Di MIMMO SERSANTE

Per i partecipanti al seminario navaronsino dell’11-13 agosto, un’occasione, questa della pandemia da Covid 19, per riprendere un tema caro ai compagni di EuroNomade: il comune come alternativa tra pubblico e privato. Fin qui se n’era parlato solo tra esperti: del diritto, di economia, di filosofia politica. E sempre con la consapevolezza, almeno chez nous, che il concetto abbisognasse di una verifica pratica per uscire da un’oggettiva condizione di minorità in cui l’assenza di lotte e di un soggetto delle lotte l’avevano fin qui ricacciato. Per altri concetti era andato diversamente. Ci ricordiamo di Deleuze e della sua pippa (si fa per dire) sul concetto? Per la sua presa, diceva, perché la sua diffusione acquisti la giusta velocità, è necessario un piano, un vuoto, letteralmente un orizzonte[1]. Delle lotte, avevamo pensato sul momento; no, più modestamente degli eventi. La pandemia che stiamo vivendo e che ci affligge potrebbe essere questo evento, il piano di immanenza entro cui ripensare il nostro concetto. Intanto perché fa giustizia di tanti luoghi comuni, a cominciare da quella identificazione del “comune” con l’aria, l’acqua, la flora e la fauna secondo la lezione biblica del Salmo CXIII, 16: «I cieli sono i cieli del Signore, ma [il Signore] ha dato la terra ai figli dell’uomo». Oppure confondendolo con la proprietà pubblica, magari sostantivizzando l’aggettivo. Nel comune sentire, a sinistra come a destra, si ritiene che non ci sia alternativa tra pubblico e privato, intendendo col primo termine tutto ciò che è amministrato e regolato dallo Stato, in primis l’insieme dei servizi sociali ritenuti indispensabili. Insomma il welfare, non da oggi sotto l’attacco del privato, sinonimo per i più di razionalità, efficienza, economicità. Dunque, o pubblico o privato oppure un loro mescolamento dosando bene le rispettive parti, come è accaduto nei suoi due comparti della sanità e dell’istruzione. Di fatto, terzium non datur. Ma ecco il Covid 19 sparigliare tutte le carte costringendoci a pensarla diversamente. Lo fa nei panni nobili – ancora Deleuze – del personaggio concettuale. Come l’Idiota senza il quale il Cogito cartesiano non avrebbe senso[2]. Ha mostrato, in un sol colpo, l’assoluta pochezza del privato e l’impotenza del pubblico e anche il punto di non ritorno di tutto un sistema incapace di rinvigorire, come avrebbe detto Lenin, le sue membra incancrenite e putrescenti.  Se delle pandemie trascorse lo storico sociale ha potuto dire che in fondo non tutto il male viene per nuocere considerando l’impennata del potere contrattuale dei sopravvissuti, la stessa cosa ci piacerebbe che leggessero i nostri nipoti a proposito di questa ultima pandemia. Che il suo virus, oltre che seminare da perfetto idiota paura e morte, avesse mobilitato come in un fronte di guerra tutte le facoltà umane, le competenze, i saperi e il lavoro della mente e del cuore di più. Non era questo che diceva duemila anni fa Aristotele, che l’uomo è un animale sociale portato per natura a unirsi ai propri simili per formare comunità? Oggi più propriamente reti di rapporti sociali e di forme di vita comuni.

 Carlo Romagnoli [3]

Richiamo alcuni processi che caratterizzano il contesto attuale[4]:

– la disuguaglianza si è approfondita e strutturata in assetti societari e finanziari finalizzati a valorizzarla ed amplificarla anche grazie a incalzanti e reiterati processi di privatizzazione e sfruttamento dei sistemi di welfare; nonostante sia stato definito il suo ruolo di causa delle cause  e quantificati i danni che determina alla qualità della vita ed alla salute di molte e molti, oggi la disuguaglianza si struttura con il suprematismo in proposta politica che legittima il sacrificio dei più vulnerabili dati i loro costi sociali, approfittando della crisi economica data dalla pandemia;

– un parametro centrale nella progettazione organizzativa dei servizi sanitari come la transizione epidemiologica è oggi in crisi per l’insorgere di nuove e vecchie epidemie e pandemie, rendendo evidente l’inappropriatezza dei setting preventivi ed assistenziali progettati per gestire le sole malattie cronico degenerative sotto le nuove condizioni prodotte dalla globalizzazione neoliberista;

– la crisi climatica richiede secondo numerosi rapporti dell’IPCC il rapido abbandono delle fonti energetiche legate al fossile ed il passaggio all’economia circolare, evoluzioni tutte in aperto contrasto con l’agenda di importanti paesi guidati da suprematisti (USA, UK, Australia, Brasile, Israele, ecc.) che ne negano l’esistenza, mentre fenomeni metereologici estremi e modificazioni negli areali di diffusione dei vettori ne rappresentano impatti abituali in Italia;

– la crisi ambientale vede un rapido declino della biodiversità, sintesi dell’impatto sistemico del degrado delle matrici ambientali inquinate da produttori di rischio tutelati da normative funzionali ai loro interessi che creano una inettitudine organizzata in cui le agenzie di prevenzione ambientale sono costrette a consentire l’esercizio di sistemi produttivi lineari e obsoleti finendo spesso per tutelare i produttori di rischio piuttosto che gli esposti;

– conflitti di interesse di ogni tipo riempiono le cronache giudiziarie del mondo sanitario e alimentano sia complottismi ed irrazionalismo che legittime richieste di modelli gestionali capaci di arginarli e rendere trasparente l’azione amministrativa per la tutela della salute;

