di MOIRA BERNARDONI.*

Questo testo è il capitolo 5 di AA.VV. (2013) “#Gezipark. Coordinate di una rivolta”, Edizioni Alegre, Roma.
sul sito disponibili le prime pagine http://ilmegafonoquotidiano.it/libri/gezipark

I conflitti non difendono i beni comuni, li costituiscono: al di fuori di tale osmosi conflittuale la categoria dei beni comuni perde di senso […] i beni comuni si costituiscono all’interno dei conflitti che il comune genera ogni qual volta riesce ad affermare, seppur in forma frammentaria ed embrionale, relazioni sociali e rapporti di produzione “altri”. Questo significa che quando parliamo di beni comuni in realtà non parliamo di un “oggetto” ma di un “soggetto” […] Individuare gli strumenti giuridici attraverso cui legittimare un’occupazione è già estremamente difficile: il fatto che occupare integri un’illegalità non è la conseguenza di una “cattiva” legge, ma il frutto fisiologico di un complessivo assetto normativo proprietaristico.

Paolo Cognini, Extra Ordinem. La zona franca dei beni comuni.

 

1. Perché (con) i Müştereklerimiz? 

Il comune, nozione complessa ed articolata, ha ispirato la formazione del gruppo Müştereklerimiz, (s)oggetto di questo racconto.[1] Müştereklerimiz è un collettivo politico istanbuliota che si autodefinisce “our commons”, traducibile letteralmente con “nostra communia” in latino o “i nostri (beni) comuni” in italiano. L’espressione è stata scelta per aprire a una duplicità di significato a cui il gruppo fa intenzionalmente riferimento: i nostri beni comuni a partire dalle caratteristiche e dalle lotte, anch’esse comuni, dei costituenti del gruppo.

I Müştereklerimiz hanno attivamente partecipato alla rivolta moltitudinaria di Gezi fin dall’inizio delle proteste alla fine di maggio. Non si limita, però, a questo semplice fatto la decisione di dedicar loro uno spazio specifico di riflessione a completamento della mappatura tracciata da Fabio Salomoni. Né tantomeno è frutto di quella che potrebbe sembrare una scelta narrativa obbligata, dovuta alla personale e diretta partecipazione agli eventi di Gezi a fianco dei Müştereklerimiz. Interessante è piuttosto il carattere innovativo di un soggetto politico di recente formazione e che è alla base anche della mia scelta politica di condividerne idee e pratiche. L’innovatività non si riferisce, però, alla novità dei discorsi o delle rivendicazioni, ma rimanda alle recenti dinamiche di insorgenza, imprevedibili sia dal punto di vista della scala che della transversalità socio-culturale e politica della partecipazione. Pensato come un contributo alla già vasta riflessione sugli avvenimenti, questo è un tentativo di analizzarli attraverso la lente concettuale del comune, oggetto di rivendicazione, obiettivo strategico e al contempo modalità di lotta.

Il mio obiettivo è proporre una sorta di inventario delle condizioni di possibilità del comune precedenti e seguenti a quella che i Müştereklerimiz stessi hanno definito «la scintilla di Gezi». L’ipotesi di partenza è che, se una certa idea di comune ha parzialmente contribuito a generare la rivolta di Gezi, questa, a sua volta, ha confermato una possibilità reale, ovvero storica, di sovvertire poteri autoritari, spalancando opportunità per sperimentare una relazione sociale alternativa all’individualismo (neo)liberale. Riappropriazione di beni comuni e comunanza delle lotte si stagliano all’orizzonte politico attuale come dinamiche fondamentali per capire Gezi e oltre Gezi, nella continua ricerca di paradigmi che possano dare impulso ad un movimento di resistenza al contempo destituente e costituente.

 

2. Chi e cosa sono

Per capire sia rivendicazioni che struttura organizzativa dei Müştereklerimiz mi sembra opportuno partire delle ragioni che hanno portato alla formazione del gruppo e da una rassegna cronologica degli eventi in cui hanno deciso di agire collettivamente. I Müştereklerimiz sono  per la maggior parte giovani donne e uomini, alcuni sono intellettuali di professione ed altri no, sono laici(sti), alcun* sono lesbiche, gay, bisessuali, transgender ed altri no; tra loro ci sono anche aleviti. I Müştereklerimiz non sono un partito e non eleggono rappresentanti; non sono un’organizzazione verticistica e al massimo possono delegare dei membri a portavoce delle decisioni prese per consenso. Non sono (ancora) un movimento e non hanno ancora una sede fissa ma usano quella virtuale del blog (http://müştereklerimiz.org/) e dei social network. Si sono formati nel 2012 dall’unione di associazioni e gruppi politici locali così come di singoli individui accomunati dal bisogno/desiderio di mettersi insieme nella lotta politica. Nel gruppo sono confluiti fin dall’inizio il collettivo ecologico Ekd (Ekoloji Kolektifi), il movimento urbano İmece (Toplumun Şehircilik Hareketi, attivo in lotte contro processi locali di gentrificazione), il network di solidarietà con i migranti Gda (Göçmen Dayanışma Ağı), urbanisti, affiliat* dei movimenti Lgbt e femminista, una cooperativa di consumatori e il collettivo per l’agricoltura urbana Tarlataban, attivo quest’ultimo nel campus dell’università Boğaziçi.[2]

