiamo detto che dopo quello che avete combinatonon esistete più”.

Non è forse la fine che la solidarietà nazionale voleva riservare all’italico proletariato giovanile? E forse che non c’è riuscita? anche se è occorso qualcosa di più di un ostracismo.  

La differenza esibita dapprima con camicie a fiori e poi con giubbotti e creste misura la distanza dei ragazzi di Yalta (per i quali, a differenza di quelli di Salò, alcuno dimostrò pietà) consente di replicare ai chi dopo trent’anni gioisce della caduta del muro come la caduta sia frutto di un esercizio di diserzione e non merito della bontà del metodo occidentale.

4. Si sono rotti i Platters:

Quando l’UNITÀ apre con il titolo “Si è aperto il muro di Berlino”, per la prima volta, forse, dal 1943 dice la verità. Il muro si era aperto, meglio, liquefatto come la storia che l’aveva issato. Non servivano più due poliziotti, due idee, due modalità repressive. Neppure che l’occidente avesse vinto. Era tutto occidente, la fabbrica non serviva più, tanto Stakanov che Cipputi potevano andare in pensione.

Tutto il merito della caduta è nelle lotte dei figli di Yalta, però, che avevano svelato l’unica verità: la merda è sempre merda.

A dire il vero, l’Unità, poi, svacca e tenta di giustificare il futuro prossimo fatto di finanziarizzazione e di sua partecipazione fattiva alla via socialdemocratica all’indebitamento quando scrive: il muro di Berlino non era soltanto chiusura militare e politica di una frontiera, ma simbolo della contrapposizione fra due mondi e terribile testimonianza di una inimicizia mortale. Era inoltre letteralmente il recinto di un campo chiuso in sé stesso per evadere dal quale si rischiava la vita […]. Oggi non solo le due Germanie non sono più separate e nemiche, ma la frontiera sull’Est d’Europa si riapre e ciò e destinato a ridare nuova identità politica e culturale all’intero continente con conseguenze per ora imprevedibili ma certo di immensa portata pratica e ideale. Siamo testimoni di qualcosa che muta e rinnova, proprio negli anni conclusivi del secolo, la storia del Novecento (“l’Unità”, 12 novembre 1989).

Le due Germanie non erano mai state nemiche, se non sul campo di calcio e una sola volta, il 22 giugno del 1974.Il supercross riempie gli stadi ma non fa vendere una moto (R. De Coster):

5. Il supercross riempie gli stadi ma non fa vendere una moto (R. De Coster):

Se è vero che restano i sogni senza tempo, le impressioni di un momento e il cuore di simboli pieno, non è inutile prendere atto di un atteggiamento che, inspiegabilmente, ha preso campo proprio dopo i fatti che qui si narrano.

Il caro estinto ha dischiuso la via ad una ostalgie tanto fetida quanto ingenerosa verso il tentativo originario (pur immediatamente abortito) cui fa da contrappunto il ritorno alla grande Germania (che la grande Albania dell’UCK sembra un lucido esperimento politico) oscillante tra Prussia e prurito nazi. Ma perché?

Si sono riconglioniti i teutonici?

Il capitale necessità di un cappio più stretto della BMW per soggiogare il popolo del Kaiser?

Forse.

Forse, però, il capitale ha bisogno del passato (soprattutto se innocuo) in cui rovistare e trovare sempre nuovo ciarpame con cui disinnescare la produzione di comune da parte delle moltitudini; moltitudini che, magari in modo discontinuo e in assenza di segnali decodificabili, ciclicamente bussa alle porte del cash (quelle del cielo le lasciamo a Padre Pio).

È fenomeno comune a entrambe le side di quell’Lp che si chiamava mondo della guerra fredda e che straripa nelle gioiose donne libere di Maria Grazia Chiuri o pimpante si articola nei suoni psichedelicamente innocui di tanta cortese ermeneutica Ma nasce prima, proprio nei giorni dell’orgoglio berlinese.