– lo sviluppo e la diffusione delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione hanno enormemente arricchitole le interazioni sociali e la condivisione dei saperi, creando consapevolezza sulla potenza del sapere sociale disponibile in generale e di quello utile alla soluzione dei problemi sopra richiamati. Secondo Carlo Vercellone e Andrea Fumagalli viviamo in una  ‘Economia basata sulla conoscenza’ in cui sistemi di welfare (sanità, istruzione,..) e ricerca e sviluppo hanno raggiunto dimensioni che soverchiano le produzioni di beni materiali e richiederebbero diversi assetti produttivi, capaci di sviluppare il bene comune conoscenza, ora sottoposto a tentativi forzosi di cattura del suo valore sociale, inibendo cosi le potenzialità sociali del  lavoro cognitivo che lo produce grazie ad incessanti processi di condivisione e collaborazione;

– del pari, disuguaglianze, precarietà, degrado ambientale e crisi climatica stanno soggettivando in tutto il mondo giovani e meno giovani che ora si battono per cercare di garantire a se stessi condizioni di vita accettabili; l’insieme delle lotte biopolitiche e delle proposte portate avanti da movimenti sociali, lavoro cognitivo e movimenti ambientalisti costituiscono le principali forze sociali che chiedono e supportano nuovi assetti societari e nuovi sistemi di welfare;

– tutto questo avviene in un contesto di grande incertezza, determinata dagli effetti economici della pandemia da Covid 19 sulle filiere produttive globalizzate, da quelli psicosociali sulle popolazioni affette e rafforzata dalla compresenza di molteplici fattori di crisi che aprono una lotta tra stati e tra classi senza esclusione di colpi per l’accaparramento delle risorse.

Le analisi epidemiologiche volte a indagare gli impatti della interazione tra Covid 19 e popolazione suscettibile presentano variazioni spaziali inter ed intra statali molto marcate (vedi Lombardia), facendo emergere il ruolo di modificatore di effetto delle politiche sanitarie nazionali e regionali.  Si pone così il problema di esaminare in profondità tali politiche, analizzando sia i parametri di progettazione organizzativa in generale e in sanità ed i criteri che hanno ispirato, in base alla teoria del New Public Management, la aziendalizzazione del SSN, sia le interpretazioni di economisti critici che vedono nel ruolo crescente della economia della conoscenza ragioni per il superamento delle logiche proprietarie aziendali.

 Su queste basi è stata analizzata la risposta che il SSN, cosi modificato e per di più regionalizzato, è riuscito a dare alla complessificazione della situazione epidemiologica, alle disuguaglianze nella salute e nell’accesso ai servizi, ai fenomeni corruttivi in sanità ed alla presenza nei propri servizi di lavoratori cognitivi dotati di ampia autonomia professionale, facendo emergere il potente ruolo distorcente delle logiche proprietarie ispirate dal New Public Management con i tagli ai servizi territoriali, privatizzazioni, chiusura dei processi partecipativi e amplificazione della disuguaglianza tra regioni.

Rinviando all’articolo il lettore interessato ad approfondire la conoscenza sulle evidenze epidemiologiche nella pandemia, la critica del New Public Management, le caratteristiche specifiche degli effetti negativi delle logiche proprietarie sulle aree di problemi sopra richiamati e le fonti bibliografiche che supportano le affermazioni qui avanzate, si ritiene produttivo in questa sintesi soffermarsi sulle specifiche problematiche connesse con la natura cognitiva del lavoro svolto dagli operatori sanitari e dei conflitti che questo ha ingaggiato a livello nazionale con la governamentalità proprietaria imposta con le aziende ed ingaggia ora a livello globale con il negazionismo sostenuto dai settori suprematisti delle élites, a partire dal ruolo di bene comune della conoscenza e del suo beneficiare dei processi di condivisione propri del metodo scientifico.

Nel Servizio Sanitario prevale quella parte di organizzazione, detta impropriamente professionale, il cui lavoro consiste nell’applicare conoscenze e competenze cliniche in condizioni di ampia discrezionalità nell’uso delle risorse data l’indeterminatezza sostanziale che avvolge due processi centrali del lavoro cognitivo in sanità:  la diagnosi e la terapia. L’autonomia professionale (che vuol dire: “ darsi da sé le proprie leggi”) è un privilegio che la società concede a coloro che  possedendo conoscenze e competenze cliniche capaci di ri/dare salute, sanno garantire la transizione dallo stato di malato a quello di sano, il che  rappresenta sia la base materiale del potere della conoscenza sia ciò che manca al potere burocratico. Potremmo periodizzare l’interazione tra lavoro cognitivo e logiche proprietarie aziendali in:

– una prima fase (primi dieci anni dalla contro riforma sanitaria del 1992) sono stati sottoposti a verifica gli eventuali vantaggi effettivamente comportati dai sistemi di programmazione e controllo (il budget), dai sistemi di pagamento a tariffa e dalla funzione dirigenziale – tutti i laureati erano stati calati nei ruoli dirigenziali – scoprendone nel lavoro quotidiano retoriche sottese e limiti sostanziali;

– una seconda fase – da inizio 2000 fino alla crisi finanziaria globale del 2008 – in cui il lavoro cognitivo ha provato a trasformare la governamentalità proprietaria di ASL ed AO in clinical governance tesa a migliorare la qualità dell’assistenza sui piani della efficacia, della appropriatezza, della sicurezza, della equità’ nell’accesso alle cure. dell’efficienza e del coinvolgimento dei fruitori, tutte cose difficili da raggiungere tramite l’esercizio del potere amministrativo lungo le linee gerarchiche; sono state proposti e messi in pratica strumenti operativi appropriati per il lavoro cognitivo (approccio per problemi, epidemiologia clinica e valutativa, valorizzazione metodo scientifico, sistemi di finanziamento in cui “paga la salute” -global budget, quota capitaria,…- audit clinici, revisioni tra pari, Evidence Based Medicine, trasparenza sui conflitti di interesse, educazione continua del medico e degli altri operatori sanitari, valutazione condivisa degli esiti tra operatori e fruitori ecc..) scontrandosi con direzioni regionali e aziendali che il federalismo metteva nelle mani di funzionari, spesso espressi da clan territoriali e selezionati in base al principio di obbedienza, mentre la governance aveva bisogno per svilupparsi di capacita di coordinamento fortemente basate sul principio di competenza;