Perché unirsi? La decisione di congiungere gruppi impegnati in lotte apparentemente diverse è nata dall’esigenza condivisa di unirsi, la quale, a sua volta, era il risultato di due prospettive di analisi correlate, una attinente al livello organizzativo dei singoli gruppi e l’altra legata alle sorti generali dei movimenti sociali in Turchia. Partiamo dal primo punto di vista. Negli ultimi anni i vari gruppi si trovavano a fronteggiare problemi simili come la scarsa partecipazione alle loro attività, non riuscendo a espandersi laddove, nel frattempo, le questioni in ballo non si arrestavano ma, anzi, s’ingrandivano. In altre parole, esistevano gruppi attivi e specializzati in specifiche aree di intervento ma gli attivisti percepivano la loro frammentazione e dunque la mancanza di organizzazione strutturale come problemi da risolvere, soprattutto se presi in considerazione dal secondo punto di vista, quello delle lotte per le rivendicazioni  su territorio nazionale. Le lotte dei singoli gruppi, separate, perdevano, infatti, d’intensità e di potenziale. Da qui nasceva l’urgenza di trovare un dispositivo appropriato ad un terreno comune (“hemzemin”) di comunicazione e azione per costruire relazioni di solidarietà e rivendicare beni e lotte comuni. I Müştereklerimiz erano alla ricerca di condizioni di possibilità per creare delle basi stabili per lo sviluppo di un movimento sociale solido che, stando all’opinione condivisa dai vari gruppi ed individui, richiede regolarità e frequenza degli incontri e delle discussioni.[3]

Come unirsi? La questione implicava due aspetti, relativi rispettivamente ai contenuti da rivendicare e alla forma dell’organizzazione. Punto di partenza era la scelta condivisa di porsi apertamente su posizioni anticapitaliste, antineoliberiste, antigerarchiche, antiautoritarie, antimilitariste, antipatriarcali e antieterosessiste, ovvero comunal-libertarie. Condivisa era anche una certa idea di libertà come autodeterminazione e autogestione dal basso. La scelta della forma è caduta di conseguenza sul modello assembleare, adatto a riunirsi regolarmente e per discutere insieme (in comune) delle problematiche condivise (comuni) dai diversi gruppi e, soprattutto, consono alle proprie istanze di democrazia partecipativa. I contenuti, i nostri (beni) comuni, erano dunque già parzialmente emersi da sè come nozione di riferimento e catalizzatrice di forze.

In turco il concetto di “commons” non esiste, il termine “müşterek” si rifa a radici ottomane, a un linguaggio quotidiano per indicare, appunto, le caratteristiche comuni (commonalities). Il comune d(e)i “Müştereklerimiz” è sinonimo di congiunto, simpatetico e mutuale, di reciprocità e solidarietà. I Müştereklerimiz sono un’unione (birlik) di realtà politiche che – differenti tra loro per rivendicazioni e pratiche di lotta ma accomunate dalla condivisione di problematiche generali, ideali ed obiettivi politici – hanno pensato di praticare il comune (ortak) come ipotesi strategica di azione. La scelta non è dipesa, però, da un mero processo di traduzione del ben noto “commons” ma dalle condizioni locali di lotte specifiche e necessariamente intersecate. Lottare per la riappropriazione di beni comuni ambientali, urbani, sociali e culturali assume un particolare significato in Turchia, in un contesto dove il passato storico, bene comune inalienabile, è stato più volte negato o strumentalizzato.

 

3. Beni e lotte comuni in città

Nel 2001 la Turchia si è trovata nel pieno di una profonda crisi finanziaria con epicentro nel sistema bancario. Il Fondo monetario internazionale le concesse un prestito di 19 milioni di dollari e dal 2002 il premier Tayyip Erdoğan (Akp, Partito della giustizia e dello sviluppo) la guida verso la stabilità politica e lo sviluppo economico. Nel frattempo il paese è diventato un mercato emergente che attrae un alto flusso di capitali internazionali, turisti e professionisti viaggiatori che – come me tra molti – spesso scelgono Istanbul come destinazione, contribuendo – direttamente o indirettamente – a processi difficilmente arrestabili di gentrificazione e dunque di ingegneria sociale. Dinamiche di dislocamento ed esproprio diventano strumenti per la modificazione del tessuto socio-culturale di un territorio, implicando, tra l’altro, lo sfaldamento delle relazioni di solidarietà di quartiere.

