Difficilissimo questo 8 marzo, che avviene in un passaggio che non solo impatta sulle vite di tutte, ma consuma certezze consolidate, e che fa suonare già come moneta falsa molte formule di interpretazione del nostro presente. Eppure, proprio in questo momento radicalmente straniante, lo sciopero globale transfemminista giunge come un potente segnale a dire che noi ci siamo, nel momento in cui le nostre vite si trovano improvvisamente sotto scacco per il dilagare dell’epidemia. Ancora più quando tutto vacilla, e lo sciopero pare quasi diventare intempestivo, forse anche impossibile. E certo non praticabile in nessuna delle sue forme tradizionali: però, necessario in tutte le sue ragioni.

La storia dell’intelligenza precaria sa bene cose significa scioperare per chi non può scioperare, scioperare quando anche lo sciopero è diventato privilegio, corporativamente amministrato. Ancor meglio lo sa la storia femminista, nutrita da lunghe lotte contro l’invisibilizzazione costante del lavoro “riproduttivo”. Nei giorni scorsi, adottando una scelta inedita nella storia recente di questo Paese, la “Commissione di Garanzia e Sciopero” ha comunicato la propria decisione di interdire a livello nazionale lo sciopero femminista e transfemminista promosso da Non Una di Meno con l’adesione e il sostegno attivo dei sindacati di base e dell’autorganizzazione sociale. È evidente come l’emergenza sanitaria che imperversa sull’Italia non giustifichi un provvedimento così drastico di negazione del diritto di sciopero: mai come in questa occasione si può scioperare restando a casa, astenendosi da ogni attività produttiva, senza dunque contribuire alla diffusione virale. L’uso strumentale dell’emergenza sanitaria da parte della Commissione di Garanzia fa il paio con le misure “zombie” proposte dal governo italiano in risposta alla crisi economica e sociale che incombe sull’Italia: i voucher per i lavori di “baby-sitting” in soccorso delle famiglie in difficoltà e la promessa di grandi opere infrastrutturali come leva per risollevare un’economia che appare ormai destinata alla crisi. Ciò vuol dire, nella realtà, nuove iniezioni di precarietà in una società già stremata dalla deregolamentazione sistematica del mercato del lavoro e nuovo consumo di suolo in un territorio già assediato dal proliferare di grandi opere inutili e dall’incalzare della crisi ecologica planetaria. Questa politica zombie – un eterno e ormai grottesco déjà vu delle politiche di restringimento degli spazi di democrazia e di aumento del saccheggio sociale e ambientale che hanno segnato questi anni di incontrastata egemonia neoliberale – è la sola risposta che si offre alle richieste di sostegno sociale che in questi giorni vengono dai settori di popolazione che oggi guardano con maggior inquietudine all’approssimarsi di una crisi senza precedenti, non solo sanitaria ma anche di riproduzione sociale. Sono le donne, le migranti, le non garantite, le precarie e i precari a dover farsi carico della crisi di riproduzione sociale che oggi abbiamo davanti, a dover dedicare quote sempre aggiuntive della propria giornata ai lavori di cura e al tempo stesso a trovarsi a dover improvvisare pratiche possibili e il più delle volte impossibili di sopravvivenza materiale e affettiva.

Le politiche neoliberali di austerità messe in campo dai governi italiani negli ultimi decenni e con particolare intensità dai governi che si sono succeduti dopo la crisi economica globale di fine anni 2000 non solo hanno drasticamente ridotto il numero di posti letto ospedalieri e aperto la strada al business speculativo della sanità privata. L’austerità neoliberale ha imposto un’individualizzazione delle relazioni sociali che oggi ci lascia vulnerabili di fronte all’avanzare dell’emergenza epidemica e della minaccia di recessione economica che essa porta con sé. Il sottofinanziamento dei servizi pubblici di welfare nella sanità, nella scuola, nei trasporti, che ha investito con particolare virulenza le regioni meridionali e periferiche del Paese, si è accompagnato a una finanziarizzazione senza precedenti dell’economia capitalistica e della vita di tutti noi, a nord come a sud, negli spazi centrali come in quelli periferici dell’economia italiana. La violenza della finanza globale ha messo a valore la vita delle persone e stravolto in profondità il tessuto sociale delle nostre città e metropoli, aprendo la strada a una speculazione immobiliare senza limiti e senza scrupoli. Ciò ha minato e talvolta cancellato in breve tempo l’esistenza di legami di lunga durata di comunità e di vicinato, vale a dire le risorse più preziose di difesa e autoprotezione collettiva di cui dispongono le comunità subalterne nei quartieri a basso reddito. Le politiche neoliberali hanno creato una vera e propria economia capitalistica della frammentazione in cui la privazione dei diritti sociali e collettivi e l’abbandono dei luoghi che non contano hanno consentito al comando capitalistico di ristabilire su nuove basi, in maniera indisturbata, la propria presa su un corpo sociale sempre più sofferente, ma cionondimeno offerto in pasto ai meccanismi vampireschi di valorizzazione capitalistica.    