– una terza fase in cui i programmi di austerità’ imposti forzosamente per ripianare i debiti pubblici saccheggiati per sostenere banche e mercati finanziari nella crisi del 2008, hanno chiuso gli spazi per la governance e imposto una governamentalità proprietaria che ha prodotto drastici tagli alle risorse finanziarie, al personale ed alle strutture sanitarie, depauperazione dell’assistenza territoriale, enfasi sui fattori di rischio comportamentali, sviluppo del settore privato, ecc.  che hanno creato quelle modificazioni di effetto per cui la pandemia ha potuto fare danni da record mondiale proprio nei contesti territoriali che hanno piu’ caldeggiato e applicato le logiche proprietarie in sanità.

 La richiesta del lavoro cognitivo di modificare il government aziendale in clinical governance è stata affrontata dai sostenitori delle logiche proprietarie (governi bypartisan, scuole di direzione aziendale, tecnici obbedienti delle direzioni regionali e aziendali…):

a) da un lato premiando la quota di professione più attenta ai comportamenti utilitaristici con la concessione di ampi spazi per l’uso privato del pubblico (es.: libera professione);

b) dall’altro lato sono state messe in atto tutta una serie di misure volte a produrre controllo sul lavoro cognitivo, tra cui:

b1) tentando di utilizzare la supervisione diretta, la standardizzazione dei processi di lavoro o la standardizzazione degli output, definite dagli studi di Mintzberg “risposte disfunzionali”. 

b2) pianificando sul lungo periodo tramite il numero chiuso a medicina lo sfoltimento dei ruoli professionali;

b3) aumentando la presenza crescente di personale precario, che trascinando di rinnovo in rinnovo la propria condizione di precarietà, è stato costretto a lavorare in condizioni di marginalità organizzativa, insicurezza esistenziale, compressione della retribuzione reale e differita; 

b4)  Università, ricerca e formazione in servizio sono state a loro volta sottoposte alle torsioni che le politiche di servizio al neoliberismo hanno imposto a tutta la pubblica amministrazione: le nuove conoscenze vengono recintate dalla comparsa di fornitori di “servizi” (Wiley, Elsevier, etc.) che si appropriano di lavori, frutto del metodo scientifico e impongono balzelli artificiali per il libero accesso a tali informazioni; la spinta a brevettare le scoperte scientifiche ha cercato di far passare l’idea che esse siano il frutto di saperi individuali, quando ognuno di noi senza l’interazione sociale non riuscirebbe nemmeno ad apprendere il linguaggio; in generale le risorse divengono sempre più scarse ed assegnate al di fuori di una cornice temporale che permetta di pianificare investimenti strategici in una qualche direzione sensata, il che contribuisce a rendere la vita dei ricercatori sempre più difficile in aggiunta a quanto già fanno precarietà ed esiguità dei redditi. Quando tutto ciò accade anche nei policlinici universitari la socializzazione dei futuri professionisti avviene in un contesto in cui sono le “non norme” dei comportamenti utilitaristici a dare senso all’agire professionale, dissipando il patrimonio cognitivo acquisito in lunghi anni di formazione e creando delle dissonanze profonde con le condizioni che in passato hanno portato al delicato equilibrio su cui si è costruito il riconoscimento sociale dell’autonomia professionale; il tutto aggravato dai filtri di casta che regolano l’accesso all’università.

Quindi nel complesso si è avuto un disinvestimento programmato e plurilivello nel lavoro cognitivo in sanità, creando intenzionalmente condizioni disfunzionali per la manutenzione e lo sviluppo di conoscenze e capacità, ampliando la schizofrenia tra fini ufficiali del SSN, tendenze insite nella sua natura di organizzazione professionale ad alta densità’ di lavoro cognitivo e gestione aziendalistica.

Ma, più che insistere sulla peraltro evidente natura neoliberale delle trasformazioni imposte in sanità’, ben più importante è scavare nei processi di soggettivazione che il lavoro vivo cognitivo ha prodotto e produce: l’economia basata sulla conoscenza si è decisamente sviluppata negli ultimi 50 anni con riferimento ai settori sanità, istruzione e ricerca e sviluppo che, risultando centrali nei sistemi di welfare, hanno un ruolo biopolitico in quanto il lavoro cognitivo che produce conoscenza per la vita entra in conflitto con le strutture di potere (biopotere) che cercano di trarre profitto da tali produzioni, imponendo logiche proprietarie. Se la centralità crescente dell’economia della conoscenza è tale da mutare il tipo di configurazione della società capitalistica portandola ad essere biocapitalismo cognitivo, in epoca fordista la produzione e riproduzione sociale delle conoscenze ha dato luogo a tipologie organizzative che risentivano nel loro funzionamento della particolare natura della conoscenza in quanto bene comune non sottraibile dove la condivisione e non la competizione creano sviluppo e benessere, producendo da un lato vantaggi principalmente per i professionisti, accanto ad una serie di sistemi operativi del tutto eterogenei rispetto a quelli usati nelle imprese di produzione di beni materiali; in epoca postfordista lo sviluppo dell’economia della conoscenza ha spinto il biopotere a cercare di imporre controllo e messa a valore di tale economia tramite logiche proprietarie che non sono state capaci di assoggettare le pratiche sociali del professionalismo, nelle nuove condizioni di questa fase il professionalismo diviene lavoro vivo cognitivo producendo conflitto con il biopotere,  che si espresso nella contestazione della governamentalità neoliberista al cui posto ha chiesto e praticato clinical governance a fronte della controproduttivita specifica nella economia della conoscenza del government aziendale e delle sue disfunzionali logiche proprietarie.