Come analizzato qui da Lea Nocera, la «Taksim di cemento» è emblematica delle profonde trasformazioni economiche, sociali ed urbane che hanno seguito la crisi del 2001 e che sono servite a sostenere il discorso sulla Turchia come modello di democrazia per gli altri paesi della regione. Lo sviluppo urbano ha sempre avuto e conserva tuttora un ruolo centrale nel processo di modernizzazione che, se per certi versi è in parte un processo di occidentalizzazione iniziato fin dagli ultimi decenni dell’impero ottomano, di sicuro è un processo imposto dall’alto e in parte autoritario. La rivolta di Gezi ha scoperchiato quello che Lea ha definito «vaso di pandora» ma il governo continua imperterrito a utilizzare la retorica della modernità come regolarità, grandezza e dispendiosità per garantirsi legittimazione e consenso.[4] La questione centrale nel criticare quello che Bengi Akbulut e Fikret Adaman hanno definito «feticismo della crescita»[5] è stata posta anche dai Müştereklerimiz nei loro comunicati del 30 e 31 maggio: per chi è pensato questo modello di sviluppo e a profitto di chi?[6]

L’enfasi sulla crescita rivela, infatti, solo la superficie di una realtà che è invece profondamente caratterizzata da frammentazione sociale e da condizioni diffuse di precariato lavorativo ed esistenziale, di estrema flessibilità e spesso di indesiderata mobilità. L’intreccio promiscuo di conservatorismo populista e potere finanziario si appella alla tradizione religiosa per comandare sulla quotidianità, decomponendo la struttura materiale della società e premendo anche sulle condizioni di possiblità delle lotte politiche. Da ribadire è come queste ultime siano di per sè già aggravate da una vaga definizione del concetto di terrore, dalla sua strumentalizzazione e conseguente persecuzione di giornalisti, studenti, intellettuali ed attivisti che intendano esercitare liberamente il loro diritto alla libertà d’espressione. Una delle conseguenze della precarizzazione del lavoro è, infatti, anche la riduzione delle relazioni tra i lavoratori, costituendo un attacco non solo economico ma anche politico. Incidendo sulle capacità organizzative dei lavoratori, impedisce l’organizzazione di quella che sarebbe una lotta di classe.[7]

Le proteste sono iniziate a Beyoğlu, centro culturale, commerciale e turistico di Istanbul, ed è proprio Beyoğlu che il governo si sta impegnando sistematicamente a rinnovare o, per meglio dire, a ripulire dai cosidetti “marginali”. La condizione di marginalità assume una connotazione non solo identitaria come sinonimo di minorità culturale e/o etnica ma allo stesso tempo anche economica e sociale come sinonimo di povertà e pericolosità. Marginali sono, infatti, le/i lavorator* del sesso, i migranti kurdi e rom così come quelli dall’Africa e dai paesi confinanti. Ecco dunque che la questione dei migranti e della libertà di movimento s’intreccia immediatamente con quella urbana e quella del lavoro. I primi a essere oppressi dagli effetti dell’attuale modello di globalizzazione economica e della precarizzazione delle relazioni sociali sono proprio i lavoratori migranti, forza lavoro strumentale allo sviluppo economico del paese ma spesso forzati a rimanere intrappolati nell’invisibilità politica che lo status di illegalità genera. La questione del lavoro interessa inoltre anche il movimento Lgbt, dal momento che la discriminazione neoliberista non risparmia neanche l’orientamento sessuale. Alla luce di simili considerazioni emerge chiaramente il significato dell’esigenza dei Müştereklerimiz di costruire nuovi spazi di solidarietà per accorciare le distanze tra gli spazi di resistenza, ed emerge chiaramente anche l’elevato valore simbolico delle celebrazioni per il Primo maggio.

 

4. Da piazza Taksim verso Gezi

Il Primo maggio diventa occasione non soltanto per festeggiare i traguardi economici e sociali raggiunti dai lavoratori, ma anche per manifestare contro l’attuale precarietà del lavoro e per il diritto ai beni comuni, all’abitazione e all’educazione, all’ambiente, alla salute e alla città(dinanza). Nonostante dunque ogni giorno dell’anno sia Primo maggio, i Müştereklerimiz l’hanno scelto come prima occasione per scendere in strada con un unico striscione (her yerde direnişteyiz, beraber özgürleşeceğiz, ovunque resistiamo, insieme ci libereremo) e per camminare insieme con nuove bandiere, prive di simboli ma di diversi e determinati colori: nere, rosse, verdi, viola e rosa. Per preparare il terreno di lotta comune in vista del Primo maggio 2013 è stata decisa la serie di incontri assembleari Ortaklaşan Toplumsal Mücadeleler (lotte sociali condivise). Tra febbraio e aprile 2013 si sono tenuti cinque forum, una sorta di agenda politica: «lotte comuni contro il capitalismo», «università pubblica e la lotta», «economie di solidarietà», «opposizione sociale e pratiche di autogestione» e «lotta dei lavoratori: nuove questioni e nuove possibilità».