Gli scioperi sociali globali sono stati in questi anni i momenti più evidenti di emersione della centralità di questo corpo sociale, di questa cooperazione. Ripetiamocelo: scioperi, perché momenti di lotta contro i dispositivi di sfruttamento, sociali perché investono il “comune”, perché mostrano come sia in questione, direttamente, il modo in cui tutte e tutti produciamo e riproduciamo le nostre vite e il “nostro” ambiente. In un momento così delicato, quando nessuna retorica dell’”eccezione” e dell’eccezionalità può più nascondere l’insostenibilità dei modelli neoliberali, alle esperienze di questi scioperi deve essere riservata tutta l’attenzione e la cura che si deve a dei veri preziosi anticorpi. Nei documenti, nelle discussioni, nelle assemblee e nelle reti di Non Una di Meno, sostenute del resto da quel la lunga storia dell’intelligenza precaria, che sa bene cose significa scioperare per chi non può scioperare, scioperare quando anche lo sciopero è diventato privilegio, questa nuova impossibilità di scioperare e manifestare nelle forme classiche, dettata dalla responsabilità nei confronti delle vite di tutte prima ancora che dalla decisione della Commissione, è diventata l’occasione della ricerca di forme inedite per far sentire il grido del movimento femminista. E anche da queste forme e da queste discussioni stanno emergendo lezioni dal valore politico importante, non aggirabile: la capacità, innanzitutto, di tenere insieme la forza con cui si denuncia come anche le emergenze non gravino su tutti allo stesso modo, ma si distribuiscano secondo le ben conosciute linee di genere, razza e classe, con l’estrema cura con cui si proteggono le vite di tutte e tutti. Lo ha sintetizzato bene l’immagine del flash mob di Roma, agito insieme – che indicazione preziosa, fondamentale, per il futuro politico! – da Fridays For Future e Non Una di Meno, con quel filo viola ad unire potentemente corpi amorosamente protetti e distanziati: insieme, potenza delle lotte, amore e cura del comune.

È una prima indicazione – e insieme il problema politico, tutto aperto – che ci offre lo sciopero femminista, insieme e congiunto a quello ecologista: in una società che è stata saccheggiata e continuamente attraversata dalla ferocia del disastro neoliberale, in una cooperazione sociale tanto centrale quanto letteralmente intossicata, è fondamentale trovare il modo di tenere insieme lotte che proteggono e producono il comune, con lotte contro lo sfruttamento, la precarizzazione, la violenza del comando e delle gerarchizzazioni. Una seconda indicazione che ci viene da questo difficile e importante 8/9 marzo è che questi scioperi emergono lì dove si danno movimenti organizzati, spazi permanenti di discussione e di connessione, assemblee. In una crisi che mostra evidenti restrizioni degli spazi di vita, che militarizza i confini e lo rivendica – il nostro pensiero in questi giorni è ben fisso alla vergogna del comportamento dell’Unione Europea sul confine greco! – è indispensabile che affetti e intelligenze, e anche ribellione e paura, potenza e vulnerabilità – rafforzino luoghi e momenti organizzati. Con un termine che va tutto aperto e trasformato, li chiamiamo contropoteri. Non ci spinge davvero nessun feticcio dell’organizzazione, ma la necessità di conquistare tempo, durata, consistenza. Del resto, una lezione che ci viene dai movimenti transfemministi di questi anni, è anche quella di trasformare radicalmente i modi di fare organizzazione, ma al tempo stesso di dedicare un’attenzione minuziosa ai tempi e alle modalità del discutere collettivamente e del decidere insieme. Questo possibile, e non scontato, nesso, tra scioperi globali e contropoteri ci sembra un’altra indicazione politica fondamentale. Buon 8/9 marzo, buona vita Non Una di Meno!

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