 Nell’attualità le condizioni di rischio prodotte dalla pandemia hanno evidenziato gli interessi divergenti tra popolazione e lavoratori cognitivi da un lato e biopotere dall’altro: i primi chiedono che sia data centralità alla salute di tutti e usano a tal fine gli strumenti per la gestione comune della conoscenza, mentre il biopotere con le sue logiche proprietarie tenta con sempre maggiore difficolta di imporre continuità nei processi estrattivi del biocapitalismo cognitivo, trovandosi però senza argomentazioni, schiacciato su insostenibili posizioni negazioniste,  nella impossibilita di zittire e licenziare tutti i lavoratori cognitivi del mondo, una contraddizione che è ben esemplificata nello scontro tra evidenza ed ignoranza che vede OMS da un lato ed amministrazione suprematista Usa dall’altro.

In sintesi nella economia della conoscenza il lavoro vivo cognitivo, contrapponendosi al biopotere è impegnato nel  rompere la disgiunzione tra potere ed esperienza che ha caratterizzato il trentennio neoliberista. Se la produzione di conoscenza è un processo sociale, emerge che nella economia della conoscenza la potenza del lavoro vivo cognitivo sta aprendo brecce tanto inattese quanto concrete nella sussunzione reale facendo emergere addirittura modalita’ gestionali superiori alle logiche proprietarie aziendali, in quanto più appropriate allo sviluppo sociale della cornucopia del commons conoscenza.

 Nel mondo 7 miliardi e settecento milioni di persone attendono che un vaccino e/o cure efficaci siano messe a disposizione di tutte e tutti, il che significa che vogliono beneficiare dei frutti del bene comune conoscenza. Sarà difficile dirgli di no.

Gianni Cavallini [5]

“L’evento rompe la continuità della storia e dell’ordine costituito non solo in senso negativo e cioè come una rottura, bensì anche come un’innovazione che emerge per così dire dal di dentro”[6].

La pandemia in corso rappresenta un evento, una discontinuità netta nei rapporti sociali di produzione e di riproduzione, negli stili di vita e nelle pratiche di socialità; in particolare, la sanità, intesa quale sistema organizzato di prevenzione e cura delle malattie, si trova in tutto il mondo ad attraversare una fase di cambiamento forse radicale. Il tema che poniamo è se l’adeguamento alle nuove condizioni epidemiologiche e sociali debba essere un tema proprio – quindi interno- dell’organizzazione (pubblica e/o privata) sanitaria o se esista un terreno per praticare una sanità del comune.

Sanità pubblica o sanità privata?

Oggi nel dibattito politico è diffusa l’idea di un forte ritorno alla centralità e alla valorizzazione della natura pubblica del servizio sanitario.

Pensiamo al mese di marzo 2020, allorquando, dopo la conferenza stampa di Conte della sera dell’11 marzo, è esplosa la protesta nelle fabbriche contro la posizione, sostenuta da Confindustria, del Governo, secondo cui la produzione industriale non poteva essere fermata. Immediata e diffusa fù l’ondata di scioperi e fermate.  Assolombarda, in particolare, definiva per bocca del suo Presidente, [7] irresponsabili quei sindacati che avevano “istigato” allo sciopero. Non avevano capito che erano stati spinti e talvolta costretti allo sciopero dai loro delegati, pressati, sommersi da una moltitudine operaia che si era sentita presa in trappola.

Tale ondata di scioperi costrinse il Governo a modificare la disposizione, riducendo il numero di attività industriali, definite strategiche, da mantenere in attività, condizionandole all’assunzione di alcuni procedimenti (dispositivi individuali di protezione, sanificazione ambientale, distanziamento,…).

Ecco, il marzo 2020 ben riconosce la storia e la natura del servizio sanitario pubblico: la sua nascita è sempre stata una risposta dello Stato alla conflittualità sociale; in particolare, in Italia il servizio sanitario pubblico è stata a fine anni 70 del XX secolo la risposta allo straordinario ciclo di lotte in fabbrica dell’operaio-massa, ma anche alle lotte sociali delle donne (“il corpo è mio e me lo gestisco io” quale pratica di rivendicazione dell’autodeterminazione dei processi di salute), del movimento dell’antipsichiatria (con la chiusura dei manicomi), delle lotte territoriali contro le produzioni di morte.

Infatti, un tratto caratterizzante l’istituzione del SSN con l’avvio delle USL era dato dall’organo di gestione delle stesse, che, anche in considerazione dell’alto numero di USL nel territori, attraverso i partiti si poneva l’obiettivo di veicolare la conflittuale domanda sociale di salute entro l’istituzione, così da neutralizzarne la carica costituente capace di mettere in discussione scelte e modelli organizzativi.

Alla “rivoluzione liberista” (iniziata ben prima del 1980 di Reagan e Tatcher, a partire dal 1971 con il repubblicano Nixon e il democratico Carter) compete l’iniziativa di superamento del modello fordista di welfare, quale espressione di un radicale mutamento della situazione sociale che aveva superato il modello produttivo incentrato sulla produzione e il consumo di beni di consumo durevoli, standardizzati.