Ma cosa è successo il Primo maggio 2013 e perché è un passaggio obbligato per capire le proteste di piazza Taksim e, soprattutto, le novità delle proteste di Gezi? In un comunicato del 7 giugno in cui i Müştereklerimiz rispondono a delle domande giunte a Gezi da Zuccotti Park, viene ribadita la centralità del Primo maggio come una prima convergenza di due flussi: i sindacati contro l’impoverimento della classe lavoratrice e i cittadini contro l’approccio neoliberista a beni comuni come piazza Taksim e il cinema Emek, due luoghi comuni innegoziabili. Piazza Taksim «occupa un posto particolare nella memoria collettiva della città di Istanbul» per le ragioni storico-politiche ampiamente analizzate da Lea. Il Primo maggio è associato già da tempo con l’acredine dei gas lacrimogeni e alla memoria collettiva sono state gia aggiunte anche le immagini del 9 giugno 2013, quando una piazza stracolma non poteva non far pensare a quelle celebri del 1977. Come precisato già da Lea, dal 1978 al 2009 Piazza Taksim era stata chiusa alle celebrazioni della festa del lavoro. Quest’anno, iniziati già i lavori di pedonalizzazione della piazza, l’accesso alla zona è stato nuovamente negato con conseguente ritorno ai tradizionali gas lacrimogeni per sfollare i cortei dei manifestanti intenzionati a raggiungerla.[8] Il 7 aprile 2013, invece, i gas urticanti sono stati adoperati per reprimere una delle manifestazioni che dal 2010 si protraevano regolarmente contro la demolizione (ormai avvenuta) di un bene comune come il cinema storico Emek, su Istiklal Caddesi.

Lo scenario era un assaggio degli eventi a venire, la lotta urbana stava prendendo le forme di quella che sarebbe diventata di lì a breve una guerriglia urbana. Dal Primo maggio in poi, infatti, ogni tentativo di radunarsi e manifestare nella zona, indipendentemente dal tipo di rivendicazioni, è stato sistematicamente inibito da attacchi della polizia attraverso l’uso intensificato degli ormai noti gas lacrimogeni di produzione brasiliana. Come puntualizzato dai Müştereklerimiz in un comunicato del 7 giugno «the area was completely militarized right on our faces» ma questa situazione, in realtà, non ha fatto altro che rafforzare la capacità collettiva alla resistenza.[9] I famigerati progetti di rinnovamento della zona Taksim non rispondono solo a interessi economici del governo ma anche a quelli politici, connessi appunto al significato storico della piazza. Il progetto urbano di pulizia etnica, sociale e culturale sopra discusso non sarebbe stato completo se l’area non fosse stata ripulita anche politicamente, sottraendo lo spazio tradizionale alle proteste. Né il governo né i Müştereklerimiz  – e probabilmente nessun altro – avevano però previsto o si sarebbero potuti aspettare che l’escalation della violenza della repressione avrebbe solo alimentato l’indignazione alla radice di una rivolta moltitudinaria.

Si capisce facilmente, dunque, come lo slogan di protesta «her yer Takism, her yer direniş!» (ovunque è Taksim, ovunque resistenza!) sia diventato emblematico, accomunando la resistenza del Primo maggio a quella di Gezi, passando per ogni altra città a cui si sono estese le proteste. Il Primo maggio, sotto attacco di lacrimogeni per ore, i cortei non sono potuti arrivare a Taksim, ma resistere in qualsiasi altra parte della città era come resistere a Taksim. Per di più, per molti di noi la resistenza non si ferma(va) a Taksim o a Gezi ma (anda)va oltre gli obiettivi specifici, contro il palesarsi di un crescente autoritarismo da un lato e verso la riappropriazione del diritto di decidere sui beni comuni dall’altro. Lo spazio (urbano) – della piazza e del parco – è (stato) sia teatro di lotta che oggetto conteso, confermando il suo valore di strumento politico per la produzione cooperativa di nuovi linguaggi e pratiche comuni. Piazza Taksim deriva una buona parte di legittimazione politica dal passato rischiando, a mio avviso, di non uscire da una logica della negoziazione.[10] Gezi, a differenza di piazza Taksim, apre lo scenario d’azione a processi decisionali nuovi, basati sul modello assembleare e sul consenso, oltre l’obsolescenza della logica della rappresentanza.