Nel 1988, Electrolux cede a CAGIVA il marchio Husqvarna, moto che ha fatto la storia del fuoristrada, che ha visto i migliori (tra cui il sottoscritto e Steve Mc Queen) tra gli utenti. Pochi ingegneri e operai svedesi si ribellano e fondano Husaberg, moto artigianale da poche centinaia di pezzi all’anno che troverà diffusione grazie soprattutto a due fratelli di Triuggio. Nel giro di pochi anni di vita (dopo la cessione a KTM non sarà più la stessa moto) si susseguono risultati grandissimi e restano (pochi) esemplari per la gioia dei non più giovani figli di Yalta.

È, tornando al senso dell’osservazione, la rivincita dell’operaio professionale derelitto (nel senso giuridico del termine, accantonato dopo la grande ristrutturazione dei 50’s) sull’operaio massa che aveva percorso, gonfio e tronfio, il periodo che abbiamo cercato di descrivere. Un operaio professionale, però, particolare, perché pone il trionfo del proprio saper fare incorporato nella fabbrica del dismette e non in sé stesso. La qualità del prodotto è merce avariata. Husaberg disoccupa le strade dai sogni per innervare la gigantografia del mondo di immagini desuete. Trova la vita nella morte di quello che avrebbe voluto essere, cannibali di sé stessi, gli operai della periferia di Stoccolma perdono la battaglia ogni volta che Smets taglia il traguardo.

Che cazzo c’entra? Direte.

C’entra che nello stesso periodo, dall’altra parte della cortina di ferro (ormai non più tale) alcuni operai di una fabbrica di autobus di Praga, mortificati dalla chiusura delle loro fabbriche di moto (CZ e Jawa, in testa) e dal non poter trovare neppure più nell’enduro una ragione di esistenza (la Cecoslovacchia sparisce senza che nessuno se ne sia accorto) cominciano a costruire iper-artigianalmente una loro moto, la chiamano Praha, e corre che è un piacere. L’esperimento dura meno della repubblica di Alba e non trova neppur un Fenoglio a ricordarla. Però resta il segno di quattro poveracci che cercarono di trovare nel passato (un passato di miseria e lavoro duro, peraltro) la fuga dal presente che li escludeva.

Guardare indietro è il più grave dei danni della caduta del muro; peggio, rinnovare il martirio deprivandolo del dolore che quel martirio comportava. Come cercare di comprendere lo schiavismo guardando i telefilm USA o la guerra attraverso il ricordo di Montanelli.

Dire che la fogna sovranista, il continuo richiamo a Dio, Patria e Famiglia sia colpa di un ingegnere svedese e due operai Cechi è forse estremo, ma la sfiga comincia proprio lì. Quando il muro quello di cemento si è “aperto” occorreva un nuovo muro, più tecnologico onde evitasse che al divenire rendita del capitale seguisse il farsi impresa delle moltitudini, impresa che ne aborrisse lo statuto per liberare la vita. Occorreva, quindi, una nuova glaciazione, che cristallizzasse la norma, rendesse codice l’esistenza e reato ogni divagazione.

Ma allora tu che sei così intelligente cosa ci suggerisci? Cominciamo là dove il trucco di Yalta cominciò a vacillare e ogni volta che di parlano di Matterella, Putin e Trump iniziamo a sussurrare:

Fascisti e missini col capo Michelini

appoggiati da Tambroni facevan da padroni

E poi poi poi ci chiamavano teddy boys

Teatro Margherita volean fare il congressone

ma c’eran i genovesi armati di baston

E poi poi poi ci chiamavano teddy boys

Le strade e le traverse tutte erano sbarrate

per proteggere i fascisti e le loro buffonate

E poi poi poi ci chiamavano teddy boys

E piazza de Ferrari in un attimo fu presa

fascisti e celerini chiedevano la resa

E poi poi poi ci chiamavano teddy boys

Il 30 giugno è un giorno che passerà alla storia

perché la Resistenza coperta fu di gloria

E poi poi poi ci chiamavano teddy boys

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