In Italia ciò avvenne a partire dal 1992 con il Governo Amato, nel contesto dell’innovazione profonda del sistema di rappresentanza (Tangentopoli), delle manovre finanziarie per permettere l’ingresso in Europa (privatizzazioni, tagli alla spesa pubblica, progressiva riforma del mercato del lavoro, devoluzione di poteri verso le Regioni….), di una ridefinizione dei rapporti tra poteri forti (guerra alla direzione corleonese di Cosa Nostra,…).

Questo avvenne in particolare in sanità, in assoluta continuità tra governi di centro destra o di centrosinistra e tra regioni; tutto ciò a conferma che, nell’ambito della egemonia dell’economia, la sanità e l’assistenza rappresentavano settori di rilevanza economica assoluta, in quanto produttori di ricchezza sempre maggiore anche nelle fasi di congiuntura o di crisi economica.

Pertanto, ciò che si intende sottolineare è che la sanità non è un settore estraneo all’economia capitalistica, anzi ne è un settore strategico; come tale, quindi, (la recente storia lo dimostra ampiamente) il servizio pubblico sostanzialmente non si differenzia dal servizio privato per modalità organizzative, obiettivi aziendali, funzione sociale.

La sanità pubblica può rappresentare un terreno utile alla capacità costituente del comune solo e in quanto viene aggredito da istanze moltitudinarie, che, oltre ad esprimere una opposizione, siano in grado di affermarsi come potenza, come azione costituente di contesto sempre più comune, tramite sia produzione di soggettività che tramite produzione biopolitica (dell’uomo per l’uomo, estranea alle necessità dell’economia capitalistica).

Sapere e potere in sanità

Come imparammo a cavallo tra i 60 e i 70 del XX secolo, grazie all’antipsichiatria, al movimento delle donne, alle lotte operaie, la scienza medica non è neutrale, estranea ai conflitti e interessi delle classi sociali: la modernità capitalistica è nata in campo medico a partire da una frattura tra anima e corpo, sottoposto quest’ultimo alle leggi naturali. Il corpo diventò oggetto di conoscenza – come una macchina cui si applicano meccanicamente le leggi della biologia e della fisica – e venne studiato attraverso i cadaveri, così avviando a sistema una conoscenza fondata su un corpo immobile, privato della propria soggettività e di ogni legame con il proprio mondo.

Così si è realizzata una relazione di potere tra chi conosce e chi è oggetto della conoscenza, in quanto corpo-macchina; da qui la soggezione individuale del malato al potere della scienza medica, della medicalizzazione quale processo che riduce e annulla la possibilità di prendere coscienza della vera natura dei problemi di salute (in questo il riferimento è all’ampia letteratura sui determinanti di salute: reddito, condizioni di vita e di lavoro, qualità delle relazioni,…).

Ma con la “rivoluzione liberista” si realizza un ulteriore salto di paradigma: è la vitastessa che viene messa a valore, con la trasformazione delle funzioni vitali in beni e servizi commerciabili, produttori di valore. Si pensi a titolo esemplificativo alla medicina riproduttiva (messa a valore del corpo femminile, con tutto il carico di sfruttamento di donne nelle periferie del mondo), alla medicina rigenerativa (messa a valore della capacità di autorigenerazione del corpo): è il CORPOa essere messo direttamente a produzione (manodopera clinica, vendita di organi e fluidi, sperimentazione clinico-farmaceutica)[8].

La medicina permane quale dispositivo di biocontrollo, ma si declina come pervasivo e immanente alla soggettività; mira, cioè, alla soggettività quanto alla popolazione: stili di vita, personalizzazione della cura, privatizzazione dei rischi.

La nuova medicina

In sanità negli ultimi decenni si sono affermati in tutto il mondo alcuni processi:

  • centralità ospedaliera rispetto all’assistenza primaria e alla prevenzione
  • sviluppo di tecniche diagnostiche e terapeutiche ad alta tecnologia
  • privatizzazione

in particolare, si è affermato nei processi diagnostici un insieme di bio-info-tecnologie organizzate in modo molecolare e diffuso, specie a livello privato. La medicina in tal modo realizza la catena del valore tramite incorporazione dei DATI derivanti da ricerca e attività clinica sugli esseri viventi, così diventando parte integrante della SCIENZA DEI BIG DATA. L’approccio clinico-diagnostico è basato sui dati e su algoritmi, con conseguente simulazione di fenomeni complessi tramite modelli informatico-statistici.

Ecco così progressivamente affermarsi la tecnica predittiva, la trasformazione dell’assistenza sanitaria mediante applicazione di sensori pervasivi, smartphone potenti, ambienti giganteschi di cloud computing, tutti esempi di erogazione di servizi offerti on demand da un fornitore a un cliente tramite internet.

Ciò che ancor di più viene marginalizzato è il riferimento, l’ascolto, la valorizzazione del contesto soggettivo della persona malata, che quale corpo-macchina si evolve a macchina generatrice di dati.

Lavoro vivo

In sanità operano professionisti dei servizi, quali medici, infermieri e tecnici caratterizzati da portafogli di competenze tecnico-professionali elevate, in costante evoluzione. In particolare, il medico ha subito una trasformazione radicale: se alla sua affermazione a partire dal XIX secolo il medico era il responsabile individuale dei processi di diagnosi e cura in virtù della riconosciuta autonomia professionale (“in scienza e coscienza”) e le altre figure professionali svolgevano ruoli a lui ancellari, con gli anni 70 del XX secolo e negli ultimi due decenni in maniera impetuosa si sono imposte le nuove tecnologie digitali; ecco che la macchina ha progressivamente espropriato il medico della sua autonomia professionale, in quanto il processo diagnostico diviene l’esito dell’intervento di molteplici specialisti, medici, anche tecnici radiologi, ingegneri, tecnici informatici,….La diagnosi diviene di conseguenza l’esito non dell’autonomia individuale del singolo professionista, ma della cooperazione tra diversi medici specialisti e altre figure professionali.