 

5. La comune di Gezi

La resistenza di Gezi implica comune in vari modi. Sono stati sperimentati processi decisionali che, al di là della loro effettiva riuscita, sono nuovi non perché i modelli di riferimento siano un’invenzione del momento, ma per la scala moltitudinaria della partecipazione attiva. Fatta eccezione per contenuti episodi di scontri, la forma più elementare (ma non per questo facile) di comune è stata proprio la comunanza nella resistenza di soggetti politici le cui identità continuano a restare diverse e perfino antagoniste: l’ampia opposizione nazionalista kemalista del Chp e del Tgb, la sinistra partitica radicale e il partito curdo della pace e democrazia (Bdp). La solidarietà – economica e non solo – ha costituito la forma di comune probabilmente più facilmente riconoscibile. La forma, però, più complessa, articolata e fertile di pensare e fare comune sono (stati) indubbiamente i forum, i quali hanno segnato l’inizio di una nuova – possibile – traiettoria della storia locale, immediatamente intrecciata a quella globale per via della transnazionalità delle insurrezioni e dei dispositivi di democrazia partecipata.

Se il comune dei beni che rivendichiamo è una causa della resistenza, il comune come relazione sociale ne è un obiettivo, un risultato. L’occupazione di Gezi ha trasformato la zona in uno spazio temporaneamente esente sia da autorità egemoniche che dallo stato di polizia. Per due settimane consecutive abbiamo vissuto il parco come uno spazio autonomo per la sperimentazione di relazioni sociali “altre”, diventando una comune.[11] Secondo una sorta di senso comune e mettendo a disposizione le proprie abilità personali ci siamo ritrovati a scegliere il proprio ruolo nel processo di produzione. Gezi ha offerto la possibilità di fare esperienza diretta – per molti anche questa una novità – di pratiche di condivisione, solidarietà e cooperazione, sia nella distribuzione delle risorse (tende, coperte, cibo, medicinali, maschere e libri) che nella gestione delle mansioni (primo soccorso, pulizia del parco, preparazione dei pasti, comunicazione). Il parco era diventato una fucina del comune e la sua atmosfera, quando non sotto attacco, riproduceva le dinamiche socio-spaziali di un festival. [12]

La comune di Gezi ha tentato di implementare un collettivismo orizzontale che ha – se non eliminato – almeno limitato la riproduzione di strutture gerarchiche. Basato in genere sull’eguaglianza, il collettivismo orizzontale di Gezi è nato piuttosto spontanemente ma, onde evitare panegirici retorici, la spontaneità del caso non va dedotta troppo ingenuamente. Tanto si è parlato, ad esempio, dell’eguaglianza tra donne e uomini, dell’assenza di discriminazione nei confronti de* Lgbt e del fatto che non si sono registrati casi di molestie sessuali (se non da parte della polizia durante i periodi di custodia). Tuttavia, ciò non toglie che in Turchia la società sia marcata profondamente da una tradizione patriarcale così come da tendenze omofobiche e transfobiche. La spiccata reciproca sensibilità dei comunardi era un dato di fatto, anche se da non sottovalutare sono le campagne di sensibilizzazione all’interno del parco stesso e il ruolo dei forum come strumento di propaganda antisessista ed antirazzista.

Emerge così ancora una volta il potenziale del modello assembleare e quindi anche il ruolo politico dei Müştereklerimiz. Al parco dall’inizio delle proteste ed entrati a far parte della piattaforma Taksim Dayanışma qualche giorno dopo, hanno fin da subito risolutamente proposto e promosso il forum come strumento di dibattito politico, di comunicazione e di diffusione ma soprattutto come pilastro di un processo decisionale dal basso. A Gezi i Müştereklerimiz si sono occupati anche di logistica, contribuendo alla distribuzione di tende e coperte e alla coordinazione di importanti workshop informativi ma il loro ruolo organizzativo non si è limitato a questo. Nelle assemblee al parco si sono organizzati in gruppi di lavoro, tra i quali quelli addetti alla comunicazione meritano una nota particolare d’attenzione per gli sforzi nel produrre strumenti di informazione indipendente in un contesto dominato da repressione mediatica e disinformazione.[13] Date le condizioni e a partire dall’idea che il mediattivismo costituisce un’indispensabile prassi di resistenza, all’interno del parco sono nate iniziative mediatiche come Gezi Radyo e il collettivo Videoccupy. Hemzemin è invece una sorta di fanzine pensata come strumento di coordinamento mediatico tra i vari forum di quartiere formatisi dopo lo sgombero di Gezi. Sia cartacea che online, contiene aggiornamenti, comunicati e editoriali (http://hemzeminposta.org).