L’organizzazione, al contempo, divenuta Azienda (New Public Management) persegue il contenimento della discrezionalità medica; le società scientifiche producono linee guida, cui i singoli professionisti sono tenuti ad attenersi. Contemporaneamente i processi di diagnosi e cura sono sottoposti da parte delle Regioni a costante revisione organizzativa, sempre dall’alto imposta, con marginalizzazione accentuata degli Enti Locali e delle organizzazioni sindacali e di interesse; le risorse, sia finanziarie che professionali, si riducono progressivamente e vanno incrementandosi la precarizzazione dei rapporti di lavoro, le esternalizzazioni, le convenzioni con il privato. Tutto ciò determina un malessere sempre più esteso, anche con caratteri di aperta conflittualità come recentemente è avvenuto in Francia prima della pandemia.

Ma nel campo della salute troviamo anche altri soggetti:

  • operatori espressione delle esternalizzazioni, spesso organizzati in cooperative
  • operatori informali, quali care giver/badanti, familiari, omeopati, shiatsu….; tutti questi soggetti assicurano nella quotidianità un lavoro di cura e assistenza essenziale nella gestione delle malattie croniche non trasmissibili, che tuttora, nonostante la pandemia, rappresentano la prevalenza per carico di morbilità e di mortalità.

Per ultimo, ma non ultimo, esiste il malato, che dovrebbe essere, liberandosi in cooperazione, il titolare dei propri percorsi di vita e di salute, anche grazie al supporto degli operatori sanitari nel rispetto pieno della loro esclusiva titolarità nella gestione del proprio corpo e della propria salute.

La sanità del comune

La salute, pertanto, è una condizione dei singoli soggetti, divenuta progressivamente nella modernità oggetto di produzione e di valorizzazione capitalistica. Questa, però, non è una condizione data in modo irreversibile, anzi. In tutto il mondo sono sempre presenti forme estese di resistenza su questo terreno, che possono essere forme individuali, ma più spesso espressione di gruppi, organizzazioni anche legate a tradizioni locali. Talvolta queste resistenze si saldano a movimenti di opposizione da parte dei lavoratori del comparto sanitario, che sempre più soffrono la condizione professionale di etero direzione politica.

Il punto centrale è che la resistenza non può limitarsi a mera opposizione; deve riuscire a trasformarsi in un’azione costituente. Deve, cioè, sicuramente opporsi al potere, nella declinazione della relazione sapere-potere e medico-malato, ma, al contempo, deve orientare la propria azione costituente verso il comune, deve, cioè, essere azione che costruisce vita, al di fuori delle regole dell’economia capitalistica (regole economiche, ma anche di relazioni non di potere), quindi praticando -si potrebbe dire- una pratica di esodo che afferma potenza.

Come direbbe Negri, andarsene costituendo, cioè costruendo nuova potenza.

Domenico Gallo [9]

Nel documentario di Ken Loach dedicato alla vittoria laburista del 1945 (The Spirit of ’45, appunto), molti ricordi e commenti sono dedicati alla nascita di National Health Service (NHS) il servizio sanitario nazionale all’avanguardia nel mondo per i principi organizzativi, universalità di accesso, qualità e tipologia di copertura sanitaria. È quasi commovente il ricordo che ne fa Ray Davies, militante socialista e sindacalista del Galles, riportando alla memoria le atroci condizioni in cui viveva la classe operaia britannica nel periodo tra le due Guerre, così ben descritte dai romanzi di George Orwell Senza un soldo a Parigi e a Londra, La figlia del reverendo e La strada si Wigan Pier. Nelle parole di Davies è evidente, oltre al miglioramento delle condizioni di salute, il raggiungimento di una maggiore dignità ottenuta proprio attraverso la gratuità delle cure, l’avviamento dei servizi di prevenzione, i programmi specificatamente dedicati ai bambini. Era la sanità voluta dal ministro Aneurin Bevan, minatore gallese e sindacalista, per molti uno dei più significativi socialisti della scena europea.

L’Italia riprende l’idea base di NHS, soprattutto nella caratteristica dell’universalità e gratuità delle cure, e con la Legge 833/1978 istituisce il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Conosciamo tutti l’evoluzione e il declino di questo pilastro del welfare, che viene progressivamente privatizzato e asservito alla politica, sfuggendo rapidamente a quell’idea iniziale di controllo dal basso, male incarnato dal principio con il controllo dei Comitati di Gestione delle Unità Sanitarie Locali (USL). Erano appunto gli anni del saccheggio politico portato da quadri del Pentapartito e della parabola discendente del Pci che, in realtà su insegnamento craxiano, procedeva verso l’allontanamento assoluto tra classe e partito.

Tuttavia i suoi principi sono tornati in mente a molti nei tempi del Covid-19, soprattutto l’idea, oggi abbandonata, di una istituzione dedicata a occuparsi del complesso del sistema salute, ovvero il paradigma prevenzione, cura e riabilitazione. Senza soffermarsi sul problema di come le strutture sanitarie attuali si siano trovate impreparate all’epidemia, soprattutto nelle regioni con un Sistema Sanitario Regionale apparentemente più organizzato e completo, argomento a cui dovranno essere dedicati studi specifici, è evidente che l’epidemia è soprattutto un problema di sanità collettiva. Soprattutto nei primi mesi, Covid-19 si diffonde in quattro delle regioni che ci collocano nei settori più alti della classifica dei famosi Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), ovvero Emilia Romagna, Liguria, Lombardia e Veneto. Regioni che hanno anche un approccio verso la sanità privata molto diversificato: ideologico in Lombardia, pragmatico ma molto diffuso in Emilia Romagna, diffidente e marginale in Liguria e Veneto. La sanità privata, infatti, si sviluppa attraverso il finanziamento pubblico (che acquista prestazioni a tariffa concordata e le eroga ai cittadini complementando la propria offerta), per cui i cittadini dovrebbero avere il medesimo trattamento e costo, nei settori della chirurgia ospedaliera, diagnostica per immagini e di laboratorio, riabilitazione e, in misura ridotta, nella medicina specialistica. Quest’ultima, infatti, è terra di conquista della libera professione (ovvero i professionisti che competono con se stessi giostrandosi quotidianamente tra incarico pubblico e imprenditorialità privata) e del privato puro. All’interno di questa organizzazione, segnata da insanabili paradossi e conflitti di interesse, dilaga un’inaspettata epidemia.