 

6. Gezi e Müştereklerimiz oltre Gezi

Gezi è stata una battaglia reale, vincente e anche simbolica, una rivolta contro la deriva autoritaria di un contraddittorio processo di modernizzazione. In che misura, però, possiamo parlare di Gezi come movimento? Gezi è stata la “scintilla” di un’insurrezione moltitudinaria e l’indignazione diffusa ne ha causato lo scoppio. Si tratta dunque, anche in Turchia, di un “movimento di indignati”? Gezi è (stato) un moto, una spinta di un corpo collettivo che per muoversi ha bisogno di una moltitudine di corpi che gli trasmettano il movimento (Spinoza, E2 L3). La moltitudine di Gezi è composta da singolarità che hanno condiviso cinque richieste generali[14], ma che restano diverse per ideali, rivendicazioni ed obiettivi strategici. Non si è formato, in pratica, un movimento a partire da un programma politico ben definito e condiviso. Quello di Gezi è (stato) sì un movimento, ma un movimento di resistenza a protezione del parco e soprattutto di resistenza alla repressione, anche se ciò non significa che Gezi non abbia aperto nuove condizioni di possibilità per la cristallizzazione di un movimento che non sia solo antagonista e che sublimi l’indignazione in determinazione.

Leggiamo spesso che le proteste ambientaliste si sono trasformate in manifestazioni antigovernative, ma l’interpretazione generalizzata di Gezi come lotta per la democrazia rischia di non sfuggire a tendenze omogeneizzanti se non si fa chiarezza sugli ideali di democrazia a cui i singoli gruppi fanno riferimento. L’esegesi dell’insurrezione come un movimento anti-Akp se non addirittura anti-islamista è, a mio parere, la più riduttiva delle analisi, perché interpreta gli eventi in base ad una logica dicotomica che appiattisce la complessità del movimento di resistenza ad una lotta bipolare tra il timore di islamizzazione radicale della società e lo spirito secolare di una repubblica modernista e nazionalista.[15] Al contrario, non possiamo non tener conto della molteplicità delle istanze di lotta e anche degli aspetti propositivi.

Iniziata come una battaglia ecologista e urbana per la riappropriazione fisica e simbolica di un bene comune come il parco, Gezi è diventata una rivolta per il diritto all’autodeterminazione, per il diritto alla città(dinanza) come diritto a decidere sui meccanismi di gestione e regolamentazione degli spazi comuni, reclamato non in quanto popolo di una nazione ma in quanto utenti ed abitanti dei propri territori urbani. In questo senso il movimento destituente di Gezi ha inaugurato un processo di soggettivazione politica potenzialmente rivoluzionario, tracciando i contorni di una lunga ma percorribile via di fuga dalla logica della rappresentanza. Nonostante al momento nei forum si discute, tra l’altro, di chi sostenere alle prossime elezioni amministrative del 2014, e nonostante un potere legislativo dei forum sia ancora lontano mille miglia dal poter essere istituzionalizzato, non possiamo non scorgerne il potere costituente e l’inestimabile valore politico come luoghi di sperimentazione e apprendimento di forme di democrazia diretta.

Dopo Gezi i Müştereklerimiz continuano, quindi, a sostenere il proseguimento nella direzione che i forum hanno aperto, un connubio di radicalità politica, conflitto e spinta democratica verso l’auto-organizzazione. Fondamentale è dunque la produzione continua ed esponenziale di spazi “altri” di elaborazione di discorso teorico e pratiche di movimento, restando convinti che importante è il panorama globale ma decisive sono le istanze locali.[16] Sia i Müştereklerimiz che la rivolta di Gezi sono, infatti, il risultato di problematiche ed esigenze locali, ma è impossibile non scorgere il filo che li accomuna ad una rete transnazionale che va dalla rivolta in Brasile a Puerta del Sol.

 

7. Orizzonti

In aumento sono i fuochi insurrezionali che, da diverse longitudini e latitudini, (si) illuminano (al)l’orizzonte globale, e opinione spesso condivisa è che i giovani di una nuova classe media abbiano un ruolo determinante nello sviluppo sinergetico degli eventi. Anche i Müştereklerimiz sono giovani e la forte presenza di giovani a Gezi appare chiaramente comprensibile alla luce di un connubio di fattori: estesissima privatizzazione dei servizi educativi, precarietà e, in aggiunta, un crescente proibizionismo che incide direttamente sulle loro abitudini di vita.[17] Basta tutto ciò a concludere che è possibile individuare nei giovani di una nuova classe media ed erudita la forza motrice di un movimento per la riappropriazione di spazio decisionale? Forse non a caso il governo turco dispiega una quantità esagerata di forze di polizia per reprimere le manifestazioni degli studenti dell’Università tecnica del Medio Oriente (Odtü/Metu, Ankara), i quali protestano dallo scorso settembre contro la costruzione di una strada all’interno della foresta del campus.[18]

In quale misura dunque la rivolta g-locale dei nostri giorni è una lotta di classe e, nello specifico, di una nuova classe media? Il neoliberalismo ha reso “i mercati” i protagonisti di uno sviluppo iniquo e squilibrato ma il conflitto non è scontro tra forze diverse per stile di vita ed identità socio-culturale. Come puntualizzato da Antonio Negri, è lo sviluppo stesso che “ci restituisce un modulo assai consistente di lotta di classe”. Due sono dunque i blocchi:

da un lato tutti coloro che possono partecipare all’“interesse” (cioè al profitto monetario – alla partecipazione alla pratica globale dell’usura dei mercati privati e/o semipubblici) costruito sul mercato finanziario; dall’altro lato tutti coloro che considerano l’esercizio della loro forza-lavoro reso socialmente utile dal loro “stare insieme” e quindi dall’esigenza (bisogno e desiderio) di essere garantiti nel corso della loro vita non dal perdurare della barbarie del privato possesso ma dal possibile godimento dell’accesso al comune. E non c’è “nessuna classe media” fra queste due realtà etiche. [19]

Pensare strategicamente mira a celebrare la diversità e non la dicotomia, ma cavalcare le contraddizioni della società riflesse e mediate nello spazio (urbano) non è altro che una tattica per produrre alternative, affinché le relazioni straordinarie diventino quotidianità, perché la rivoluzione è politico-economica così come etica ed esistenziale.

 

* Questo testo è il capitolo 5 di AA.VV. (2013) “#Gezipark. Coordinate di una rivolta”, Edizioni Alegre, Roma.  sul sito disponibili le prime pagine http://ilmegafonoquotidiano.it/libri/gezipark


[1]  Vorrei preliminarmente precisare che le informazioni esposte fanno riferimento a dichiarazioni dei Müştereklerimiz e/o sono il frutto di discussioni con alcuni membri del gruppo, ma che le opinioni espresse sono personali e non rappresentano necessariamente il punto di vista del collettivo. Ringrazio inoltre Fırat Genç per le informazioni dettagliate ricevute durante una recente conversazione (settembre 2013) e che sono parzialmente alla base dei paragrafi seguenti.

[2] I gruppi di attivisti erano già spesso legati da legami di amicizia oltre che di conoscenza dovuta alla partecipazione a precedenti azioni come Direnistanbul (Resistanbul) nell’ottobre 2009, una settimana di eventi per dichiarare la non-ospitabilità all’incontro dei delegati dell’F.M.I e della banca Mondiale.

[3] Come dichiarato nel comunicato dell’8 giugno, disponibile sul sito, i Müştereklerimiz non volevano essere un’organizzazione ombrello e neanche un semplice network perché il focus non sarebbe stato sulla risoluzione delle problematiche politiche e gestionali delle singole realtà e delle relative lotte. Volevano, inoltre, evitare un discorso che avesse potuto limitare le rivendicazioni a quelle proposte dai membri; volevano, cioè restare aperti al dialogo e alla cooperazione. Ciò di cui avevano bisogno era individuare ed esporre le rivendicazioni, il funzionamento, i metodi e i mezzi per una lotta dal basso, duratura e sostenibile. Per questi motivi anche l’opzione piattaforma è stata scartata. Da un lato una piattaforma avrebbe dovuto prevedere delle liste di appartenenza, delle posizioni ufficialmente riconosciute e dei rappresentanti; dall’altro avrebbe cessato di avere senso una volta risolta la particolare questione per cui sarebbe stata formata, come, ad esempio, un progetto specifico di riqualificazione urbana.

[4] Tale retorica emerge chiaramente anche nei 28 minuti di un video propaganda che il governo ha fatto produrre e circolare nei media dopo le proteste. Il link: https://www.youtube.com/watch?v=LnUC-11h900

[5] Akbulut, Bengi e Adaman, Fikret (2013) The unbearable appeal of modernization: The fetish of growth, in “Gezi Park: A new history is beginning”, in “Perspectives: Political analysis and commentary from Turkey”, #5.13, pp. 14-17.

[6] Tutti i comunicati dei Müştereklerimiz sono disponibili sul loro sito.

[7] E necessario, però, precisare che i Müştereklerimiz  non partono da posizioni operaiste, ovvero non partono dalla considerazione della centralità della classe operaia.

[8] Come hanno dichiarato i Müştereklerimiz nel comunicato che ha fatto seguito alla giornata di protesta uniti per le strade del quartiere di Beşiktaş, il ministero dell’Interno del governo Akp ha negato l’esercizio del diritto alla libertà di espressione e manifestazione, facendo leva sulla questione dei rischi per la sicurezza dei manifestanti in piazza Taksim da un lato e dall’altro li ha fatti violentemente attaccare per ore dalle forze dell’ordine.