Il primo elemento di riflessione è sulla determinazione del soggetto infetto. L’esperienza acquisita ci porta a dire che in popolazione sono presenti tre grandi tipologie: infettivi asintomatici, infettivi sintomatici con un livello basso di gravità, infettivi sintomatici con un livello elevato di gravità. A queste diverse forme di severità sono associati luoghi diversi, in ordine: l’intero territorio, la casa, l’ospedale. Evidentemente nei primi giorni dell’epidemia sono stati individuati soprattutto “infettivi i sintomatici con un livello elevato di gravità”, perché il loro stato di salute, indipendentemente dalla causa della malattia, richiedeva le cure ospedaliere. Le altre due tipologie sono rimaste ai margini di un sistema sanitario che non era stato strutturato per rispondere a un’epidemia con vari livelli di gravità, limitandosi a una risposta ospedaliera purtroppo inconsapevole e impreparata al problema del contagio. È questo tipo di situazione, che ancora non aveva cognizione di intervento verso le prime due tipologie, che ha inevitabilmente portato alla necessità di una rete ospedaliera riconvertita e dedicata, a una maggiore quantità di terapie sub-intensive e intensive, a una maggiore necessità di protezione della risorsa strategica quale si è dimostrata il personale ospedaliero di ogni ordine e grado. Quest’ultimo fattore, anche se verrà in futuro manipolato, ci dimostra come in questo caso la figura del medico di reparto (a esclusione degli anestesisti e rianimatori), non essendoci a disposizione una cura di tipo clinico, ha diminuito la sua centralità rispetto all’operatore sanitario e all’infermiere. La lotta a Covid-19 in ospedale, essendo basata sostanzialmente sul supporto tecnico alla resistenza soggettiva del paziente, è stata quindi multidisciplinare con un diffuso ribaltamento delle gerarchie originarie.

Il secondo elemento è l’osservazione che la rete necessaria ad affrontare Covid-19 nel suo complesso è stata affrontata con difficoltà, una rete che fosse in grado di gestire anche le prime due tipologie di pazienti. L’esperienza ha evidenziato la necessità di una rete che colleghi Medici di Medicina Generale (MMG) e Pediatri di Libera Scelta (PLS), Servizi di Igiene e Prevenzione, Servizi Distrettuali con competenze di medicina domiciliare, ambulatori territoriali dedicati, laboratori di analisi, comuni e prefetture. Tale rete non esisteva sia dal punto di vista istituzionale sia dal punto di vista tecnico. La rete istituzionale è quella che stabilisce le competenze e le informazioni che devono essere condivise, i tempi del lavoro, il coinvolgimento dei pazienti nell’intero processo, i rapporti dell’operare territoriale con quello circoscritto dell’ospedale. A questa osservazione qualcuno risponderà che esistevano piani per la gestione dell’emergenza e che erano stati aggiornati in prospettiva dell’epidemia. Tutto vero, ma il lavoro ha avuto la sua nemesi in questo caso, perché i nodi di questa rete, pur sapendo che avrebbero dovuto attivarsi, non avevano esperienza della realtà fisica e cognitiva del lavoro che dovevano svolgere. Sappiamo che le reti imparano e sono in grado di connettersi e riconnettersi in funzione del reale passaggio di informazioni, ma queste reti partivano da una base comune di non conoscenza dei nodi e delle loro peculiarità.

Inoltre in questi anni di aziendalizzazione della sanità, servizi come quelli dedicati alla prevenzione hanno subito un processo di depotenziamento in termini di personale e di potere all’interno del sistema dell’azienda sanitaria. Complessivamente in ritardo sui processi di informatizzazione, destrutturati in competenze molto differenti tra loro (vaccinazioni, igiene alimenti, edilizia, sicurezza del lavoro, etc.), a volte raggruppati con la veterinaria e/o la medicina legale, i servizi dedicati alla prevenzione e gestione delle malattie infettive hanno condiviso una lunga crisi identitaria. Nonostante questo la norma e la pressione organizzativa hanno imposto la messa in funzione di nodo strategico nell’epidemia sia per la gestione delle segnalazioni, sia per la gestione delle misure restrittive, ma, soprattutto, per l’assimilazione dell’avvicendarsi normativo che, in più di un’occasione, è stato caratterizzato da modifiche temporalmente molto ravvicinate. Se pensiamo che tradizionalmente i Servizi di Igiene e Prevenzione non avevano procedure in comune con gli altri nodi della rete del lavoro Covid-19, si comprende la lentezza del passaggio dalla fase a predominanza ospedaliera alla fase territoriale. Inevitabilmente l’individuazione dei casi in ospedale ha comportato un flusso di lavoro verso i Servizi di Igiene e Prevenzione. Infatti a ogni caso positivo, oltre che al suo inserimento in un registro specifico, prevede che siano individuate e contattate le tutte le persone che sono state a rischio contagio per esposizione ravvicinata e temporalmente significativa. Tali persone, oltre a essere informate del rischio di contagio vengono sottoposte a misura di quarantena.

Possiamo immaginare la drammaticità e la difficoltà professionale implicita in questo passaggio dal lavoro routinario a quello emergenziale, una difficoltà che ha trasversalmente interessato medici igienisti, assistenti sanitari, amministrativi, tecnici della prevenzione. Ma il problema fondamentale della prima fase dell’epidemia Covid-19 è stata la mancanza di un sistema informativo capace di connettere l’estrema eterogeneità dei contributi professionali coinvolti sull’intero percorso del paziente. Questo ha comportato che la maggior parte dei nodi abbia iniziato a costituire la rete dei flussi informativi in autonomia, in accordo più o meno formale con i nodi successivi, utilizzando strumenti informatici di basso livello (mail, fogli di calcolo, applicazioni informatiche parziali), abbassando il livello di protezione nella gestione e nella trasmissione dei dati, introducendo errori causati dall’indisponibilità di archivi on-line e provocati dalla gestione manuale delle informazioni spesso con molteplici inserimenti degli stessi dati.

Ogni quotidiano d’Italia si è soffermato sulla “crisi dei tamponi”, invocando un qualche miracolo fordista, nell’idea condivisa nella comunicazione istituzionale di una enorme macchina automatica che ingoia cotton fioc e sputa risultati. La metafora richiama necessariamente all’idea ingenua di produzione completamente automatizzata che viene dall’immaginario della robotica e della fantascienza. In realtà ottenere un risultato di un test Covid-19 relativo a una persona si è mostrato estremamente più complesso e fortemente permeato di lavoro umano. Dalla segnalazione del medico, all’analisi di appropriatezza, poi al prelievo e al test, fino all’invio del risultato, il numero che giornalmente segnalava i nuovi positivi è intriso di fatica e di passaggi di mano, di messaggi e ricopiature, il tutto sottoposto a rischi di errore per le anagrafiche mal gestite. Ma se la lotta all’epidemia è soprattutto una lotta contro il tempo, per stanare in anticipo i positivi e ridurre il periodo di infettività, allora è inevitabile che siano rideterminati gli orari, le competenze e le stesse gerarchie. La reazione dei lavoratori del settore sanitario è dicotomica. Per alcuni lo smart work, talvolta sinonimo di liberazione dal lavoro, diventa rapidamente una piccola utopia casalinga, un lavorare intervallato da molti riposi e periodi in cui occuparsi di altro, un’assenza di gerarchia e di controllo a causa della difficoltà di organizzare da zero un sistema di assegnazione dei compiti e di governo dei risultati. Per altri Covid-19 è un’esperienza quasi mistica promossa dalla precettazione, dal pericolo del contagio, dall’insorgere di richieste di lavoro nuove e dalla forte pregnanza morale. All’utopia dell’ozio si oppone il mito di Aleksej Stakanov, s’infrange il numero di ore lavorate giornaliere, s’ignorano i giorni di riposo, ci si adatta automaticamente al lavoro notturno per seguire, come chi si è occupato dei flussi Covid-19, il ritmo dei dati e delle richieste ministeriali e della comunicazione ufficiale. L’aumento dei tamponi e la bassa qualità delle anagrafiche dei pazienti vengono affrontati con una flessibilità autoimposta e spesso sconosciuta ai superiori. All’organizzazione gerarchica e istituzionale si sostituisce una auto-organizzazione costituita dagli stessi lavoratori. Il gruppo si allarga attraverso le amicizie e le simpatie, i tecnici si annusano e si riconoscono, saltando i canali professionali precostituiti e istituendo nuovi rapporti. A molti è sfuggito che la lotta al Covid-19 è stata in parte combattuta dalle persone dei sistemi informativi della sanità; sono stati loro a costruire procedure, interrogazioni e report, a validare risultati, a intravedere anomalie, ad aumentare la velocità dei trattamenti e a intuire i modelli e a scambiare sapere con epidemiologi spesso giovani e alla prima esperienza importante. Una lotta per adattare il tempo di gestione dei flussi con il tempo biologico dei contatti e della riproduzione virale, ma una lotta che ha richiesto di escogitare nuovi saperi organizzativi declinati in un’ottica anti-gerarchica che ha messo assieme dipendenti statali, consulenti, tecnologi di professione. Al potere, certo transitorio, prodotto da questa conoscenza momentaneamente liberata dagli schemi produttivi tradizionali e dall’incardinamento alle gerarchie, per qualche mese una zona temporaneamente autonoma ha preso vita.


[1] G. Deleuze-F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi editore, Torino 1996, p. 26.

[2] Ivi p. 51: “è lui che dice Io, che lancia il cogito, ma che detiene anche i presupposti soggettivi o che traccia il piano”.

[3] Medico igienista esperto in sanità pubblica e membro dell’Associazione Internazionale dei Medici per l’Ambiente.

[4] Per un approfondimento vedi di C. Romagnoli: Logiche proprietarie, lavoro cognitivo e crisi della forma azienda in sanità in Sistema Salute, 62, 4 2020, pp. 130-154.

[5] Già Direttore del Dipartimento di prevenzione di Pordenone e Gorizia, ha coordinato le attività di assistenza sanitaria ai migranti con Croce Rossa, Caritas, Cooperative e Volontari; oggi partecipa alle attività di Mediterranea Saving Humans.

[6]M.Hardt/A. Negri “Comune oltre il privato e il pubblico” Rizzoli 2010.

[7]Editoriale officina primo maggio n.1 maggio 2020 Edizioni Punto Rosso.

[8]M.Cooper/C.Waldby “Biolavoro globale” Derive Approdi 2015.

[9] Analista dei processi organizzativi in sanità.

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