[9] Dopo il Primo maggio – e senza poter immaginare cosa sarebbe successo dalla fine del mese – l’attenzione dei Müştereklerimiz  e di altri attivisti era focalizzata su un altro appuntamento, importante in sé e anche come possibile occasione per riprendersi l’accesso a piazza Taksim: il Gay Pride di fine giugno che, effettivamente, è stato esonerato dagli attacchi della polizia.

[10] L’attitudine del governo è stata, infatti, quella di giustificare il progetto di radicale rinnovamento della zona Taksim facendo ricorso al passato, promettendo di ricostruire le precedenti caserme militari (demolite nel 1940) da utilizzare come centro commerciale, senza tener contro del fatto che, come precisato dai Müştereklerimiz in un comunicato dell’8 giugno, quelle caserme avevano già distrutto un cimitero armeno ma non la sua memoria storica.

[11] Sarebbe interessante dedicare un’analisi specifica allo spazio delle barricate, chiedendosi se anche lì come al parco si siano create delle dinamiche per cui si possa parlare di una comune.

[12] Si potrebbe dire che Gezi fosse stato trasformato in una città nella città, con tanto di flussi di curiosi e turisti. Penso sia interessante interpretare la comune di Gezi attraverso la lente concettuale di quella nozione che Iris Marion Young ha definito «city-life», vale a dire una forma di relazione sociale caratterizzata dallo stare insieme di persone e gruppi tra loro sconosciuti, i quali interagiscono attraverso spazi ed istituzioni a cui tutti si sentono di appartenere. In quale misura i forum potrebbero essere considerati un’istituzione del comune è una questione che richiederebbe un’argomentazione articolata. La solidarietà tra comunardi e la straordinaria cordialità tra sconosciuti erano invece unite ad un visibile entusiasmo nello stare insieme a far qualcosa di potenzialmente utile per trasformare la nostra città e le nostre relazioni sociali. Vedi Iris Marion Young, Iris Marion (1990) Justice and the Politics of Difference, Princeton University Press, Princeton.

[13] Alcuni dati: durante le proteste di Gezi 48 sono stati i giornalisti feriti e almeno 11 quelli in detenzione, mentre al momento (ottobre 2013) 66 giornalisti e 27 editori rimangono dietro le sbarre.

[14] Conservazione del parco, dimissioni dei responsabili dell’escalation di violenza, stop all’uso dei gas, rilascio dei detenuti e diritto di manifestare liberamente.

[15] Le recenti e controverse normative che limitano il consumo di alcolici, ad esempio, non sono, a mio avviso, un sintomo di islamizzazione imminente. I divieti non solo richiamano alla mente norme in vigore da tempo negli Stati Uniti ma rientrano, piuttosto, nella stessa logica che vorrebbe ripulire il centro di Istanbul e renderlo un’area sicura per l’intrattenimento della classe media e dei turisti.

[16] Interessante e stimolante è, ad esempio, il caso del Don Quixote, un centro sociale nel quartiere di Kadıköy, recentemente sorto dall’occupazione di un edificio abbandonato da 15 anni. Il gruppo di attivisti Yeldeğirmeni (Il Mulino) si è formato durante la resistenza di Gezi.

[17] Dall’alcol fino all’aumento degli affitti in conseguenza dei processi di gentrificazione.

[18] ODTÜ è un’università pubblica e uno spazio pubblico usato da molti ankaresi come parco domenicale e la dinamica della resistenza è simile a quella di Gezi ma allo stesso tempo diversa. Si tratta di una lotta ambientalista contro la devastazione (già avvenuta) di migliaia di alberi, con tanto di azioni per ostacolare le operazioni dei bulldozer, barricate, gas lacrimogeni e scontri con le forze di polizia, le quali per scortare gli operai della municipalità hanno addirittura fatto irruzione nel campus pur non avendo l’autorizzazione del rettore ad entrare. Molteplici e di varia portata sono state le manifestazioni di solidarietà, anche qui ad Istanbul. Sembra però che ODTÜ sia rimasto un focolaio circoscritto incapace di dar luogo ad una nuova ondata di sollevazione generale per una serie di ragioni. Esse vanno, a mio avviso, dalla posizione periferica del campus rispetto al centro-città fino alla scarsa attenzione mediatica internazionale, dovuta, a sua volta, al fatto che Ankara non è Istanbul. Penso, però, che uno dei motivi principali sia proprio la diversa scala di significato simbolico che ODTÜ e Taksim occupano nella memoria collettiva. L’una affonda le radici in una tradizione di impegno politico e proteste che, pur se fortemente represse in conseguenza del colpo di stato del 1980, continuano a caratterizzarla come una delle università pubbliche più di sinistra del paese. Il significato simbolico di Taksim, invece, è peculiare proprio per la stessa trasversalità che ha essenzialmente contraddistinto la rivolta di Gezi.

[19] Negri Antonio, Per la costruzione di coalizioni moltitudinarie in Europa, 2013.

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